Premio Racconti nella Rete 2022 “Notte di guardia” di Paola Zaldera
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Lentamente il cancello si chiude alle mie spalle, saluto l’agente di turno alla block house e scherziamo un po’ sul fatto che siamo sempre qui, a “combattere il crimine”, come diciamo spesso con ironia.
Pian piano anche l’inferriata davanti a me si apre, permettendomi di accedere al cortile esterno e raggiungere la portineria, deserta, tanto per cambiare.
Sempre troppo poco personale in turno, è una malattia cronica ormai…
Apro il mio armadietto, deposito la borsa controllando che il cellulare sia spento, metto sigarette e accendino nel portapenne che porterò dentro con me e mi avvio alla carraia.
Supero un’altra porta, poi il grande portone da cui transitano i furgoni della penitenziaria e arrivo nel cortile interno che dà accesso ai padiglioni, nel buio riconosco le sagome delle serre e del casotto delle anatre, che di sicuro stanno già dormendo.
Altre due porte e due cancelli in un lungo corridoio: davanti ad ognuno suono, attendo che mi riconoscano dalle telecamere e mi aprano e proseguo.
Arrivare all’infermeria è un piccolo viaggio, un lavoro prima di iniziare il lavoro.
Il tempo negli Istituti penitenziari ha un altro significato, è scandito da altri ritmi rispetto al mondo esterno: nei corridoi ci sono degli orologi a muro, tutti regolarmente fermi da anni a ricordarti che adesso sei “nell’universo carcere”, che devi cambiare passo e adeguarti a una lentezza e a una rigida routine che non ti appartengono ma che condizionano la vita di tutti in ogni momento.
Qualsiasi cosa, dalla semplice richiesta di acquistare un dentifricio alla domanda di trasferimento ad altro Istituto, ha un suo iter che non può essere bypassato né abbreviato, pena l’annullamento della richiesta, che comunque si perde già abbastanza spesso nei mille passaggi obbligati anche se fai tutto correttamente.
I detenuti più esperti sanno, e anch’io ormai, che conviene scrivere più e più volte le “domandine”, fino al completamento del percorso o quantomeno fino allo sfinimento del funzionario che se ne deve occupare.
Alla rotonda mi fermo a salutare gli agenti che controllano i monitor, attenti a cogliere ogni segnale di comportamenti pericolosi, i cosiddetti “eventi critici”.
Al momento sembra tutto tranquillo, i detenuti stanno rientrando nelle celle senza problemi, la chiusura è quasi terminata.
Faccio capolino nell’ufficio della Sorveglianza e saluto l’ispettore di turno, ci faremo compagnia fino a mezzanotte, quando arriverà il suo cambio; per il mio dovrò aspettare le otto di domani mattina.
Finalmente approdo al corridoio dell’infermeria e lancio una voce alla collega che ha fatto il diurno. Mentre ci passiamo le consegne gli infermieri si preparano a salire ai piani con i carrelli della terapia serale, la moka è già pronta, al termine del loro giro ci faremo un caffè e mi daranno gli ultimi aggiornamenti prima di smontare.
Rimasta sola in infermeria inizio la mia routine di ogni notte di guardia: un’occhiata al registro delle prestazioni, giusto per verificare che al passaggio di consegne non sia stato dimenticato nulla di rilevante, un controllo all’armadio dei farmaci per assicurarmi che sia regolarmente chiuso a chiave, una sbirciatina nel cassetto dove teniamo i “generi di conforto”, un biscotto al volo e poi mi avvio verso la stanza del medico di guardia.
Stanza… si fa per dire: è semplicemente una cella a cui è stato apportato qualche miglioramento per consentire un minimo di comfort al civile che presta servizio notturno.
Dall’armadio tiro fuori il mio sacco a pelo (inutile portarsi avanti e indietro le lenzuola e fare la fatica di rifare il letto, se butta male magari neanche riesco ad appoggiarmici) e quelle quattro cose che mi lascio sempre pronte: zoccoli, spazzolino da denti e dentifricio, deodorante e un rotolo di carta igienica, perché manca sempre la fornitura…
Suona il telefono: è l’agente del secondo piano, l’infermiera gli ha detto di avvisarmi che B. si è procurato un’ustione alla mano preparando la cena (quei fornelletti a gas sono delle trappole, si rovesciano con tutto quello che ci sta sopra al minimo urto, quando non esplodono addirittura).
Gli dico di farlo scendere, ritorno in infermeria, tiro fuori la sua cartella clinica e vado in corridoio a fumarmi una sigaretta, preparandomi ad aspettare con calma, perché tra il “portalo giù” e il “dottoressa, eccoci qua” può passare anche più di mezz’ora, sempre che il detenuto non cambi idea e decida che non vuole più la visita. Succede.
Arrivano, detenuto e scorta, controllo l’ustione e la medico.
Mentre finisco di somministrare la terapia e dò gli ultimi consigli, un rumore di ruote proveniente dal corridoio mi avverte che le infermiere hanno finito con le terapie serali e stanno rientrando con i carrelli.
Ridono, buon segno, vuol dire che il giro è andato bene e non ci sono problemi.
Dalle dieci in poi resto l’unica presenza in infermeria. La serata sembra tranquilla (non bisognerebbe mai dirlo, perché te la tiri…): un paio di mal di denti, un ragazzo con una crisi d’ansia e un agente con mal di testa.
Tra una prestazione l’altra preparo le cartelle dei detenuti che verranno trasferiti il giorno successivo e di quelli che andranno in ospedale per delle visite di controllo e cerco di portarmi avanti con le relazioni per i magistrati e la direzione, di giorno c’è sempre troppo da fare per riuscire a star dietro anche alla burocrazia.
Verso mezzanotte me ne vado in rotonda a salutare chi arriva a dare i cambi e mi prendo un caffè alla macchinetta aspettando che gli agenti che montano in servizio facciano il loro giro dei piani: se tutti dormono e nessuno sta male andrò a buttarmi anch’io.
Un trillo fastidioso e persistente mi strappa dal mio sonno. A tentoni agguanto la cornetta del telefono cercando di non far cadere tutto quanto dal comodino:
“Dottoressa, c’è stata una rissa in una cella al terzo piano, abbiamo un ferito…”
“Ce la fa a scendere o devo salire con la barella?”
“Veniamo noi a prendere la sedia a rotelle…”
Mi sradico dal sacco a pelo e inforco gli occhiali cercando di capire chi sono, dove sono e perché sono qui. Estrapolata dalle nebbie del sonno la sommaria spiegazione che credo di essere il medico di guardia e che c’è del lavoro in arrivo rientro in infermeria, mi infilo un paio di guanti, metto a portata di mano il bidone dei rifiuti infetti, preparo un po’ di garze, disinfettante e ferri sterili sul carrello e vado in corridoio a fumarmi l’ennesima sigaretta.
Poco dopo sento arrivare dalla rotonda voci concitate: ferito in avvicinamento.
Un primo agente mi raggiunge di corsa e mi avvisa:
“Dottoressa, guardi che è conciato male…”
Quando lo vedo comparire devo ammettere che l’agente non ha esagerato: è in mutande e maglietta, trema visibilmente ed è coperto di sangue dalla testa ai piedi. È comunque cosciente e ben in grado di imprecare e di lamentarsi che nessuno lo ha difeso: almeno non ha un trauma cranico, mi consolo.
Con l’aiuto degli agenti lo faccio sdraiare sul lettino e cerco di capire la posizione e l’entità delle ferite, ma c’è talmente tanto sangue che per prima cosa decido di lavarlo almeno sommariamente.
Parecchie garze dopo riesco a localizzare vari tagli ed escoriazioni su tutto il corpo, comprese le dita dei piedi, più una buona serie di ematomi e gonfiori sospetti, soprattutto al braccio sinistro, che ha ormai dimensioni quasi doppie rispetto al destro (ma con che accanimento l’hanno pestato?).
A questo punto avviso gli agenti che io provvederò a suturare e medicare i vari tagli, ma che il paziente deve comunque andare in ospedale per dei controlli e almeno un paio di radiografie, che comincino ad attrezzarsi.
Nella nostra vita “normale” di persone libere mandare qualcuno in ospedale è un affare piuttosto semplice: hai il paziente, hai un telefono, chiami il 112 e dopo un tempo più o meno breve arriva un’ambulanza ed è fatta.
In carcere anche mandare qualcuno in urgenza in ospedale diventa un’impresa.
Prima di tutto bisogna allertare la Sorveglianza e compilare un certificato di invio urgente in ospedale. L’ispettore, o comunque il più alto in grado presente, deve avvisare il direttore (anche di notte, sì) che deve dare il suo assenso all’uscita del detenuto (mai visto negare un invio urgente richiesto da un medico…) e poi trovare gli uomini per la scorta, più o meno numerosi e più o meno esperti a seconda del grado di pericolosità del detenuto che deve uscire e anche a seconda del personale disponibile.
Solo allora si può chiamare il 112 per richiedere l’intervento di un’ambulanza.
Fatta? Non proprio: all’arrivo i documenti degli operatori sanitari devono essere registrati alla block house, l’ambulanza deve essere perquisita, poi deve essere scortata fino all’ingresso carrabile dell’infermeria e finalmente il povero medico in turno potrà ricevere l’assistenza dei colleghi.
È quindi fondamentale saper riconoscere rapidamente le condizioni potenzialmente pericolose per la vita del paziente e far partire subito la procedura: mentre la burocrazia fa il suo percorso si ha così modo di prestare i primi soccorsi all’ammalato, stabilizzarne le condizioni e preparare tutti i referti.
Per fortuna questo caso non è un’emergenza e il tempo non mi rema contro.
Pazientemente, una alla volta, medico tutte le ferite, applico del ghiaccio sulle contusioni più vistose, somministro un antidolorifico, rilevo e annoto i parametri vitali e preparo tutta la documentazione per l’ospedale.
Naturalmente il capoposto mi sta sul collo da un pezzo per avere una relazione medica da allegare alla sua pratica: anche lui ha un bel po’ di burocrazia da sbrigare, lo capisco, ma a volte veramente sembra che le carte siano più importanti delle persone…
Finalmente dalla block house arriva la telefonata che l’ambulanza sta entrando: un’ultima occhiata che la documentazione sia in ordine, che le medicazioni non abbiano già incominciato a sporcarsi di sangue e vado incontro ai soccorritori che stanno scaricando la barella.
Ultimo controllo dei parametri, passaggi di informazioni, una corsa a cercare l’ultimo uomo della scorta che si è attardato in rotonda, poi il detenuto viene ammanettato e la barella viene caricata; due agenti salgono in ambulanza, altri due seguiranno con l’auto della scorta. Come dio vuole il corteo parte verso l’ospedale.
Rimasta sola mi guardo attorno: l’infermeria è un macello. C’è sangue sulle piastrelle, sul lettino, sul pavimento, guanti abbandonati in giro dagli agenti, strumenti sporchi e garze appallottolate un po’ ovunque.
Rassegnata, incomincio a mettere a bagno i ferri, raccolgo tutto dal pavimento, rimetto in ordine disinfettanti e bende, prendo dal ripostiglio detersivi, mocio e secchio e comincio a lavare e disinfettare piastrelle, lettino, carrelli…
Mentre dò gli ultimi colpi di mocio al pavimento il cielo comincia a schiarire.
Inizia una nuova giornata. Buongiorno mondo…
Questo racconto mi ha rimandato al racconto “questioni ospedaliere” di Buzzati, soprattutto quando dici “a volte veramente sembra che le carte siano più importanti delle persone”. Hai posto molta attenzione al lento scorrere del tempo in carcere e questa sensazione che trasmetti si accompagna benissimo con la lentezza burocratica che citi successivamente. Anzi, si potrebbe dire che la introduce.
Molto dettagliata e precisa questa “fotografia” del lavoro del medico carcerario. Ottima la scansione dei gesti e del tempo che scorre. Il racconto porta immediatamente dentro la sua realtà il lettore, e lo coinvolge profondamente.
Un racconto che definirei (in maniera positiva) sfibrante tanto quanto il luogo protagonista.
Interessante panoramica su un mondo che pochi conoscono. La prima persona aiuta a immedesimarsi in questa difficile realtà. Bello!
Molto bello immergersi in un mondo che ancora oggi rimane un po’ “sconosciuto”. Mi ha affascinato entrarci e conoscerlo grazie ad un racconto. Trovo un’ottima scelta la prima persona, che aiuta molto ad inserirsi nell’ambiente e a far vivere lo scorrere del tempo e il peso, per così dire, di un lavoro molto difficile. Il tema affrontato può sembrare a suo modo pesante, ma lo stile utilizzato consente una lettura molto scorrevole: complimenti, perché sicuramente non deve esser stato facile! Davvero un bel racconto
Una notte raccontata in maniera asciutta, ma non distaccata. Da leggere per iniziare a conoscere e capire cosa succede dietro i muri. Scrittura efficace e immagini vivide. Brava!
Interessante questa notte nell’infermeria di una carcere, vista con gli occhi di un medico (si dice medica?), dove tutto è routine perché non ci si può permettere di perdere la testa di fronte agli eventi, perché ancor più tremende sono le pastoie burocratiche che rallentano ogni urgenza. E allora l’io narrante ci conduce nei gesti e i gesti creano l’atmosfera e lo stato d’animo, ma anche danno voce ai suoni (li percepisco metallici), agli odori (fumo di sigarette, caffè, disinfettante, e forse qualche sfumatura di rancio). Potere evocativo delle parole di questo racconto.