Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Click” di Martina Busola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Quella mattina mi ero svegliata inebriata dal profumo dolce e intenso di gelsomino che era entrato dalla finestra socchiusa, trasportato da un flebile soffio primaverile. Mi alzai e aprii la finestra. Un sole tiepido stava facendo capolino sui tetti, trasformandoli in lucenti giochi di colore. Sembravano un enorme caleidoscopio.

Quella piacevole sensazione durò qualche minuto, una manciata di secondi. Poi il mio corpo iniziò ad agitarsi. Il respiro contratto, le mani sudate e fredde ed il cuore che sobbalzava come se stesse per scoppiare.

Ero tornata alla realtà.

E non avevo voglia di affrontarla.

Cercai di tranquillizzarmi lavando con cura faccia e denti, ma lo specchio rifletteva la mia appannata sofferenza, in un’immagine contrita. I pensieri cominciarono ad arrivare, ad infilarsi tra le pieghe della mente densi e impetuosi, non riuscivo a fermarli, mi inondavano come un mare increspato e schiumoso.

Non mi davano tregua.

 Iniziai ad urlare il silenzio con i pugni sollevati, gli occhi chiusi, serrati, come cuciti. Il dolore che echeggiava dentro il petto, nello stomaco, scorreva nelle vene, marciva.

E poi arrivò la rabbia, cattiva e feroce, che mi fece rompere quello specchio nel quale la mia immagine si spezzò, creando crepe e ferite.

Iniziai a piangere, goccia a goccia, mentre rivoli di sangue tracciavano una sottile ragnatela.

Presi del cotone e del disinfettante, le nocche erano livide e tagliuzzate, avvolsi la mano in una benda e la chiusi facendo un nodo aiutandomi con i denti. Un nodo stretto stretto, come quello che mi sentivo in gola, ancora, e che mi impediva di sputare fuori tutta la mia sofferenza.

Tornai a letto cercando di riprendere sonno, volevo solo dormire per dimenticare, per evitare il contatto con la realtà, con la vita che era stata così bastarda.

Mi coprii con il lenzuolo, infilai sotto anche la testa e mi rannicchiai nella mia posizione preferita, chiusa come un riccio, chiusa per non fare entrare niente e nessuno, come in una gabbia. Chiusa nella mia disperazione e tormento.

Quanto era passato? Giorni, forse settimane. Il tempo per me era diventato inconsistente, una coltre che si appiccicava al mio campo visivo. Non parlavo più nemmeno con papà. Mi ero segregata nella mia camera, volevo restare da sola con il mio dolore, non lo volevo condividere, volevo che appartenesse solo a me, volevo che mi vestisse.

 Povero papà. Anche lui stava soffrendo.

 Ogni tanto si fermava fuori dalla porta della mia camera. Bussava leggermente con le nocche della mano. Mi chiamava sussurrando piano il mio nome, quasi che non volesse disturbare. Mi chiedeva se avessi fame o se avessi bisogno di qualcosa. A volte sentivo che si sedeva per terra, appoggiava la schiena alla porta, girava la testa e mi raccontava com’era andata la sua giornata, chi mi aveva cercata, notizie dal mondo e poi aggiungeva sempre prima di andare via che gli mancavo e che gli sarebbe servito un mio abbraccio, uno di quelli forti che ti tolgono il respiro e che odorano di buono.

Io non gli aprivo mai e gli rispondevo sempre a monosillabi. Era preoccupato, lo sentivo dalla voce che tremava.

Ma non ero pronta. Avevo paura. Affrontare quello che avevo lasciato fuori: la vita di prima, le amicizie, la scuola. Tutto era cambiato, tutto si era trasformato, tutto era diventato senza senso.

Ed io non lo sopportavo.

Forse avevo perso il contatto con la realtà, tutto era distorto, anche i ricordi. Quelli poi mi facevano male, si erano sedimentati all’interno del mio corpo, avevano attecchito come la gramigna.

Sola, volevo solo restare sola. Non volevo sentire parole, non volevo che qualcuno mi abbracciasse o mi baciasse sulla fronte, non volevo sentire nulla.

Perché nessuno lo capiva? Perché mi cercavano? Non ero più quella che ero, non ero più niente.

Mi sentivo come se avessero strappato una parte di me, del mio cuore che ora era a metà, del mio respiro che ora incespicava, della mia anima che era diventata uno stoppino fumante, del mio corpo che faticava a muoversi come se fosse immobilizzato da una forza esterna che lo incatenava.

Aprii un album dove avevo messo alcune foto: le più belle, le più care. Ne avevo incollata una per pagina ed avevo disegnato intorno dei ghirigori, tutti colorati. Avevo anche fatto dei disegni a mano libera, ero brava a disegnare, la mia mano scivolava leggera sul foglio, creava visi, sguardi in perfetta sincronia con la mente e il cuore. Mi faceva stare bene disegnare.

Chiusi l’album, di scatto, con forza. Quel tempo non esisteva più, era stato cancellato, spazzato via come la polvere che sottile si posa sui ricordi.

 Prima ero felice, si, tanto felice. Non mi ricordo la sensazione della felicità, la forma, la consistenza, ma mi faceva stare bene. Vorrei averne una dose, adesso, a disposizione da iniettarmi…se solo bastasse.

Piove, mi avvicinai alla finestra e la spalancai: i tetti erano lucidi, sembravano ricoperti da bava di lumaca, e la pioggia ci saltellava sopra, creando piccoli giochi di luce. Era un saltellare cadenzato, sincopato, poi veloce, quasi frenetico. Aumentava e diminuiva con un suono che sovrastava tutti gli altri rumori, rimbombava perfino nella mia stanza e sui vetri dove le gocce si inseguivano come in una spietata caccia, finendo poi per mangiarsi l’una con l’altra.

Chissà se anch’io finirò per mangiarmi da sola. Forse lo stavo già facendo.

Non vedevo uno spiraglio di luce, era tutto coperto da una fitta coltre di fumo nero che mi smorzava dentro, si depositava lieve come pulviscolo ed ostruiva, non filtrava più nemmeno l’aria che sentivo densa e acre. Facevo fatica ad essere lucida, me ne rendevo conto, e volevo scappare.

 Saltare giù dalla finestra, fuggire lontano affinché i pensieri restassero qui, chiusi in questa camera, in questa casa, abbandonati e lontani.

Avevo freddo. Ritornai nel mio letto e mi aggrovigliai alle coperte. Il cellulare era lì, spento. Avevo chiuso i contatti con il mondo esterno, avrei potuto gettarlo dalla finestra. Non mi serviva più, non lo volevo.

Mio padre bussò, disse che doveva darmi una cosa e mi passò un foglietto sotto la porta. Mi chiese come stavo, disse che avrebbe voluto vedermi e sentirmi, che gli mancavo tanto. Restai nel letto. Poi aggiunse che ero cocciuta, come la mamma.

Ed è stato in questo preciso momento che ho sentito come un click.

 Come se si fosse azionato un interruttore dentro di me.

 La parola “mamma” che non avevo più pronunciato.

 La dissi a voce bassa con un sospiro: “mamma”.

 Dio com’era bella quella parola, era piena, era musicale era densa, rotonda e piena di amore. Mi alzai dal letto e presi il foglietto che papà mi aveva passato sotto la porta.

 Era l’ultimo messaggio di mamma scritto su un post-it giallo che solitamente attaccava sul frigorifero, era il nostro modo di comunicare quando facevamo fatica ad incontrarci.

Lo aprii: “Famiglia, comunico che oggi dovrò recarmi a Torino per una riunione di lavoro, sono le ore 4 del mattino, praticamente è ancora notte, credo di non aver fatto le 4 del mattino nemmeno quando andavo in discoteca, nei miei anni più sfrenati, comunque vi auguro una splendida giornata e ci sentiamo appena i miei capi mi lasceranno libero il guinzaglio! VVTTB”.

Quel giorno mamma era morta in un incidente stradale.

Era una donna straordinaria, il mio punto di riferimento, la mia icona. Perché oltre ad essere bella era paziente, mi ascoltava, mi amava, mi sosteneva, mi abbracciava, era tutta la mia vita.

Quel biglietto racchiudeva il suo ultimo messaggio, era un ponte tra noi, scritto in fretta com’era suo solito fare, con le parole un po’ mangiate con la sua penna nera, e con il suo tocco personale: una rondine in fondo fatta come se fosse un flag.

Aprii la porta e chiamai papà.

Era lì che mi guardava con gli occhi lucidi, i capelli spettinati, la barba incolta e un’ombra sul viso smunto. Gli corsi incontro e ci abbracciamo, forte. Sentivo il suo cuore che palpitava con il mio, un palpito lento che produceva il suono di una triste melodia.

Mi prese il viso tra le mani e mi disse: “ce la faremo, insieme, ce la faremo”. Aveva coraggio negli occhi e dalle sue mani sprigionava un forte vigore. Lo guardai e gli risposi: “sempre insieme”.

Avevo fatto un passo, avevo varcato la soglia, avevo ammesso la morte di mamma.

Avevo bisogno di aiuto e papà era lì per me, per noi. Questo poteva bastare per ricominciare.

Non ero sola.

Il dolore resta perché la morte strappa, estirpa le nostre radici, ci rende inermi, e non lo possiamo sezionare per rinchiuderlo e sotterrarlo. È sempre lì, in agguato, resta al nostro fianco pronto a farsi sentire, a tirarci la giacchetta.

Ma ho imparato a condividerlo, fa meno male. Un po’ si disperde come la sabbia quando soffia il vento.

Mia madre ha lasciato un vuoto, incolmabile, ma se la ricordo, se penso a lei, se ne parlo e ricordo i momenti speciali passati insieme, se cerco le foto, ecco, è come se fosse un po’ lì con me, è come riportarla in vita.

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3 commenti »

  1. Molto triste e molto vero.
    Credo che un linguaggio come questo, una scrittura più diretta e con pochi orpelli, sia la più adatta per comunicare un tema come quello raccontato.

    Alla fine siamo tutti polvere di stelle.

  2. Bellissimo racconto.Descrizione stupenda del sentire dell’anima, x un dolore cosi grande.

  3. Molto bello, triste, intenso, ricco di sentimento e di speranza. Complimenti

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