Premio Racconti nella Rete 2022 “Missione compiuta”… di Paola Zaldera
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Lockichokio, Kenya, campo base dei Caschi Blu delle Nazioni Unite, quattro del mattino.
Odio alzarmi a queste ore impossibili, ma l’aereo non aspetterà di certo me, quindi mi conviene tirarmi in piedi e prepararmi.
Mi infilo pantaloni e maglietta, controllo che nelle scarpe nottetempo non si sia imbucato qualche scorpione e mi avvio ai servizi igienici. Vicino a me altre facce assonnate, altri cooperanti in partenza per destinazioni diverse, saluti in tante lingue, sorrisi nella lingua universale del buongiorno.
Dopo un’igiene sommaria rientro nella mia baracca e mi carico sulla schiena lo zaino grande e davanti lo zainetto con computer, telefono satellitare e documenti.
Dodici chili, non uno di più, sono ammessi per ogni passeggero: per ogni chilo in più che hai necessità di portare sono sette dollari e devi essere autorizzato in anticipo.
Comprensibile, per questi piccoli aeroplani stile “La mia Africa” (massimo otto passeggeri più pilota e copilota) il peso non è un fattore ininfluente, se vogliamo arrivare interi a destinazione.
Mi avvio alla mensa. Non ho fame, ma fare un’abbondante colazione e prepararsi anche un paio di panini e una bottiglietta d’acqua per il viaggio sono cose indispensabili, perché qui sai quando parti ma non sai quando arrivi, indipendentemente dalla distanza della tua destinazione.
Non sai quante location deve toccare il tuo volo e soprattutto non sai in che ordine il pilota, sulla base dei dati meteo e forse anche di un’ispirazione divina, deciderà di fare gli scali. Potresti essere la prima a scendere come arrivare stremata per ultima a destinazione dopo un giorno di volo.
Mi siedo a tavola vicino al sergente che ieri ci ha fatto il briefing sulla sicurezza, mi riconosce e mi saluta sorridente. Per lui questi orari sono la normalità, so che lo ritroverò fra poco sull’airstrip mentre corre trascinando un pesante pneumatico di camion legato in vita, allenamento da perfetto soldato in servizio effettivo.
Del resto sto per entrare in Sud Sudan, paese in guerra da anni, e per fortuna ci sono i militari delle Nazioni Unite che seguono i nostri spostamenti pronti ad intervenire per un’evacuazione d’emergenza in caso di conflitto.
Per questo è obbligatorio arrivare il giorno prima del volo, per fare con loro il punto sulle ultime zone teatro di combattimenti, ripassare i segnali da fare ai piloti degli aerei di soccorso in avvicinamento, ripetere i codici delle chiamate via radio alla base, obbligatorie due volte al giorno. Sono azioni diventate ormai abituali per noi, ma giustamente i Caschi Blu ci ricordano ogni volta che essere in grado di eseguirle con tempismo e in maniera corretta può fare la differenza fra vivere e morire.
Abdi, il mio logista somalo, arriva sul suo scassato pick up per accompagnarmi alla pista. Controlla che il mio bagaglio venga caricato sull’aereo giusto, mi riempie di affettuose raccomandazioni come al solito e so che sarà la mia voce amica mattina e pomeriggio ai contatti radio per le prossime settimane, annoterà e trasmetterà alla sede di Nairobi tutte le mie informazioni e farà l’impossibile per farmi arrivare tutti i rifornimenti necessari, dal cibo alle scorte di medicinali.
In Sud Sudan non c’è acqua corrente, non c’è elettricità, non ci sono strade e men che meno telefoni, non ci sono vere piste di atterraggio per gli aerei ma soltanto piste di terra battuta, impraticabili in caso di pioggia.
Per questo soltanto aerei così piccoli possono garantire i collegamenti e non è insolito che l’aereo che stai ansiosamente aspettando per rientrare alla base per il tuo periodo di riposo dopo sei settimane di lavoro ininterrotto si avvicini alla pista, la giudichi in condizioni pericolose e riprenda quota lasciandoti a terra con il tuo zaino e una rassegnata delusione stampata sul viso.
In Sud Sudan c’è soltanto un’immensa palude, la più grande del mondo, con ippopotami, serpenti e milioni di zanzare affamate, palude da cui spuntano qua e là lembi più o meno grandi di terra con villaggi di capanne.
Uno di questi villaggi sarà la mia casa per le prossime settimane.
Dopo il decollo comincio a fare il punto sul lavoro che mi attende: sono diretta in una landa desolata e poverissima in cui due donne coraggiose, una dottoressa americana e un’infermiera svedese, hanno aperto un dispensario per la cura della tubercolosi, piaga di tutti i paesi poveri e del Sud Sudan in particolare.
Adesso Jill e Sjoukje devono rientrare in patria e hanno chiesto all’organizzazione di cui faccio parte di farsi carico di tutti i loro pazienti.
Dopo avermi inviata sul posto una prima volta per valutare la fattibilità della cosa e la nostra capacità di assorbire circa duecento malati, i miei responsabili mi hanno incaricata di occuparmi di tutti gli aspetti pratici del trasferimento dei pazienti e della smobilitazione del dispensario.
Jill è già tornata negli Stati Uniti, quindi saremo io e Sjoukje a sbrigare tutto il lavoro e dobbiamo fare in fretta, perché la stagione delle piogge si avvicina e renderà impossibile ogni spostamento.
Arrivo nel tardo pomeriggio, quindi per oggi non potremo più fare niente: qui tutto si ferma al calar del sole.
Alla luce di una lampada a petrolio ci scaldiamo qualcosa per cena sugli onnipresenti fornelli a petrolio cinesi e ne approfittiamo per fare conoscenza e dividerci i compiti. Sjoukje è giovane, allegra, svelta nei movimenti e diretta nei discorsi: penso da subito che sarà un’ottima compagna di lavoro.
Conosce molto bene tutti i pazienti e le loro necessità, quindi sarà lei ad organizzare le loro partenze.
Per i casi più gravi, allettati, è stato organizzato un volo con un pilota freelance russo che ci ha fatto un prezzo abbordabile: saranno i primi a partire domani e a loro faranno seguito nei giorni successivi gli altri pazienti che, a gruppi di venti, accompagnati da qualche familiare, si faranno a piedi i duecento e passa chilometri fino al villaggio dove ha sede il piccolo centro sanitario di cui mi occupo abitualmente.
Cammineranno di notte, per evitare il caldo soffocante, e Sjoukje provvederà a consegnare ad ogni gruppo le pile per le torce, i medicinali, il cibo e l’acqua per il viaggio.
Io farò il lavoro di smobilitazione del dispensario: smonterò e imballerò tutte le attrezzature, suddividerò e catalogherò tutti i materiali e i libri in vari bauli, separerò tutte le cose che potremo lasciare alla popolazione locale come aiuto. Mi aspetta un lavoro non da poco: negli anni Jill e Sjoukje hanno messo in piedi un piccolo centro di cura e vogliamo lasciare le capanne in ordine e agibili affinché la popolazione possa usufruirne.
Andiamo presto a dormire, da domani sarà lavoro intenso per giorni: due piccole mosquito tent al riparo di una tettoia sono la nostra camera da letto.
Adoro dormire all’aperto sotto l’incredibile cielo africano: l’aria è talmente limpida che le stelle risplendono mille volte di più e il cielo sembra infinitamente più profondo. Nelle notti di luna puoi andare tranquillamente in giro senza bisogno di usare la torcia. I nostri poveri cieli intorbiditi dall’inquinamento non potranno mai reggere il confronto con questa meraviglia.
Al sorgere del sole siamo in piedi e cominciamo a darci da fare dopo una buona colazione: non ci vedremo più per tutto il giorno e non faremo pause, quindi dobbiamo essere sicure di avere le energie necessarie per reggere i quaranta gradi all’ombra e la fatica che ci aspettano.
Comincio a lavorare con metodo, sgombrando, smontando, imballando e registrando ogni cosa.
Verso metà mattina il cielo si illumina di un chiarore giallastro e quasi inquietante: è in arrivo una tempesta di sabbia.
Per tutto il giorno il vento fischia impietoso, trascinando mulinelli di terra, foglie, rami e carte ovunque: inutile cercare di proteggersi, questa sabbia è una polvere talmente fine che so già per esperienza che in un attimo, nonostante i vestiti e il telo che mi protegge i capelli, ne sarò invasa.
Pazienza, stasera ci daremo una ripulita con un paio di taniche d’acqua per riprendere un minimo di aspetto umano, qui non si guarda tanto per il sottile. La brutta sorpresa arriva al momento di coricarsi: la sabbia ha completamente invaso le tende, se vogliamo dormire dobbiamo ripulirle e scrollare i materassini. Addio alle ultime povere scorte di energia…
Per giorni la vita mia e di Sjoukje è scandita dalle partenze e dal numero dei bauli, ognuna immersa nei suoi compiti dall’alba al tramonto, ma ogni sera abbiamo qualche bel momento solo per noi.
Dopo cena, finalmente sedute comode, ci raccontiamo di noi, delle nostre vite, dei nostri sogni e delle strade che abbiamo percorso fin qui: due nazioni, due culture, due storie e due lingue diverse, ma in comune l’entusiasmo, la voglia di vivere una vita piena e di concretizzare le cose in cui crediamo.
Siamo felici, stiamo bene con le scelte che abbiamo fatto, tutto il resto si può superare.
E intanto giorno dopo giorno Abdi, preciso e puntuale come sempre, ci comunica via radio buone notizie: i piccoli gruppi di pazienti stanno arrivando uno dopo l’altro alla meta, accolti dai semplici festeggiamenti della nostra équipe e della gente del villaggio.
Poi, finalmente, dopo giorni e giorni di lavoro, tutti i malati sono partiti e hanno raggiunto il nostro centro sanitario in buone condizioni, i bauli con i materiali sono tutti sistemati, le capanne sono pulite, per quanto possibile.
Non resta che aspettare l’aereo che verrà a prendere me e Sjoukje per portarci verso le nostre nuove destinazioni.
Una volta a bordo, ci guardiamo sorridendo e ci stringiamo in un forte abbraccio. Probabilmente non ci incontreremo mai più, ma non dimenticheremo questo pezzo di vita che abbiamo condiviso: insieme abbiamo fatto un buon lavoro e ne siamo orgogliose.
Siamo orgogliose di aver dimostrato che due donne determinate possono da sole portare a termine un compito impegnativo e faticoso.
Missione compiuta…
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Più un reportage di avventura che un vero racconto, ma è ben scritto, è trascinante e si lascia leggere volentieri. Brava.
Una finestra su una realtà che merita d’essere raccontata. Impegno, fatica ed orgoglio, nel e per il lavoro svolto, si percepiscono dall’inizio alla fine del racconto tenendo il lettore per mano attraverso le varie fasi del viaggio.. “sai quando parti ma non sai quando arrivi, indipendentemente dalla distanza della tua destinazione” è anche, tra le righe, una bellissima metafora del “viaggio” di ognuno di noi.
La scrittura senza fretta mi colpisce sempre, la capacità e la pazienza di indugiare sui dettagli sono una marcia in più.
Questo breve racconto mi ha catapultata in un mondo a me sconosciuto, interessante!
Ecco un’altra finestra su realtà sommerse e poco o per nulla conosciute, perlomeno ai più. È molto importante raccontarle, e anche questa volta lo fai molto bene. Quando leggere ci porta altrove e ci lascia qualcosa, lo scrivere è andato a segno. Qui missione compiuta in pieno.
Grazie a tutti per i commenti gentili. Quelli che ho narrato nei due racconti sono pezzi della mia vita, che è stata varia e per certi versi avventurosa. Sono esperienze reali e ricordi che mi sono cari.
Non so se racconti tue esperienze personali o di altri e di altre, ma sai far entrare nel mondo che rappresenti e comprendere la complessità, la determinazione, la capacità di resistere per arrivare dove bisogna. Grazie.
Come un diario, che aggiunge alle vivide sensazioni personali il racconto di una realtà lontana che è bene ricordare.