Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Colazione a Kiev” di Fabio Coluccini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Sto finendo di scrivere il mio ultimo racconto, il più autobiografico, quello a cui tengo di più, quando sento un boato provenire dalla strada sotto casa mia.

Sobbalzo, impallidisco, inizio a tremare.

– Si, mamma, l’ultimo syrniki è per me, sono buonissimi! -, è la frase che mi salta immediatamente in mente, è l’ultima frase prima che l’inferno fosse entrato in casa mia e mi avesse cambiato la vita per sempre, tanti anni fa; sono le ultime parole uscite dalla mia bocca, prima che l’innocenza di una bambina fosse spazzata via, violentemente.

Per due anni non parlai più.

Ricordo ancora tutto, anche se è passato tanto tempo.

Ora ho perdonato, sono andata avanti.

Era il 2022, il cielo era plumbeo quella mattina di fine febbraio, sembrava di piombo.

Avevamo una casa in affitto in un quartiere popolare un po’ scadente ma non ho mai creduto che fossimo poveri, ai miei occhi era un bel posto, il più bello della città, e Kiev per me era la città migliore del mondo.

Ricordo ancora i dialoghi dei miei genitori mentre eravamo a tavola per la colazione.

– Sporco maiale… – iniziavano sempre così le frasi di papà quando vedeva alla tv il viso paffutello di un signore russo – … prenditi pure questo! – disse, mettendosi la mano in mezzo alle gambe.

Ricordo che papà la sera prima aveva bevuto, avevo sette anni, oramai me ne accorgevo sempre, e lui non si nascondeva più.

– Saremmo dovuti partire, Ruslan… saremmo dovuti partire anche noi, come tutti gli altri. Nataliya ci avrebbe ospitato nella sua casa di Zamosc, avremmo dovuto accettare… ho troppa paura Ruslan, non ha senso stare qui! – aveva risposto la mamma, con il viso pallido e preoccupato.

Ricordo che già da qualche giorno tutti nel quartiere se ne stavano andando, di fretta, con gli zaini in spalla, c’erano lunghe file di auto incolonnate, molti piangevano, altri urlavano, ma papà ci rassicurava sempre, non sarebbe successo niente di spiacevole, avremmo vinto noi, perché noi eravamo nel giusto e chi è nel giusto vince sempre.

– Ma che cosa dici Oleksandra!?… sono forse un codardo, io? Sono forse come loro?… – papà parlava a voce alta, indicando verso la finestra, il cielo era sempre più pesante, – … no! Ruslan non è come loro, e non abbandona ciò che ama più di se stesso! – tirò su la maglietta e mostrò alla mamma la bandiera dell’Ucraina che aveva tatuata sul pettorale; il suo viso era paonazzo, e sbavava. Mamma iniziò a piangere.

Ricordo che ero solo una bambina e non riuscivo a capire cosa stava accadendo. Ciò che sapevo con certezza era di dover odiare a morte quel signore russo che spesso vedevamo alla tv, altrimenti papà si sarebbe arrabbiato, e mi avrebbe picchiato. Io fingevo di odiarlo anche se non me ne importava niente, era solo un anziano, un po’ tozzo, neanche troppo cattivo, buffo semmai, sembrava un soldatino.

Ricordo che quella mattina, papà indossava la maglia della nazionale di calcio, autografata dal suo idolo, Serhij Stanislavovy Rebrov, con il numero 10 sulla schiena; non so perché l’avesse messa, gli stringeva tantissimo sullo stomaco, ma papà non stava molto bene quel giorno, e non glielo chiesi.

Papà aveva un fucile accanto alla sedia, non so dove l’avesse preso, non l’avevo mai visto in casa.

Ricordo che la mamma era triste, sempre di più.

– Mangia Olga, non ti piacciono? – mi disse.

– Si, mamma, l’ultimo syrniki è per me, sono buonissimi! – risposi entusiasta, per non darle dispiacere, ma non mi piacevano, non erano come le altre volte, sembrava non li avesse fatti lei.

Ricordo che un boato improvviso rischiò di spaccarmi le orecchie, caddi dalla sedia, come risucchiata da un vortice d’aria polverosa. Spalancai gli occhi ma non vedevo nulla, sentivo pezzi cadere ovunque ed anche un’aria gelida.

Ricordo che la polvere offuscava tutta la stanza e dovetti aspettare un po’, sdraiata a terra, non so per quanto tempo, prima che la visuale si rischiarasse e potessi capirci qualcosa. La nostra casa era spaccata in due, il piccolo salottino era squarciato, il muro non c’era più e riuscivo a vedere la strada. Avvertii un nodo in gola che mi si sarebbe sciolto solo in parte, anni dopo, e sentii una fitta fortissima sopra al ginocchio destro. Avevo una specie di tubo grigio infilato nella gamba ma ero cosciente.

I miei genitori, invece, erano morti. Li vidi a terra, non lontani da me, coperti di pietre e sangue.

Da quel momento in poi, non ricordo nulla.

Sento aprire il portone, “sarà Luca”, penso. Non tremo più ma mi accorgo, dal riflesso sullo schermo del PC, che sto stringendo nel palmo della mano, il ciondolo che mi hanno regalato dopo quel giorno di ventitré anni fa, lo tengo sempre con me, appeso al collo; apro la mano ed osservo il giallo ed il blu sbiaditi della bandiera ucraina, sull’altra facciata, il verde, il bianco ed il rosso ingialliti, della bandiera italiana. Le mie due patrie. Ho i muscoli contratti e la mascella serrata ma non sono affatto sorpresa, nessuna psicoterapia potrà mai grattarmi via dall’anima quel trauma. Accenno un sorriso.

– Olga, ci sei? –

– Si, amore, sono in camera… ma cos’era quel frastuono provenire dalla strada? –

– Guarda, non ci crederai mai… un ragazzino ha perso il controllo del suo monopattino a lievitazione magnetica e si è schiantato contro il garage dei vicini. –

– Oh, Signore! –

– Tu sei pronta per andare? Ci aspettano al ristorante russo, quello appena inaugurato, dietro Piazza Mazzini! –

– Due minuti ed arrivo! –

Salvo il racconto, chiudo il computer, mi alzo, saltello fino al bagno, faccio pipì, un po’ di ombretto, un filo di mascara, un po’ di cipria per coprire le cicatrici sugli zigomi, una passata di lucidalabbra e due spruzzate di Chanel. Saltello fino allo specchio, metto la décolleté rossa alla protesi, infilo la protesi, la aggiusto bene e mi guardo, a lungo, fissamente.

Dallo specchio vedo Luca, dietro di me.

– Sei stupenda, Olga! –

– Lo so, Luca! –

– A cosa stai pensando? –

– Che, in fondo… li ho perdonati… –

– Chi? Chi hai perdonato? –

– Papà, ed anche quel signore russo, così goffo, che giocava a fare il duro con i missili telecomandati… non me lo ricordo più il suo volto! –

– Lo sai che ti amo, Olga? –

– Si, lo so! E tu lo sai che ho appena terminato di scrivere il mio racconto? –

– Wow… già? –

– Si! –

– Come lo hai intitolato? –

– Colazione a Kiev, parla di me! Ti piacerà, vedrai! -.

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2 commenti »

  1. Bella l’ idea di usare il salto temporale in avanti per guardare indietro…in questo modo la guerra è già finita! Da una parte ci si sente rassicurati, tanto poi anche le guerre finiscono e noi uomini riusciamo a superare traumi devastanti; dall’ altra tuttavia giustamente ci viene anche ricordato che la guerra causa perdite che non ci verranno mai più restituite.

  2. Grazie per le tue osservazioni Rossella.

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