Premio Racconti nella Rete 2022 “Ricordi d’infanzia” di Anna Bani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Non saprò mai cosa spinse mio padre a spararsi un colpo di pistola in quel bruciante tramonto di trent’anni fa, la sera prima della sua esecuzione all’Opera di Parigi del concerto n. 1 di Chopin. Eppure la vera tragedia non la vissi allora. No. La mia sensazione, in quel momento, fu quella dell’impossibilità di comprendere ciò che era accaduto, o meglio, di credere reale l’intera scena; come se quell’uomo dal capo riverso sulla tastiera bianca macchiata di sangue, non fosse stato realmente mio padre ma un attore mirabilmente calato nella parte, che, da un attimo all’altro, si sarebbe rialzato per assicurarci con un sorriso che, sì, era stato bello, era stato coinvolgente, ma ora tutto era finito e la realtà tornava a rivestire i suoi panni quotidiani. Ma non si trattava di una finzione e l’espressione più indispettita che disperata di mia madre, lo squarcio sulla manica che un movimento forse troppo brusco aveva provocato nella giacca di mio padre, il terrore che qualcuno mi avvicinasse al suo corpo inanimato e di doverne così contemplare il viso, fecero di quella scena un nodo di sensazioni contrastanti che per anni sono stato incapace di sciogliere. Ciò che avvenne subito dopo l’ho rimosso: ricordo solo vagamente valigie preparate in tutta fretta, traboccanti di abiti eleganti ormai ridotti a stracci di seta, una bottiglia di profumo in frantumi sul pavimento, la sua essenza soffocante che si diffondeva per le stanze deserte e, ancora una volta, il volto serio di mia madre, ma non addolorato. Certo la memoria ha strani meccanismi: assimila qualsiasi violenza, anestetizza qualsiasi dolore, lasciando solo un lieve malessere che accompagna le ore, i mesi, gli anni e poi diventa la vita stessa , tanto che alla fine, non si percepisce più; come il ticchettio monotono che discende dalla parete dove è appesa una vecchia pendola cui più nessuno dà la carica ma che scandisce un suo tempo , misterioso e lontano. Tornammo in Italia, dove mia madre riprese a impartire lezioni di canto e un giorno, contemplando la mia immagine allo specchio, decise che la mia figura troppo pingue e i chili in eccesso mi avrebbero senz’altro impedito di intraprendere la carriera artistica (giacché era stato deciso che sarei diventato un pianista come mio padre) e che, per questo motivo, era necessario correre al più presto ai ripari. Il “riparo” significò per me cinque anni di clausura in un istituto per obesi, dove avrebbero dovuto insegnarmi un’alimentazione corretta e dove imparai a distinguere me stesso dagli altri sulla base dei chili di carne in più o in meno che caratterizzavano i nostri corpi. Ma si sa, non c’è prigione all’interno della quale un individuo, anche il più misero , non sappia ritagliarsi un angolo di libertà e procurarsi una boccata di ossigeno per ricomporre quell’armonia che la sua esistenza brutalmente gli nega, e tutto ciò io lo trovai nello strumento del violino che appresi ad amare proprio in quel collegio, sempre per fuggire dal mio presente e dall’incubo del mio passato. Mi chiedo spesso cosa sarebbe stata la mia vita senza la musica; potrei dire, parafrasando un grande filosofo, che solo suonando riesco ad attingere l’essenza di quella realtà che dalla maggior parte degli uomini è vissuta come in sogno, ma la verità è molto più semplice: suonare significa afferrarmi alle radici, sentirmi “fondato” in qualche luogo, camminare su una corda tesa, lungo la quale si distribuisce l’equilibrio di tutta la mia esistenza. Certo, trascorsa l’adolescenza in quel famigerato istituto svizzero, fu inevitabile, all’inizio della mia giovinezza, misurarmi col pianoforte, giacché mia madre, la cui vocazione irresistibile rimaneva pur sempre quella di pianificare la vita altrui, aveva già deciso per me un futuro brillante come quello che mio padre, per misteriose ragioni, aveva voluto troncare. Ma dovette ben presto arrendersi: il pianoforte era la mia bestia nera e tale sarebbe rimasto per sempre. Ogni volta che tentavo di eseguire qualcosa, il tremito delle mie dita era tale che a malapena riuscivo a sfiorare i tasti giusti, e questo perché l’armonioso suono associato a ciascuno di essi si trasformava alle mie orecchie nell’eco spaventoso di un colpo di pistola, quello stesso che, tanti anni prima, aveva stroncato la vita di mio padre. Bisognerebbe riconciliarsi col proprio passato ; esso un tempo è stato presente ed ha rappresentato il nostro compito, il nodo da sciogliere, l’ostacolo da superare, ma queste sono cose che diciamo agli altri, il sentiero che indichiamo loro quando smarriti ci chiedono la via, non quello che seguiamo noi. Noi ce ne stiamo a letto a fumare, a macerarci e la nostra vita se ne va in fumo, proprio come le nostre sigarette. La verità è che il passato, come tutte le cose che abitano il tempo, ci pone davanti alla realtà della fine; ogni cosa ci bisbiglia che dobbiamo finire ed è appunto questa la terribile verità che il nostro io vuole rinnegare: tutta l’esistenza dell’uomo, in fondo, si riduce a un furioso delirio di negazione. Quando fu evidente che il mio trauma infantile mi avrebbe impedito per sempre di realizzare le ambizioni materne, tornai a quella che era per me la voce del presente: il violino, il cui suono è armonia, bellezza pura. Non per costruire la brillante carriera che altri sognavano al posto mio, ma solo per ritrovare me stesso e, chissà, forse la pace dei ricordi. Così sono tornato a Parigi. Ho salito di nuovo le scale del Sacro Cuore e ho contemplato dall’alto la città bella come una regina in un giorno di festa, ho ammirato le sue state abbaglianti di gloria, le sue chiese antiche come il mondo; ho sostato sotto l’arco di trionfo e ho imparato i suoi eroi scolpiti nella pietra, ho pregato alla luce sommessa di Notre Dame, mi sono sentito nuovo e antico insieme, ma comunque pronto. Credo di aver sempre avuto un aspetto sotterraneo del mio carattere, come tutti del resto; quello dove scorre una corrente segreta che trasporta lontano i mostri evocati dal nostro io quando, per pochi istanti, cessiamo di sorvegliarlo e soffocarlo con le cautele del nostro consolidato buon senso. Forse per questo ho subito amato la metropolitana di Parigi, quel gigantesco ventre sotterraneo dove l’inizio si ricongiunge con la fine , dove ci si perde e ci si ritrova, dove si vive come in un sogno oscuro, come messi in parentesi prima di essere “sbadigliati” alla luce del giorno e restituiti all’incanto della città che vive in superficie. Ho stabilito la mia dimora in quel mondo sotterraneo: per vivere suono il violino, suono musiche trasparenti come sogni, o infuocate come danze gitane al chiaro di luna, suono per viaggiatori distratti e nervosi che spesso lasciano cadere nel mio piatto le loro monete di disprezzo o di pietà. Ma non importa, sono un incantatore e loro i topi che, prima o poi, verranno trascinati dal mio canto. Non m’importa del successo e delle sue chincaglierie, mi basta questo tramonto che incendia Parigi, qui, dall’alto di Montmartre, coi suoi quartieri di ex mercanti di schiavi e i suoi bazar di stoffe colorate, impregnati dagli odori pesanti di una cucina a poco prezzo; qui, forse perché è di nuovo il tramonto, qui posso comprendere la morte di mio padre e il suo miraggio; qui posso abbeverarmi alla fonte che zampilla dai rimpianti ed uscirne nuovo come un bimbo. Non so nemmeno perché ho voluto scrivere questa storia; forse soltanto per sfidarmi, forse per quell’annuncio che parlava di un concorso per giovani scrittori. Non mi aspetto premi; è già tanto per me, sopravvivere ogni giorno al mio passato.
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Spesso il lettore è attratto da particolari che lo scrittore, forse, non immagina nemmeno che possano essere così densamente significativi. D’altronde siamo fatti tutti del nostro passato e ci attrae sempre qualcosa che, pur essendo fuori, abbiamo dentro! Dopo questa piccola premessa, ti dirò quale immagine mi si è fissata dentro: la valigia, la boccetta di profumo distrutta, il vuoto delle stanze inondate da un’essenza troppo forte da sopportare, e la pendola che nessuno più ricarica.
In generale, c’è tanta poesia in questo romanzo di formazione in miniatura.