Premio Racconti nella Rete 2022 “Le cinque “P” di Marco Tarricone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Le cinque “P”
Con qualche titubanza. e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare, che è nato l’italiano come lingua nazionale.
Pier Paolo Pasolini
Il mare era una distesa infinita, una tavola piatta senza increspature né onde. Mi pareva quasi di poterne sentire il respiro, un sommesso e ipnotico mormorio che si levava dal pelo dell’acqua di quel mondo così vicino e ugualmente distante nello spazio e nel tempo. Il litorale era deserto sebbene la giornata fosse magnifica e piena di sole. Io ero lì in compagnia della mia solitudine e delle pagine di un buon libro, e come sempre lo stavo divorando avidamente come un affamato in cerca del proprio cibo quotidiano. Era un mio antico e irrisolto difetto, leggevo correndo dietro alle parole e spesso mi ritrovavo a dover riprendere intere pagine per poter afferrare completamente il senso di ciò che esse dicevano.
Ci sono persone di cui è difficile dire qualche cosa che le presenti di colpo e per intero nel loro più tipico e caratteristico aspetto: sono coloro che di solito si chiamano “persone comuni” o “i più”, e che costituiscono infatti l’enorme maggioranza di ogni società. La maggior parte degli scrittori cercano, nei loro romanzi e nelle loro novelle, di scegliere dei tipi umani e di presentarli in modo pittoresco e artistico: tipi che ben di rado s’incontrano bell’e compiuti nella realtà e che nondimeno sono più reali della realtà stessa…
L’incipit della quarta parte de “L’idiota” di Dostoevskij era uno dei brani che amavo di più. Quella specie di gigante russo sulle cui spalle ci eravamo appoggiati via via tutti noi, scrittori e scribacchini di questo meraviglioso e terrificante Ventesimo secolo, era una costante della mia vita, una presenza rassicurante e rasserenante nella quale andavo spesso a rifugiarmi nei momenti più difficili e tristi della mia traballante vita. Ero solo e lo ero sempre stato, ero un granello di sabbia in mezzo a milioni di altri come quegli stessi minuscoli frammenti di arenaria sui quali posava il mio corpo. Ognuno di essi era unico e irripetibile, esattamente come noi uomini: biondi e bruni, belli e brutti, grassi e magri, intelligenti e stupidi. E la mia solitudine provavo a combatterla cercando negli occhi delle persone che incontravo il mio stesso disagio, i medesimi sogni, uguali aspirazioni. Erano i miei “ragazzi di vita”, gli stessi di cui avevo parlato nei miei racconti, coloro verso i quali indirizzavo attenzioni e affetto, talvolta in modo sconsiderato ma sempre con profonda sincerità. Io ero così, un uomo sincero e sconsiderato, uno che aveva sempre avuto il difetto di dire la verità, anche quando questa poteva risultare scomoda alla maggior parte dell’uditorio. Avevo detto la verità anche per ciò che riguardava la sfera sessuale, avevo rivelato al mondo la mia omosessualità e il mondo, a causa del suo finto perbenismo, si era ribellato e mi aveva risposto con ferocia, esiliandomi e ponendomi in uno stretto e buio recesso augurandosi che da lì la mia vergogna non sarebbe più uscita allo scoperto, sotto la luce di quel sole autunnale che invece stava scaldando ancora una volta le mie membra.
Quel primo di novembre del 1975, al Lido di Ostia, il sole era caldo come se fosse stato un giorno d’estate, un’estate che sembrava non voler finire. Tuttavia, l’alba del giorno dopo mi sorprese sdraiato a braccia larghe e cuore esanime, abbracciato dal gelo di quella stessa rena che avevo fatto scorrere fra le mie dita, lentamente, con garbo e rispetto come una clessidra che però il tempo non lo può fermare. Solo il battito del mio cuore si era fermato.
Mi servivano soltanto un po’ di soldi per aggiustare la mia Fiat 850, ferma per un guasto da troppi giorni. Come tutte le sere me ne stavo con i miei amici a cazzeggiare in piazza, vicino alla stazione Termini, in cerca di un’occasione buona. Con la mia birretta in una mano e l’altra in una tasca mi sono ritrovato di colpo a sedere su un comodissimo sedile di una “Giulia veloce”, una macchina che fino a quel momento avevo visto solo sui cartelloni pubblicitari dell’Alfa Romeo. Non sapevo chi fosse quell’uomo elegante che indossava un paio di occhiali dalle lenti spesse come il fondo della mia bottiglia e che parlava con un accento del Nord, però avevo capito che quella notte avrei potuto fare un bel po’ di soldi con quel frocio dai modi gentili. Avevo posto una sola condizione: a fare l’uomo sarei stato io.
I lampioni della strada, con la loro luce giallognola e fioca, erano buoni solo per segnalare la loro presenza e non certo per illuminare la striscia d’asfalto sconnesso che la Giulia stava divorando, chilometro dopo chilometro. Pierpaolo, l’uomo che mi aveva caricato, mi aveva fatto venire il mal di testa con i suoi racconti e forse non si era nemmeno reso conto che a me interessavano solo i suoi soldi, non certo le sue idee. Da parte mia, io mi ero limitato a presentarmi e a fare di finta di ascoltarlo.
Vedi, Pino, – mi aveva detto mettendomi una mano sul ginocchio – questo paese è ormai diventato l’ombra di sé stesso. Sotto ogni punto di vista. Sono morti gli ideali che ci hanno portato fuori dal Fascismo e dalla guerra, sta morendo la fratellanza che ha accompagnato la rinascita del nostro popolo e poi, lasciamelo dire da studioso delle lingue quale sono, anche il nostro bell’italiano sta per tirare le cuoia a causa dell’imborghesimento della Società, della progressiva industrializzazione che porta con sé i suoi linguaggi tecnologici…
Per me parlava arabo, quell’uomo così colto e intelligente sembrava non capire che seduto al suo fianco c’era soltanto un povero ignorante che aveva a malapena finito le scuole medie. Fingevo e annuivo, continuavo a fare sì con la testa e intanto pensavo alle trentamila lire che mi aveva promesso. Con quei soldi avrei sistemato la macchina, quello era il mio unico obiettivo.
Alla fine, siamo arrivati qui, al Lido di Ostia. Lo conosco bene questo posto, ogni tanto vengo con gli amici, quand’è stagione: ci facciamo il bagno in questo schifo di mare pieno di alghe e chiazze d’olio. Del resto, tutta la mia vita fa schifo. Ecco perché stare a insozzarmi nell’acqua del Tirreno o sul bagnasciuga insieme a questo frocio dai modi gentili, per me cambia poco. Ciò che conta sono i soldi che Pierpaolo mi ha promesso.
Avveniva di frequente che durante i miei incontri notturni, magari durante quegli amplessi che di notte costituivano il sale della mia vita e che di giorno aborrivo con tutto me stesso, dicevo, avveniva che la mia mente si estraniasse completamente dal presente e andasse alla ricerca di un passato ormai remoto. Quella sera, l’ultima sera, i miei ricordi mi avevano improvvisamente riportato a casa.
All’indomani dell’Armistizio mio fratello Guido si era unito alle schiere partigiane della Carnia lasciando me e mia madre nel rifugio di Versuta, un piccolo villaggio adagiato su una piatta campagna coltivata a vite e infinite file di gelsi. D’altronde, lo diceva anche lei, lui era l’anima coraggiosa della famiglia, l’uomo d’azione, quello votato al sacrificio, niente di meno. Io, un semplice letterato, quello che avrebbe avuto successo grazie alla sua arte di penna e di pennello, niente di più. In quella frazione non distante da Casarsa la nostra vita procedeva serena, nonostante gli ultimi echi della guerra e le operazioni dei nostri partigiani. Avevamo aperto un piccolo ritrovo, il casel, per i giovani che non potevano recarsi a scuola. Mia madre faceva loro da maestra grazie alla sua passione per l’insegnamento mentre io ero un po’ il fratello maggiore per ognuno di loro, e con loro parlavo di letteratura e poesia. I turbamenti che mi avevano da sempre accompagnato si manifestarono allora con tutta la loro forza e presero la forma di uno dei ragazzi più grandi della compagnia. Lui aveva qualche anno meno di me, un fisico minuto ma tutto nervi, non diverso dal mio ma, soprattutto, aveva due occhi scuri e profondi all’interno dei quali potevo perdermi per pomeriggi interi. Quando terminava l’orario delle lezioni con gli altri, andavamo in giro per la campagna portandoci dietro pennelli e colori, tele e cavalletto. Aveva una particolare propensione per la pittura en plein-air, e ogni volta che gli chiedevo di rappresentare per me un qualsiasi soggetto, Bruno aveva la capacità di emozionarmi con i suoi tratti infantili e ingenui ma ricchi di significati che forse solo io ero in grado di cogliere nella loro essenza. Era in grado di tracciare con pochi colpi di pennello la vera natura delle cose che ci circondavano. La sua mano sapeva descrivere fiori e piante con una semplicità e una profondità che mi lasciava stupefatto; senza l’ombra di una tecnica di base, completamente privo di istruzione, eppure così terribilmente e meravigliosamente vivo. E vivo faceva sentire anche me quando andavamo insieme a esplorare le misteriose rive del nostro Tagliamento, un fiume che era il confine fra due mondi diversi, fra due lingue e due popoli che da sempre si erano spartiti la ricchezza delle sue acque. Il giorno che ci scoprimmo avevamo fatto il bagno completamente nudi e uscendo a riscaldarci nel tiepido pomeriggio ci eravamo sorpresi impauriti ed eccitati nel medesimo istante. Ormai ventiduenne, avevo passato tutta la mia adolescenza a combattere contro la mia vera natura, narcotizzato e preso in ostaggio dalla fede per un Dio che non avevo mai sentito davvero vicino, e da un attaccamento a un’istituzione religiosa che presto avrei formalmente messo da parte. Finalmente, con Bruno, mi sembrava di aver trovato la giusta dimensione, la risposta alle tante domande rimaste per anni solamente un discorso lasciato in sospeso dalle mie paure, dai timori nei confronti di una società che non mi avrebbe mai capito e, allo stesso tempo, nel rapporto con me stesso e la mia zoppicante consapevolezza. Furono settimane di felicità, le prime che trascorsi in sua compagnia, ma dopo meno di un mese mi ero già stancato di quella che mi pareva essere già diventata una piatta quotidianità. Oltretutto, frequentando Bruno con assiduità, avevo avuto la conferma di ciò che già sapevo di me stesso: ero un uomo violento inserito in un mondo di violenza ma perfettamente mimetizzato grazie al mio desiderio di condividere la passione per il sapere. Ero un uomo dalla duplice natura, ero l’acqua mischiata al vino, la violenza e la grazia, ero un perfetto dottor Jeckyll che si accompagnava al suo infido mister Hide.
Pier Paolo Pasolini, ora conosco anche il suo cognome, è uno importante. Me l’hanno detto i carabinieri quando mi hanno fermato mentre andavo contromano a tutta velocità su una strada vicino all’Idroscalo. Dopo avermi chiesto i documenti, hanno letto sul libretto della macchina quel nome famoso.
Pelosi – mi hanno detto – ma tu lo sapevi che questa Giulia è dello scrittore?
Ma che ne so, io – ho risposto da duro – a me bastava de solà la macchina. Che me frega chi è il padrone.
Poi mi hanno portato in caserma e hanno chiamato mio padre, quel povero disgraziato che se mi avesse ammazzato da piccolo forse sarebbe stato meglio. Sì, perché se avessi solo rubato la macchina non sarebbe stato un grande problema, sono già finito al gabbio per un furto. Stavolta, invece, è andata molto peggio.
Quello schifoso di un frocio voleva che glielo prendessi in bocca, e queste cose Pino “la rana” non le fa.
Eravamo d’accordo, – gli ho gridato mentre cercava di spingermi la testa in mezzo alle sue gambe – mi avevi promesso che a fare l’uomo sarei stato io. Se no non sarei mai venuto qui al lido con te…
Ma lui sembrava impazzito, in pochi secondi il suo viso che sembrava docile come quello di un agnellino si era trasformato in quello di un mastino bavoso e arrabbiato. Allora ho cercato di scappare: ho aperto la portiera e sono corso fuori gridando e chiedendo aiuto a quelli che abitano nelle baracche lì vicino, nessuno però è uscito: anzi, le poche luci che c’erano si sono spente in quello stesso momento e io mi sono sentito perduto. Poi Pasolini mi ha raggiunto, io non riuscivo a correre con i pantaloni mezzo calati e le scarpe slacciate che mi facevano ballare i piedi. Mi ha preso da dietro per ficcarmelo nel culo ma io sono riuscito a tirargli una gomitata in faccia, subito dopo però lui ha strappato una tavola di legno da un palo con una forza incredibile e ha cominciato a prendermi a mazzate. A quel punto non ci ho visto più e con quel poco di forza che mi era rimasta gli ho preso il legno e sono riuscito a spaccarglielo in testa. Alla fine, sono tornato alla macchina e sono scappato via mentre lui urlava di dolore.
È così che sono andate le cose, ed è così che le ho raccontate al maresciallo dei carabinieri che mi interrogava il giorno dopo, quando il corpo di Pasolini era stato ritrovato all’Idroscalo di Ostia. Senza vita.
Me lo avevano detto gli amici più intimi, ne ero consapevole anch’io: presto o tardi avrei fatto una brutta fine. Ancora una volta il mio lato oscuro ha avuto la meglio su quello esteriore, quello prettamente fisico. La violenza che era in me, quella mai del tutto placata, ha provocato una forza di reazione ancora più potente, una cieca brutalità che ha posto fine ai miei giorni, che ha annichilito il mio corpo trasformandolo in un ammasso di carne lacera e irriconoscibile. Io non lo so di preciso se la mia morte sia stata decretata dall’ennesima imprudenza commessa in una notte uguale a tante altre, oppure se ciò è avvenuto a causa della paura instillata su qualcuno dalla forza delle mie parole, dall’enorme potere che la verità esercita su ognuno di noi. Anche su coloro i quali abbiano fondato la loro grandezza sulla base delle loro menzogne. Io sono stato un pessimo esempio di uomo, questo l’ho sempre creduto, ma su un aspetto della mia vita non ho mai patteggiato. Per me, la verità è sempre stata alla base del mio agire; l’onestà, anche quella intellettuale, mi ha sempre guidato: è ciò che mi ha insegnato la mia povera madre che ora starà soffrendo in silenzio, come sempre. Credo di poter affermare con una certa sicurezza che sia stata proprio la ricerca della verità a condurmi in questo limbo grigio e inconsistente che accoglie i miei pensieri. Sono convinto che di tutte le parole che ho scritto, di tutte le pellicole che ho girato, di tutte le azioni che ho compiuto, il manoscritto del mio ultimo romanzo sia stata la causa principale della mia morte. Peccato non essere riuscito a pubblicarlo prima di questo 2 novembre del 1975. Chissà se avrebbe avuto la risonanza che secondo me merita, oppure se sarebbe riuscito a scuotere le coscienze di quelli che non possono più sopportare l’arroganza di chi il potere lo tiene saldamente in pugno con questa finta democrazia. La gente onesta, quelli come me che scrivo e come voi che leggete, gente ancora in grado di vergognarsi di fronte a un’ingiustizia, gli italiani veri, i lavoratori che sudano dalla mattina alla sera, questa gente merita uno straccio di verità.
Io ormai posso fare poco da quaggiù, da questo limbo grigio e inconsistente che incatena i miei pensieri, ma le parole che ho scritto e le opere che ho lasciato potranno, se non cambiare il mondo, quantomeno aiutarlo a riflettere e a fare un po’ di luce su tutto ciò che di oscuro lo permea. Io non sono riuscito a trovare una sintesi fra il mio bene e il mio male. Chiedo a voi che restate di farlo, trovate la giusta sintesi, mediate fra il bene e il male, ricercate sempre, ad ogni costo, la verità. Fatelo per voi stessi e anche un po’ per me, perché è solo nella luce della verità che troveremo finalmente pace.
Con buona pace di tutti.
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