Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Il vecchio servizio Ginori” di Claudia Faenzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

M’hai urlato contro talmente forte che credo d’aver percepito quanto di più simile all’onda d’urto di un’esplosione, l’espansione quasi istantanea dello spazio attorno a noi. Per assorbire il colpo, immobile mentre sui miei piedi si deposita una colata di cemento a presa rapida, sbatto le palpebre. Continuo a guardarti, non ho paura, ma nella stasi sento il rumore di qualcosa che si sgretola dentro di me, non so dire cosa ma il tonfo di questo crollo interno mi rimbomba nella testa come l’eco di un ricordo.
Sei dall’altra parte della stanza eppure riesco a percepire il tuo respiro. Sei tu ad aver paura.
Un altro istante ed un fischio, lento, costante, inarrestabile, mi riempie le orecchie, non proviene da alcuna fonte sonora, eppure fa vibrare ogni centimetro del mio corpo, in un attimo si fa buio.
Mentire è facile finché non lo è più.

Eccomi in salotto a casa dei miei genitori, le gambe mi penzolano dalla sedia, la seduta è talmente ampia che con l’incavo del ginocchio riesco a scavallare il bordo soltanto di poco.
Tra le mani ho delle matite colorate della Faber Castell, l’astuccio è quello in metallo da 36, poggiati sul tavolo una serie di fogli, alcuni bianchi altri già disegnati, sottomano ne ho uno sul quale sto cercando di ritrarre il profilo di un gatto. Non riesco a trovare la giusta profondità del muso che di volta in volta viene o troppo schiacciato o troppo allungato e finisco per ritrovare sul foglio prima una scimmia poi un tapiro.
Nella stanza a fianco sento un sommesso borbottio che prende lentamente forza, come quando metti la pentola a pressione sul fuoco ed il processo che porta all’ebollizione subisce un’evoluzione sonora.
Cominciavano così le liti tra i miei genitori, la prima bolla ad arrivare in superficie era sempre mia madre, nel suo tono c’era una sfida sprezzante, la pretesa della ragione, l’arroganza di chi si sente intoccabile e lei lo era, intoccabile.
Quando mia madre gridava fermavo la punta della matita sul foglio per poi riprendere nei momenti di silenzio, mi fermavo e riprendevo, mi fermavo e riprendevo.
Sembrava a volte, nell’altalena della discussione, di sentire la Suite di Nino Rota in Guerra e Pace.
Riuscivo a percepire i passi pesanti di mio padre, lo vedevo anche attraverso le pareti, neanche fossero trasparenti, camminava rapidamente in cerchio, come se quell’azione ripetitiva fungesse da valvola di scarico perché lei era intoccabile, potevano crollare i muri di casa, anzi poteva implodere l’intero palazzo ma lei ne sarebbe uscita incolume, e sarebbe rimasta lì ad urlare contro le macerie.
Quando la pentola a pressione comincia a fischiare significa che la temperatura ha raggiunto il valore ideale e quindi si può ridurre al minimo la fiamma, anzi si deve. Mia madre non si è mai intesa di cucina e di certo era lontana dal comprendere il momento in cui risultasse necessario abbassare al minimo la fiamma.
Arrivava così l’esplosione, e con lei lo scoppio assordante che l’accompagna, se mia madre era la prima bolla ad arrivare in superficie mio padre era l’esplosione, le esplosioni non si gestiscono, ma sopratutto, una volta innescate non si fermano.
Riusciva a spezzare tavoli come fogli di carta, sfondare armadi come fossero fatti d’acqua e a quel punto mia madre caricata dall’adrenalina della tanto agognata ragione prendeva i piatti da servizio – noi avevamo i vecchi Ginori di ceramica bianca con dei disegni tono su tono in rilievo – e cominciava a lanciarli, più la rabbia era stata repressa nel tempo, più il lancio era violento, più si percepiva in maniera netta il suono della materia che sferzava l’aria nella stanza. Delle volte riuscivo a distinguere i piatti piani dalle fondine, e quelli da antipasto dal diametro più piccolo da quelli da dolce. La vibrazione era totalmente differente ed anche lo schianto, più pesante o più leggero e quando s’infrangevano contro il muro alcuni si spezzavano in due parti, altri si sgretolavano in mille pezzi.
Quei pezzi di coccio in caduta libera erano la mia caduta libera.
Il silenzio che seguiva l’impatto era ancora più fragoroso.
Avevo la sensazione che quei cocci sgretolati per terra rimanessero attaccati a mia madre con un filo invisibile, nei giorni a seguire se ascoltavi bene, mentre camminava per casa, potevi ancora sentirli tintinnare, lei non ne sembrava infastidita, li indossava anzi con eleganza e disinvoltura, eredità involontaria delle famiglie dabbene.
Altre volte i frantumi somigliavano più ai segni lasciati dalle scottature solari. Quando ti scotti e la pelle si solleva provi una certa soddisfazione nel cercare di rimuoverla, è una pratica che si cura con estrema minuzia, eppure qualche pezzo non ne vuole sapere di venir via.
Per quanto ci provassimo, delle volte anche insieme, io e mia madre, quei pezzi di pelle morta restavano lì attaccati lasciandoci una sensazione di sporco, incompiuto, imperfetto.
I cocci nella maggioranza dei casi finivano nella pattumiera in cucina ed io puntualmente li andavo a recuperare.
Ho cominciato così ad apprendere l’arte del Kintsugi, un’antica pratica giapponese secondo la quale quel che si rompe guadagna una nuova vita e grazie a quelle “cicatrici” si trasforma in qualcosa di più prezioso.
Ogni pezzo riparato si lega all’altro attraverso l’utilizzo di un metallo pregiato – il più delle volte oro, argento liquido o lacca con polvere d’oro – ogni pezzo riparato è unico ed irripetibile per via della casualità con cui la ceramica si frantuma.
L’arte di abbracciare il danno.

Riapro gli occhi, davanti a me ci sei tu.
Percepisco nuovamente le dita delle mani, riesco a spostare il peso da una gamba all’altra, ho riacquistato del tutto la sensazione dello spazio circostante, il fischio si è finalmente interrotto.
Sulla mensola alle tue spalle c’è quel Ginori di vent’anni fa, la mia prima rinascita.
Ti vengo incontro, rimani immobile, passo oltre, prendo il piatto e torno verso la porta attraversando la stanza. Scende dentro di me in quell’istante un’inattesa consapevolezza.
Raccolgo la borsa, accenni un timido “Gaia…” cerco le chiavi, “Scusami” separo quelle di casa dal mazzo,
“Scusami. Andrà meglio” le tengo in mano un istante come a cercare di percepirne il peso poi le poso sul tavolo. “Scusami.”
È solo un eco scarico.
Apro la porta, ti sorrido, “Non abbiamo mai comprato un servizio di piatti”, esco.
Mentire è facile finché non lo è più.

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5 commenti »

  1. Un flusso di coscienza che sembra un film, mi è piaciuto moltissimo. Molto bella l’ analogia dei cocci e tutte le immagini che descrivono gli stati d’ animo.

  2. “L’arte di abbracciare il danno”, magistrale espressione per definire un compito che nella vita tutti siamo chiamati ad affrontare. E nell’età infantile le persone più care sono spesso quelle che, inconsapevolmente, provocano i più fratturanti. Amo molto il Kintsugi, simbolo di questa riparazione continua, nello sforzo di rendere le cicatrici occasione di bellezza. Grande qualità della scrittura, molto bello.

  3. Ho sentito il fischio nelle orecchie e ho provato il fastidio delle liti genitoriali, rievocato quando ti strillano contro. Ho sentito la delusione del finale ma anche la felice consapevolezza dell’alternativa al mentire, ossia il cambiare, rappresentato anche dal rimettere insieme i cocci del Ginori, con l’oro però. “Mentire è facile finché non lo è più.” Davvero toccante. Complimenti!

  4. Secondo me un buon racconto è tale quando non ci sono solo dei fatti, la cronaca, ma tutto ciò che la realtà, sempre, si porta dietro in termini di immagini, analogie, sensazioni, suoni.

  5. Complimenti per il tuo modo di scrivere. Mi è piaciuto molto, pieno di immagini vivide come le scottature che rimangono addosso, compatto e circolare fra presente e flashback. Mi ha riportato a Leonard Cohen: “You can add up the parts but you won’t have the sum, there is a crack, a crack in everything, that’s how the light gets in”.

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