Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Nocturnal” di Francesco Stampatore

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Tra monti urbani, felci di pattume e tronchi di ghisa Filip Nowak, con espressione ridente di miseria, s’inebriava voluttuoso del buio. Grazioso era Nowak nel suo mergersi tra i miasmi delle vetture, rassegnato l’udito nell’origliar il silenzio farsi beffa del suo retaggio culturale, morigerato lo sguardo nel posarsi su occhi così fulgidi, come quel dei caseggiati, da celar l’umbratile essenza di laschi individui adunchi su vizi consumistici tanto atavici che, scorgendone i rifiuti, un quadro di matrice post-bellica vi si parerebbe dinnanzi.

Lui amava codesti popolani come amava la luna che, nel suo ergersi come iride-giudice nel regno della notte, gli ricordava la sua cara Polonia, quando vigeva risoluta lungo le sponde del fiume Kondica; allo stesso tempo, però, nel cuor suo si rinnovava l’inquietudine quando l’associava all’onnipresenza di un dio tanto illusorio quanto lo fu casa sua: egli nel suo paese di origine fu un personaggio illustre dell’industria siderurgica nello stretto slesiano di Gliwice, dando del tu al metallo con tale maestria da rimembrar colui che fu concepito per divin taglione; e non solo, fu anche sul punto d’ammogliarsi con la figlia del presidente dell’industria (donna mite quanto lui e di sani principi); ora sempre estremamente placido come allora rimaneva ma, per vicende a noi sconosciute, guidando l’autocompattatore in un angusto vicolo della Garbatella (quartiere di Roma Sud) vagheggiando, a suo dire, una solitudine quasi poetica. Da bravo operatore ecologico qual era (il termine “netturbino” lo ripugnava) sentiva un certo brivido nell’ergersi a paladino della nettezza urbana e nell’accompagnar lo sterzo con tale fermezza da dar l’impressione che dietro di se, più che un sistema d’aggancio di cassonetti, portasse il fardello di un intera città. Fu nefasta però la notte in cui scese dal mezzo per raccattar il solito cassone nel qual albergava un micio spelacchiato tutt’assonnato, il solo ed unico amico di Nowak; nel taschino anteriore del giubbotto portava sempre un filo di lana con cui allietar l’istinto del fuggitivo, portando il micio ad esser poco più che un fanciullo in spiaggia incantato dall’eterno incespicar dei paguri sulla battigia; mentre i due giuocavan amabilmente, però, sentì alle sue spalle il dirompente fischio delle ruote ed il camion andò per la tangente accompagnato da bizzarri squittii; in quel momento Nowak comprese, nella rabbia e nell’amarezza, chi furon fautori di tale bricconata: gli abitanti delle fogne, il quarto stato romano, insomma, le cosiddette pantegane. Nowak di natura era sì pacato ma non inetto, e perciò, come l’operaio dinnanzi alla sfrenata avidità del capitalista, si armò con ciò di cui disponeva (nel caso suo si trattava del coraggio e di un malridotto rastrello per le foglie) e s’avventurò nelle fogne per riprendersi ciò che impropriamente gli era stato tolto.

Asceso nella Cloaca Massima di Tarquinio Prisco, impugnando l’arma da modesto contadinotto, si trovò ad arrancar con tenacia tra i fetori delle acque reflue, annichilendo ciò che di esiguo era rimasto del suo olfatto. Nowak sapeva che ogni emissario faceva da eremo alla viscerale costernazione del mare, che le carni imputridite facevan da ipostasi alla negligenza di Dio nei confronti degli ultimi e che il solfuro di idrogeno non era altro che il perfetto connubio tra rancura e dispregio; ma non se ne curava granché, egli badava solo agli squittii riecheggianti lungo le ferruginee pareti, aveva in mente solo di riprendersi la sua roba, l’unico bene materiale a tenerlo congiunto alla sua umanità. Detto questo non poté esimersi, però, dal virar l’attenzione verso strida fanciullesche che fecero sussultar persino il carcame incrostato nell’oltretomba: “Un lattante intrappolato nelle fogne? E perché mai?”, con l’ulteriore incentivo Nowak si precipitò verso il punto d’origine di quelle urla, per poi trovarsi d’innanzi ad una massa informe di ratti: gargantuesche pantegane avvezze allo stravizio, normodotati sorci, esili topolini, il suo caro ammasso di ferraglie, ma nessun bambino.

Non aveva tempo di razionalizzare ciò che fino a poco prima aveva distintamente udito, un infima orda bisognava affrontare, dunque egli passò da esser flemmatico ad esser l’Orlando Furioso abbattendosi sui suoi nemici a colpi di rastrello: spaccava incisivi, molari, neutralizzava attacchi, scardinava difese, colpiva senza pietà alcuna, si destreggiava come un guerriero dei miti nipponici, ma la fiumara di ratti si faceva sempre più dirompente, destra, sinistra, da ogni dove, pareva che persino il terreno sul qual camminò fino a quel momento fosse costituito da irsute spie in borghese che avevano tratto in inganno ogni suo passo; morsi sulla pelle, il sangue scrosciava, le gambe sbilenche a malapena lo sorreggevano ed il dolore cominciava a prendere il sopravvento sull’adrenalina. Prima di allora fu sempre un ligio e probo lavoratore, ora invece, esagitato come un pubblico ufficiale in fuga dalle accuse di concussione, si lanciò con arzilla tenacia in uno scatto felino verso l’autocompattatore per rimetterlo in moto e fuggire, ma prima che potesse anche solo avvinghiarsi alle ruote venne afferrato per le caviglie e sbattuto a terra; le intenzioni di Nowak erano quelle di divincolarsi nuovamente se non fosse che, prima di poter anche solo pensare di muovere un muscolo, venne travolto da un tentativo di lapidazione da parte dei sorci con feci dure ed acuminate come amigdala, allora egli riportò a sé il rastrello e lo agitò con sovraumana rattezza parando proietti su proietti. Respingendo quella sottospecie di sassaiola Nowak non s’accorse che tanti colpi deviati finivano sul camion celeri e violenti come pallottole; al ventesimo colpo il camion esplose con potenza inaudita e l’onda d’urto spazzò via ogni strascico di subfauna ed ogni oggetto contundente; per sua fortuna Nowak non fu colpito da detriti o quant’altro quindi ebbe la forza di fuggire da quella polveriera prima che il solfuro di idrogeno portasse ad una catena di brillamento ben più vasta e perigliosa. Salvatosi per un soffio, e tornato ad esser lambito dai raggi lunari, le squittenti grida di bambino non ne vollero comunque sapere di lasciarlo in pace, anzi, esse si intensificarono insieme al fischio nelle orecchie dato dalle esplosioni. Penetranti, perpetue, Nowak implorava e pregava Iddio che tornasse il silenzio della notte, ma quelle urla erano un autentico acufene, un concerto di vuvuzela nella quale egli era unico spettatore pagante: un prezzo pagato con il patimento. Si fecero più intense, più intense, più intense, più intense, più intense, più intense, fu supplizio allo stato puro fino a che l’illuminazione: “Ho capito di chi sono questi schiamazzi…”, e così torno la quiete.

Terminò il martirio ma non tornò il sollievo, perché egli dopo tanto tempo ricominciò a rimembrar: rimembrava della sua vita in Polonia, del viscerale amor per la sua compagna di vita, del giorno in cui la conobbe in succinte vesti e nei suoi modi provocanti, di come lei non si fermasse mai a perder tempo con omaccioni grezzi avvezzi alla protervia, di come carpì l’essenza del giovinotto impacciato e taciturno che, all’epoca, lottava notte e giorno per ottenere un briciolo di rispetto dai suoi colleghi e da se stesso, della precisa data del loro fidanzamento, di come con il passare dei mesi fantasticavano su fantomatici viaggi da fare una volta ottenuta la tanto agognata promozione, di come tutto il loro mondo venne stravolto una volta scoperto che la sua promessa sposa aspettava un pargoletto, di come le si illuminò il viso di indescrivibile gioia, di come le si incupì di inenarrabile angoscia quando scoprì che il feto rischiava di venir alla luce già defunto e che, forse, ella stessa non sarebbe riuscita a sopravvivere al parto, di come in preda al terrore supplicasse i medici di poter abortire, di come la legge anti-aborto, però, non avesse pietà neanche degli animi più fragili ed angustiati, di come, una volta terminato il parto, il bimbo alla fine fu portato in salvo tra il giubilo generale di medici e dottorandi… ma la sua amata no. Corse a stringerne a sé il cadavere con tutte le sue forze e distillò in lagrime ogni liquido corporeo: pianse per interminabili minuti, lagrimò finché ogni goccia non impregnò le mattonelle della sala operatoria, finché le lagrime non arrivarono al fiume K?ondica e non ne strabordarono lo slargo, un cordoglio talmente straziante che in esso riecheggiava il malessere di ogni cittadino abbandonato dallo Stato e di ogni migrante ripudiato dal becero nazionalismo. Quando finì di struggersi e lasciò ricadere dolcemente il capo dell’amata compianta rivolse lo sguardo verso l’infante e chiese ai medici di poter tenere anche lui tra le sue braccia, loro acconsentirono seppur dubbiosi, augurandosi che, tenendo stretto a sé il pargolo, l’amore che in ogni genitore è intrinseco e contingente al legame di sangue gli facesse riacquisire la lucidità necessaria, ma la natura non fece il suo corso quella sera: osservò il marmocchio ma non ci vide un dono di Dio bensì un demone grassoccio e piagnucolante che gli aveva strappato via la sua unica ragione di vita. Avvolto da una brutale e cieca furia prese il bambino e lo strangolò nel liquido amniotico della stessa madre che giaceva lì inerme, lo iugulò talmente forte da frantumargli le piccole e gracili vertebre; i medici tentarono in tutti modi di opporsi e di trascinarlo via ma egli non era più uomo, era una bestia assettata di Dio, come se con quel gesto avesse voluto uccidere il Signore stesso, come se più che un omicidio la sua fosse solo stata pura e sfrontata blasfemia. Ogni essere definibile uomo in quella stanza gridava, qualcuno provò a correre via per chiamare la polizia, la bestia fuggì come uno sciacallo diretto verso altri lidi… ed il resto della scena fu avvolta dal buio della sua psiche.

Rimembrando la sua crudeltà Nowak fu dilaniato da un dolore ancora più profondo, stavolta insito nell’anima. La consapevolezza di aver negato la vita al suo stesso figlio fu un trauma che forse gli lacerò il tessuto nervoso, perché fu colpito da improvvisi spasmi tanto da sembrar posseduto da quella stessa forza oscura, e non vi fu autocoscienza o rancore verso la Polonia a salvarlo. Qualcuno di voi magari potrebbe giustificare il suo passato, potrebbe andare lì in quel vicolo della Garbatella ed avvolgerlo nel conforto del perdono (o perlomeno chiamare un ambulanza) ma egli quella notte era solo in preda alle convulsioni e tutt’intorno gli si faceva tetro, finché non sentì dentro di se l’animo cocente, quasi come se gli organi fossero arrivati all’autocombustione o, addirittura, all’evaporazione. Ebbene sì, quando Maddalena (una signora ubicante in quel vicolo) quella notte uscì verso il vialetto della sua casetta a schiera chiedendosi tra sé e sé: “Ma che diavolo succede?” perché preoccupata da quei rumori e si affacciò sulla strada non vide nessuno. L’ordinaria dannazione s’era compiuta, perché ora Nowak non era più né uomo e né bestia, egli si era tramutato in vento: una brezza tanto pura quanto aulente destinata inevitabilmente a venir infettata dai fetori e dai miasmi di Roma, e ben sanno tutti che i gas son ponderosi rispetto all’aria, perciò il caro Nowak non avrà il lusso di sentirsi libero e lene ma rimarrà ancorato al suolo destinato ad esser inspirato, ad esser disprezzato per il puzzo emanato e ad autocommiserarsi per l’altrui dispregio per sempre. Così s’inebriò della mortalità, così vivrà per l’eternità.  

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.