Premio Racconti nella Rete 2022 “L’amante” di Olga Foti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022L’Amante aveva le unghie laccate di rosso.
Anche un brillante, grosso come una nocciola, e avrebbe voluto darlo a mia madre se le avesse assicurato il pane – solo il pane – aveva precisato, per il tempo che restavamo sfollati. Eravamo sull’Etna, a Muntagna, c’era la guerra.
L’Amante era arrivata dalla città con un uomo che si chiamava anche lui l’Amante, gli adulti dicevano che le aveva dato un mucchio di soldi ed era tornato in tutta fretta dalla moglie.
Strano che un uomo avesse il nome da donna o forse era L’Amante con le unghie laccate che aveva un nome da maschio. Certo è che con il brillante e tutti quei soldi faceva la fame. Le piccole mele selvatiche che cercava di raccogliere sugli alberi stenti erano davvero troppo acerbe, troppo dure, immangiabili, e mia madre non poteva assicurarle il pane, né per carità cristiana né per amore del brillante. Ho due bambine, le aveva detto, e non sappiamo quanto tempo si deve restare qua.
C’era la guerra. Quella di Elio Vittorini era stata una bella guerra, la mia una straordinaria meravigliosa vacanza.
Non avevamo acqua, quella del pozzo serviva per bere e cucinare, non ce n’era per lavarsi, e non ci lavavamo. Si dormiva nella paglia, vestiti, e appena svegli, di corsa nei prati senza la solita perdita di tempo, compresa quella della colazione al tavolo di cucina. Qui non c’era né tavolo né cucina, solo un enorme fienile, un’aia, un pozzo e una distesa senza fine di terreni brulli e boscaglia. Tornavamo stanchi e affamati e per noi c’era pane e latte di capra appena munto e poi, nella giornata senza orari, formaggio, minestra di lenticchie o di fagioli, anche cosce di pollo.
Con i bambini, avevano detto gli adulti, non ci possiamo permettere di perdere la testa, e prima di andar via, sotto la pioggia colorata dei volantini americani che invitavano a lasciare il paese, avevano caricato le mule con sacchi di farina, legumi secchi, polli e conigli nelle gabbie. Quindi il cibo non ci mancava.
L’Amante, invece, prima aveva cercato di comprarlo, il cibo, con quel mucchio di carta che poteva servire solo ad accendere il fuoco e con il brillante grosso come una nocciola, poi si era rassegnata e se non fosse stato per il buon cuore delle donne che di nascosto dei mariti le davano qualcosa, sarebbe davvero morta di fame.
Noi bambini, femmine e maschi, sempre in giro a far la guerra, eravamo tutti ufficiali e non fu mai possibile trovare un soldato semplice. Esploravamo il territorio in cerca di nidi vuoti, fiumi o ruscelli. Non per l’acqua ma per i ranocchi. Per questo avevamo rinunciato all’idea di metterci in marcia per raggiungere il mare: lì i ranocchi non si trovavano.
Spesso incontravamo l’Amante che raccoglieva qualche pannocchia inselvatichita di granturco, troppo secca, mezza marcia, apprezzata solo dagli uccelli, e in uno di quegli incontri, poiché ci ripetevano sempre che quando si chiede qualcosa bisogna dire “per piacere”, io, dopo averla salutata, le chiesi:
Per piacere, perché hai un nome da maschio?
Da maschio…? Io mi chiamo Marinella, non è un nome da maschio.
Non ti chiami l’Amante?
Mi guardò, prima stupita, poi rise fino alle lacrime e mi fece una carezza con quella mano bianca con le unghie rosse.
Quindi il suo nome non era l’Amante. Mi sembrò giusto informare gli adulti.
Cosa c’era da ridere? E invece anche loro risero fino alle lacrime.
Hai sentito? si ripetevano, Marinella si chiama, non l’Amante, e continuavano a ridere.
Solitamente con gli adulti ci stavamo poco, solo un mattino siamo rimasti con loro perché quello che chiamavamo zio Peppino, anche se non era lo zio di nessuno, aveva cercato di rubare un secchio d’acqua.
Non era nemmeno mezzo secchio, protestava lui debolmente, smarrito, maldestro, volevo lavarmi. Puzzo!
E quelle parole caddero pesanti come sassi davanti il grande pozzo. Poi un uomo disse: Mi dispiace, zio Peppino, con l’acqua dobbiamo bere e dar da bere agli animali e gli voltò le spalle per entrare nel fienile. Ritornò con un grosso catenaccio mezzo arrugginito e da quel giorno il pozzo rimase chiuso. Si apriva solo al mattino per il rito della distribuzione dell’acqua, e allora si vedeva l’Amante, in fila assieme agli altri, con in mano il pentolino che le aveva regalato mia madre.
A volte veniva a trovarci il baronello, sfollato con la famiglia in una sua proprietà lontana, da noi arrivava con la mula e portava notizie del paese. Parlava e parlava e poi chiedeva un bicchiere d’acqua che a volte diventavano due e anche tre. Nella loro grande tenuta, un vero e proprio feudo con casa e palmento, il pozzo era quasi vuoto. E un giorno, fra lo stupore e l’indignazione di molti, il baronello si versò un po’ d’acqua sul palmo della mano per lasciarla leccare al cane.
Cose da pazzi, anche al suo cane dovevamo dar da bere!
Io, segretamente, parteggiavo per quella povera bestia morta di sete ma allora i bambini non avevano il diritto di esprimere la propria opinione.
Non potevamo permetterci di scialacquare l’acqua, decretarono molti adulti, e appena vedevano arrivare il baronello gli uomini se la squagliavano. Lui era troppo educato e non si sarebbe permesso di restare con le donne se gli uomini di famiglia non erano presenti. Ma una volta, il signore del lucchetto al pozzo non fece in tempo ad andar via e se lo trovò proprio di fronte. Un momento di imbarazzo, e poi: Abbia pazienza barone, noi qui non abbiamo acqua da sprecare.
Il baronello non si vide più.
Tutti erano certi che gli Americani avrebbero distrutto il paese, non avevamo il mare, né un porto, e nemmeno fabbriche d’armi, ma sul fiume Alcantara c’era il ponte che collegava la provincia di Catania e di Messina, e per quel ponte quante bombe avrebbero buttato?
In quelle parole anche noi bambini potevamo intravedere della guerra un volto fino a quel momento sconosciuto e che apparve ancora più chiaro quando il paese bruciò. Illuminato a giorno nel buio della notte, fiamme che si levavano verso il cielo, altissime, e noi in quell’aia davanti il fienile, adulti e bambini, un mucchio di teste con lo sguardo verso il paese lontano. Il nostro paese.
Sapevamo dov’era, oltre il bosco di castagni, ma in basso, molto più in basso, sotto la Valle del Bove, e si capiva come le bombe incendiarie si stavano accanendo su quel che restava ancora delle case. Tacevamo e il silenzio era peggio di tutti i pianti, di tutte le grida.
Non avrei potuto immaginare che, al ritorno, quella distruzione sarebbe stata ai miei occhi la cosa più affascinante del mondo. Mucchi di macerie come colline avevano cancellato porte e facciate di case silenziose, abbandonate, e scalare quelle macerie per entrare dai balconi e dalle finestre senza vetri dava emozioni violente, e poi, una volta dentro, una sensazione fascinosa. Una cucina senza odori di ragù era lì ad aspettare con maioliche azzurre di altri tempi e un bricco di terracotta, intatto e al posto giusto, sembrava pronto per essere usato. Il pavimento, o quel che restava del pavimento, aveva mattonelle a rombi bianchi con rondini nell’atto di volare mentre le rondini vere avevano fatto il nido nell’angolo sconnesso del soffitto, garrivano e fuggivano, e nelle crepe restavano violaciocche e ortiche, soprattutto ortiche, decise a conquistare tutto il campo.
Ma l’esplorazione che dava i brividi, soprattutto all’imbrunire, era quella delle chiese. In piedi ne erano rimaste ben poche e quelle crollate avevano fatto venir fuori crani e scheletri. Scheletri di preti, pensavamo, forse di vescovi. Anche di Papi?
Restavamo nel dubbio, agli adulti non si poteva chiedere, lo capivamo da soli, va bene la guerra e quella straordinaria libertà, va bene tutto, ma andare a scovare gli scheletri nelle chiese era troppo davvero. Un giorno, però, mentre esploravamo il convento mezzo distrutto delle monache, davanti a un teschio che doveva essere per forza di donna visto che là c’erano sempre state solo monache, uno degli ufficiali di quella bellissima guerra, disse all’improvviso: E l’Amante?
Nessuno di noi l’aveva più nominata, forse l’avevamo dimenticata, lui no.
Nessuno gli rispose ma qualcosa che assomigliava alla paura circolò fra noi anche se non era l’imbrunire, anche se il sole splendeva come gli altri giorni.
Gli adulti, fra loro, parlavano quasi sempre del periodo in cui eravamo sfollati e dei furti nelle case, anche le radio erano state rubate eppure erano grandi come mobili, rubate certo da gente del paese. C’era già stato il caso di donna Anna, la lavandaia, con i carabinieri che le avevano fatto “il sopralluogo”.
La figlia di donna Anna, una ragazzina di tredici anni, si vantava con le amiche:
“Quando mi sposo mia mamma mi dà il corredo a dodici.”
“Come sarebbe a dire?”
“Vuol dire: dodici lenzuoli, dodici tovaglie da tavola, dodici coperte.”
Donna Anna, povera che più povera non si può? O erano vanterie senza capo né coda oppure…
Quando la vecchietta andò dalla baronessa madre a riferire quel che aveva sentito con le sue orecchie, Così, così, e così, la baronessa non voleva crederci, scemenze di ragazzina, e poi donna Anna era la sua lavandaia da sempre, quasi una di famiglia, la baronessa in inverno diceva alle serve di riscaldarle l’acqua. Certo, anche perché con l’acqua calda la biancheria viene meglio.
I carabinieri comunque glieli mandò ma era sicura che non avrebbero trovato niente.
Invece trovarono, altro che se trovarono! Dodici paia di lenzuoli, dodici tovaglie… Il corredo della baronessina ricamato dalle suore del convento di clausura.
Comunque da noi la guerra era finita, gli Americani erano sbarcati in santa pace, si erano messi d’accordo con i “Don”, i capi dei capi, dicevano gli adulti, e i soldati si erano arresi subito. In Continente però non era così e c’erano i Partigiani. Non era chiaro chi fossero, i giornali non arrivavano e le radio non erano più state ritrovate. Noi bambini correvamo ancora da una parte all’altra del paese con pentole e padelle che gli adulti chiedevano o davano in prestito perché quelle in rame erano sparite, e quelle di coccio per lo più sfondate o ridotte in mille pezzi. Il sapone si doveva fare ancora in casa con la cenere e il grasso di pecora ma la nostra bellissima guerra era finita.
Infatti, anche se dai soffitti delle aule ci cadevano in testa i calcinacci, si erano riaperte le scuole.
E l’Amante?
Era rimasta sull’Etna ad aspettare quell’uomo che si chiamava come lei o era andata via, come noi, a dorso di un asino o di un mulo?
Avevamo chiesto una volta a un gruppo di adulti che parlavano, appunto, di quando eravamo sfollati, ma la risposta infastidita era stata: Che amante? E noi non ci pensammo più.
Ora ci pensiamo di nuovo ma quegli adulti non ci sono più.
![]()