Premio Racconti nella Rete 2022 “Variazioni Goldberg” di Cesare Cuscianna
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022“Come una nascita ogni morte alimenta il mistero“
Lavorando di notte si era assuefatto a scansare il giorno dormendo, così la sera del 4 Aprile 1982 la sveglia suonò come al solito alle sette di sera nel cottage. Glenn Gould amava l’isolamento di quella casa sulle rive del lago Simcoe. Dopo la morte della madre non spegneva più le luci del piano terra, né di notte né di giorno. Dal letto le finestre proiettavano varchi giallastri nelle tenebre, inquadrando cumuli di neve fradici per il disgelo e spezzoni di abeti. Avvicinandosi alla costruzione isolata nella pianura si aveva l’impressione di essere guidati da un faro perpetuo, sospeso sulla linea dell’orizzonte. Era avvolto da un velo di stordimento, i sogni lo lasciavano in preda ad eccitazioni incomprensibili, o depressioni immotivate e prostranti. Allungò una mano verso il comodino, alla ricerca del termometro, temeva la febbre. Per rassicurarsi misurava la temperatura più volte al giorno, come da bambino aveva un tempo fatto la madre.
Nei cinque minuti che riservava all’operazione Glenn Gould pensava intensamente alla morte. La dilatazione del mercurio avrebbe potuto rappresentarne la prima avvisaglia. A quel punto inutile sedersi al pianoforte. Rigido su un fianco attese con ansia crescente lo scadere del tempo fissando le tenebre incerte al di là della finestra. Il tramonto aveva lasciato alta nel cielo una colorazione rosata che striava le nuvole. Quello spettacolo non gli comunicò che desolazione. Sarebbe morto com’era vissuto, solo. La folla di ipocriti che l’attorniava ammirava il suo successo, non lui, il tremebondo, eterno adolescente imprigionato nei panni del mito. Lo avrebbero abbandonato non appena imboccata la parabola discendente, quei finti amanti. Si trastullava con loro come un monarca coi cortigiani ma a tempo debito, era certo, sarebbe stato punito. In caso di malattia avrebbe potuto contare su cortei prezzolati di medici ed infermieri, sugli insipidi incoraggiamenti di estranei, ma nessuno che si dedicasse a lui con amore. Sarebbe mancato al suo capezzale il dolore autentico, e con la morte non avrebbe raccolto più di una riflessione di circostanza: “Il povero Glenn, così geniale, così bizzarro”.
Nei lentissimi minuti impiegati dal mercurio realizzava con orrore di essere stato incapace in tutta la vita, nei cinquant’anni che fra pochi mesi sarebbero scoccati, di solcare a fondo l’esistenza di alcuno. Aveva sparso i suoi artifici di artista su platee vaste ma lontanissime, irreali. No, non avrebbe lasciato niente di vivo dietro di sé. Non un figlio. La sua vita rischiava da un momento all’altro di svanire nel nulla. Come un sasso scagliato nel lago nero che gli stava di fronte. Un tonfo, un po’ di spruzzi e poi il silenzio, per sempre. Ma la distanza dagli altri era servita a proteggerlo da quei vicini ostili, i suoi simili. I maledetti sembravano in possesso di un acuminato potere. A nessuno permetteva di salutarlo toccandolo. Inconcepibile, niente lo faceva andare in bestia quanto una pacca sulle spalle. All’inizio credeva che la paura fosse solo quella di un’infezione, ma presto aveva compreso, erano gli uomini gli ordigni pericolosi. Altrimenti perché temere il contagio parlando al telefono? se udiva un colpo di tosse riattaccava subito. Da quando aveva smesso le esibizioni dal vivo rimaneva il suo mezzo privilegiato di contatto. Anche allora però avvertiva il bisogno che l’interlocutore fosse solo: “C’è qualcuno con te nella stanza?” chiedeva. Al di là del filo i gregari di una cerchia selezionata, a vario titolo coinvolti nelle attività musicali. Discutevano di lavoro.
Con un brivido di apprensione trasse il termometro. Il corpo era fresco come un germoglio. Un’energia nuova lo investì. Poteva lavorare. Doveva solo controllare la pressione arteriosa. L’apparecchio elettronico non lo fece attendere: 130 su 80. Il dottor Driscoll aveva raccomandato che la pressione minima non superasse i novanta, per via del cuore, non c’era quindi bisogno di prendere la compressa di diuretico. Cominciava a fare effetto proprio quando era più assorto, rapito dal lavoro trascurava i primi segnali di distensione della vescica, doveva poi correre a vuotarla mentre quasi si inondava, come un bambino.
La madre fu sua insegnante sino ai dieci anni, ogni carezza al piano era un omaggio a lei. I tasti d’avorio, gelidi e setosi, evocavano il distacco ed insieme la tenerezza della sua voce, la presenza assidua che gli aveva consentito di stravolgere le logiche musicali. Ora la sfida era strappare ancora consensi a quel fantasma. Non aveva condiviso molte interpretazioni, né la rabbiosa presunzione da cui originavano, ma sbalordita dalla follia di quell’unico figlio lasciò che si sviluppasse, certa che se una via le fosse stata impedita, altre ne avrebbe intraprese, meno innocue.
La notte del 4 Aprile 1982 le prime note cominciarono dunque a levarsi tra le pareti in tronchi di pino del cottage poco dopo le dieci. Glenn Gould aveva indugiato sotto la doccia bollente, era sempre infreddolito. Indossati uno sull’altro due maglioni e i mezzi guanti per combattere gli spasmi circolatori alle dita, sedette infine ad un nero pianoforte a coda. Gli piacevano i bassi chiari e limpidi, per inseguirli aveva manomesso sino a rovinare più di uno Steinway. Esigeva di lavorare su strumenti assoggettati in schiavitù totale. La sala d’incisione allestita nel seminterrato ne custodiva tre, enormi dinosauri assopiti ma ben accordati. Stavolta, d’impulso, il prescelto risultò essere il piano con cui aveva iniziato la carriera di concerti, lo stesso con cui aveva poi deciso di concluderla, otto anni addietro, a Los Angeles. I giornali ingigantirono il caso del pianista che al culmine del successo rinunciava alle ovazioni del pubblico per chiudersi nella solitudine di una sala d’incisione. Ma lui non desiderava altro che abbandonare quelle esibizioni da circo equestre. Ogni volta lo assaliva il terrore che la sala gremita e buia gli si rivoltasse contro, sommergendolo di fischi e critiche vocianti. E poi quegli sguardi, centinaia a scrutarlo dentro, attraverso ogni poro dell’epidermide. Inerpicarsi su un palcoscenico era stato come affrontare i leoni, la prima imprecisione sarebbe stata l’occasione per sbranarlo. Ma questa soddisfazione non l’aveva mai concessa.
Ora, nel buio della sala d’incisione, sotto la luce concentrata di pochi e discreti faretti da lui stesso disposti, anche la lunga ombra lucida del pianoforte sembrava svanire. Solo così l’illusione poteva nascere, e la musica sgorgare dalla pelle. In questo lavorio tra il mistico ed il fantastico aveva un pubblico solo immaginario, docile ed acclamante. E la madre, essere incorporeo da meravigliare ancora. La sua morte, sette anni addietro, aveva segnato l’ingresso in una nuova dimensione, quasi che l’evento avesse imposto magie più impegnative. La musica non interveniva a salvare un ricordo ma piuttosto a preservarne due, quello materno e lo stesso suo.
Quando dopo un attento riscaldamento le mani di Glenn Gould prendevano a correre come foglie spinte dal vento l’agitarsi sulla tastiera appariva casuale e lunatico. Ma presto si mutava in folata vitale: musica. Libero da ogni soggezione suonava per sé e la madre. Dal ritmo del brano emergeva il linguaggio di un’infatuazione, al confronto ogni parola sarebbe parsa ottusa, come il battere di una mano sulla coscia. Solo lei poteva intendere, ovunque fosse andata a perdersi fra le ere. A volte era la madre ad avere la meglio, e come un metronomo interveniva a moderare gli slanci. Altre volte invece l’estro si imbizzarriva e le note colpivano veloci lo spazio lacerandolo con frustate, o si trascinavano lente come funerali. Ma quella sera l’incanto si rifiutava, sembrava che il pianoforte avesse contratto nel buio intrigo di corde, martelletti e lievissime strutture lignee un malanno misterioso. I suoni che gemeva erano patetici come sbuffi di vapore di una vecchia locomotiva. O almeno tali parvero a Glenn Gould.
Presto la scarsa pazienza lo abbandonò, percosse col pugno la tastiera che reagì con una dolorosa risonanza. Spinse via lo sgabello speciale che gli consentiva di sedersi nell’inusuale posizione, la testa quasi all’altezza dei tasti. Si avvicinò barcollando al pianoforte della madre. Su di esso lei gli aveva insegnato, con le dita sulle dita. Ed era stato quel pianoforte a suscitare le prime infantili curiosità, non il corpo di una donna. Ma dopo la sua morte non l’aveva più toccato, immaginava che un gemito sarebbe scaturito dalla cassa, come dal ventre di un cetaceo ferito. Ora qualcosa ve lo riconduceva, forse il richiamo di una musa devota. Si inginocchiò.
Appena le mani esitanti fecero per posarsi scoccò tra i tasti un lampo galvanico, la scossa realizzò più di quanto mostrasse il sussulto di Glenn Gould. In quell’istante infatti un fenomeno nuovo si andò perfezionando tra il pianista ed il mezzo. Sospese sulla tastiera le dita sostavano a mezz’aria, immobili, ma obbedendo ad un miracolo il suono prese egualmente a generarsi. E risultò di qualità sovrumana, perché nulla di reale sarebbero state in grado di produrlo.
Una melodia perfetta avvolse le ombre della sala di incisione, la colmò, filtrò tra le fessure invisibili dei pannelli insonorizzanti, al di sotto delle porte, scovando bui e contorti percorsi avanzò tra i cavi elettrici e i tubi idraulici. Come levigata colata traboccò per la casa e da lì, soavemente, nella pianura circostante. Ma non destò meraviglie visibili, l’auditorio era deserto, ed anche l’edificio, e la pianura tutta. La superfice nera del lago Simcoe vibrò appena, come per una ventata improvvisa e radente. Glenn Gould non si sorprese del prodigio, come lo attendesse. Mille volte aveva smaniato perché i muscoli stremati e asfittici, le articolazioni dolenti si affrettassero all’inseguimento di idee invece velocissime. La carne era esecutrice troppo lenta.
Le Variazioni Goldberg, l’inarrivabile aria di Bach, sempre aveva cercato di ricrearla, imponendo alla partitura il suo carattere. Dalla prima registrazione del 1955 all’ultima, cui ancora lavorava in quei giorni, non era mai soddisfatto. Avrebbe pagato chissà cosa per essere liberato da quell’ossessione. Sentiva che avrebbe potuto fare meglio. Ma ora, senza che li sfiorasse, i tasti accoglievano i desideri e li esaudivano, ora la perfezione di continuo sfiorata era raggiunta. Il sortilegio materno rendeva quella notte la più bella della sua vita.
Esattamente sei mesi dopo, il 4 Ottobre 1982, alle 11,30, Glenn Gould moriva per ictus cerebrale al General Hospital di Toronto.
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Ottimo racconto, ben scritto e davvero coinvolgente.
Definire il tuo racconto una speciale fanfiction è riduttivo, lo so. Trovo carina l’idea di intervenire sulla biografia di personaggi realmente esistenti/esistiti, un po’ come un omaggio, un po’ come commossa partecipazione. Mi chiedevo quanta fantasia vi fosse e quanta realtà, tra le righe veramente ben scritte di questa piccola grande storia.
Grazie, lieto che ti sia piaciuto
Ciao Simona, grazie di aver letto e commentato! Risolvo le tue curiosità: per un periodo sono stato molto colpito dalla personalità di Glenn Gould e ascoltavo “in loop” le sue Variazioni Goldberg”, pur non essendo un musicofilo. La curiosità mi ha spinto a documentarmi, e quindi ti posso dire che molti particolari corrispondono alla realtà, perlomeno a quella raccontata da persone a lui vicine, la cura maniacale per i pianoforti, lo sgabello speciale per assumere la posizione da lui preferita mentre suonava, la personalità egocentrica, fobica, restia al contatto con gli altri, il legame speciale con la madre, la casa sul lago Simcoe. Tutto il resto è, ovviamente, invenzione fantastica.
Ritratto toccante di un’anima inquieta imprigionata nei panni del mito.
La fama che non dà ma toglie, gli artifici, le platee irreali, l’ansia di deludere e non soddisfare le proprie aspettative, quelle del pubblico e della figura materna si mescolano tra ossessioni e tenerezze al senso più profondo dell’arte della musica.
Davvero bello.