Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Lo specchio” di Duccio Saccenti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Avevo venticinque anni mi svegliavo la mattina e tiravo cocaina. 

Quel sabato ero uno zombie e non avevo nemmeno un rigo di coca per tirarmi su. Era finita la notte prima sul cruscotto di una Fiat. In casa tenevo una scorta di sostanze in una valigia di metallo, come quelle usate per i viaggi di affari, anonima e sgradevole alla vista; ma quella che un tempo era stata piena di coca, speed, lsd, ecstasy e amfetamine, adesso era dimora solo di alcuni cartoncini di acido lisergico e di qualche grammo di speed. Per curare la depressione da post sballo, decisi che mi sarei fatto di anfetamina, avevo paura che l’’Lsd mi avrebbe fatto perdere del tutto il cervello.

Staccai dalla parete un vecchio specchio. Era l’unica cosa rimasta di mia nonna, pesante e ossidato. Mi vidi riflesso: il viso era smunto, la pelle tesa e gli occhi infossati. Niente male, pensai. Roteai quello specchio e lo poggiai sul tavolo: la faccia perse definizione e attrattività. Non mi rimase che versare sul piano la quantità di droga necessaria e disegnare con la carta di credito un rigo bianco. Talvolta quei cristalli erano durissimi da schiacciare, ma non quella sera, stenderli fu facilissimo. Arrotolai una banconota da cinquanta e tirai su con la narice destra. L’odore del  fenilacetone, il solvente usato per il taglio, mi stordì il naso. Sottovalutata da tutti, lo speed è una gran droga: non delude mai, dà energia, autostima e voglia di spaccare il mondo. Ti fa tornare ragazzino in un attimo.

Quello che mi ero sparato nel naso era un grosso rigo. Le mascelle si indurirono e mi venne voglia di bere. Accesi lo stereo, rendendomi conto che volevo andare all’“Iron Fist”, un locale situato in un capannone di una ex fonderia, dove facevano concerti di musica rock. 

Per uscire scelsi un abbigliamento adatto: delle scarpe Converse, dei jeans sdruciti, una t-shirt di un concerto e un vecchio chiodo pieno di spille, con la cerniera che si stava staccando. Non me ne ero ancora liberato perché temevo che l’aura di Stevie B., rocker inglese e suo precedente proprietario, si sarebbe potuta incazzare. 

Allentai la tensione mascellare bevendo un bicchiere di rhum. Lo mandai giù in un sorso senza nemmeno assaporarlo. La musica di sottofondo, una serie di dissonanze e slanci melodici, muri di suono e deliqui psichedelici, mi fece ballare e saltare per la stanza. Ero pronto.

Con il sapore dell’alcool in bocca mi tornò voglia di speed. Un altro rigo non mi avrebbe fatto male, così mi rimisi a picchiettare sullo specchio. Una volta finito, montai in macchina e partii sgommando.

Frequentavo quel locale da anni, ma, ancora, sbagliavo strada per raggiungerlo. Era situato in una zona industriale priva di punti di riferimento, in mezzo a fabbriche e campi incolti, strade che sembravano tutte uguali; quando mi ci trovai di fronte, ero su di giri e avevo l’ansia.

Entrato nel locale, andai diretto al bar, avevo bisogno di bere.

Appoggiato al bancone ripresi il controllo di me stesso. Ordinai una birra; il bicchiere mi avrebbe tenuto compagnia. Il sapore del malto mi risvegliò i sensi e guardai intorno. Sul palco, i musicisti stavano finendo di sistemare gli strumenti. Volsi lo sguardo verso il pubblico. Era invaso da ragazzi con giubbotti di pelle, Dr. Martens, jeans logori, catene al collo e capelli con la “cresta”, abbigliamento tipico di un concerto punk. Il mio sangue fremeva: era la mia serata.

Le luci si spensero, il brusio si quietò all’istante. Il cantante, che indossava un giubbotto di jeans senza maniche, si portò al centro del palco e scandì queste parole:

“This-is-RRRRRRRR-Radio-Clash!!!!!!”

Un urlo e un fragore energico di musica punk invasero il locale. Tutto il pubblico si avvicinò al palco facendo headbanging. Erano una cover band dei Clash e ci sapevano fare. Il cantante aveva una buona voce, roca e graffiante, ricordava Joe Strummer, ma non lo scimmiottava, la sua performance gli veniva naturale ed era coinvolgente.

”Siamo contro il fascismo, contro la violenza e a favore della creatività”: la canzone White Riot, che incoraggiava gli scontenti giovani bianchi dell’epoca a diventare attivi politicamente seguendo le gesta della popolazione nera, esplose dalle casse, scatenando tutto il pubblico.

Le sue urla e i suoi slogan mi stavano facendo viaggiare a ritroso nel tempo di più di venti anni.

La birra era finita. Al bancone del bar non c’era coda e ne approfittai per fare il bis.

Il “Times” definì i Clash “una delle prime cinque rock band più grandi di tutti i tempi”; ma il rifiuto di uniformarsi alle logiche commerciali, di essere liberi e sperimentare, compromise la loro ascesa. Ho sempre rimpianto di non averli potuti vedere dal vivo: ero troppo piccolo quando si sciolsero.

London’s burning!
London’s burning!
All across the town, all across the night
Everybody’s drivin’ with full headlight
Black or white you turn it on, or face the new religion
Everybody’s sittin’ ‘round watchin’ television

Le parole di “London’s burning” mi stavano bruciando il cervello. Con la musica, la spinta dello speed si propagò e mi fece sentire lo stridore, il frastuono, il conflitto, lo scontro e la rabbia delle strade della Gran Bretagna degli anni settanta. Saltavo e cantavo stonando le canzoni.

Il concerto proseguì violento, trascinante e allucinante. Mi sentivo nel bel mezzo di una rivolta.

Should I stay or should I go now?
Should I stay or should I go now?
If I go there will be trouble
And if I stay it will be double
So come on and let me know
Should I stay or should I go

Ad un certo punto, il cantante, intonando quel ritornello che tutti i fans dei Clash conoscono, impazzì. Con un balzo prese una radio situata sul lato del palco, strappò la spina, la sollevò sulla testa e con la faccia livida la scaraventò per terra riducendola in frantumi. Il pubblico assisteva a bocca aperta, in silenzio. Quel punk rock ci stava stregando: era spregiudicato e maleducato. Come tutti noi.

Davanti a me, un ragazzo ubriaco, barcollò scontrandosi con le persone che gli stavano vicino, rotolò a terra in preda a una lotta contro se stesso. Alcuni ragazzi cercarono di tirarlo su e rimetterlo in piedi, ma questo continuò a dimenarsi come la coda tagliata di una lucertola e a cadere di nuovo come un sacco di patate. Poi di colpo smise, come se la vita gli fosse uscita dal corpo. La ressa di gente lo coprì e io me ne dimenticai nell’istante in cui scomparve dalla mia vista. 

Rapito dal concerto non mi ero accorto di una ragazza che mi fissava. Feci mente locale per capire se la conoscessi, ma non mi ricordava nessuna. Meglio così. Per un po’ non ci feci più caso, ma quando guardai di nuovo in quella direzione mi fissava ancora. Un leggero cenno con la testa e le andai incontro.

Aveva i capelli rossi, un naso a patatina, la pelle chiara e un piercing sotto il naso. Il trucco non era pesante. Ai miei occhi liquidi sembrò bellissima. Mi presentai. Lei si rivolse a me con un semplice “Ciao, come va?”

Sorrisi e risposi di slancio: ”Sono completamente fuori!”.

Si avvicinò al mio orecchio per farsi sentire meglio e disse: “Sì questo lo vedo…” 

Poi sussurrò: “Piacere, Laura…”

Laura… ripetei dentro di me…

Ma subito fui presi da un dubbio: avevo capito bene? aveva detto Laura o Lana? 

Il bicchiere che avevo in mano si fece pesante, triste e vuoto. La birra era finita così come la mia sicurezza. La testa mi girava. Per riprendere in mano la situazione, le chiesi se le andava di bere una birra.

“Perchè no!” mi rispose.

“Aspettami qui” le dissi e mi diressi al bar. Muovermi da sotto il palco mi fece bene e ripresi la mia naturale lucidità. Veloce, ordinai le birre, volevo finire di vedere il concerto.

London calling, yes, I was there, too
An’ you know what they said? Well, some of it was true!
London calling at the top of the dial
And after all this, won’t you give me a smile?
I never felt so much a’ like a’like a’like

Sull’ultima nota di London Calling, le luci del palco si spensero, nello stesso momento in cui, un urlo lacerante, anarchico, esausto e disperato scosse il locale buio:

“Mi fate tutti schifo! Siete tutti uguali! Ma la Rivoluzione è alle porte! Ricordatelo!”. 

Quel commiato mi aveva reso inquieto, la droga si muoveva veloce dentro di me, non appena le luci del locale si accesero, cominciai a parlare a Laura/Lana. Erano pensieri che nascevano dalle vibrazioni appena vissute. Parole appassionate. Ero posseduto. Continuavo a esprimere i concetti e rivederli da angoli diversi. Dimenticavo ogni idea, al sorgere della successiva, finchè, dopo un po’, tacqui. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato. Lei era ancora davanti a me, interessata, ma non sapendo di cosa avessi parlato fino a quel momento entrai nel panico. Avevo bisogno di altro speed e trovai la classica scusa per andare in bagno:

“Devo andare a pisciare, torno subito…”

I cessi del locale erano i bagni della ex fabbrica con gli enormi specchi, i profondi lavelli e le rubinetterie grossolane: tutto ormai era fuori moda. Dagli orinatoi  giungeva un odore pungente di disinfettante mischiato a quello nauseabondo di piscio e vomito. Sul pavimento una poltiglia giallo-marrone, viscida e maleodorante. Mi diressi verso uno dei pochi bagni dotato di una porta. Mi chiusi dentro e subito scartai la cartina con dentro la droga. Non potevo più aspettare. Ma quando mi resi conto che la cassetta dello scarico era incassata nel muro e la ciambella del water era tappezzata da chiazze di piscio e merda, mi crollò il mondo addosso e un’ imprecazione mi si strozzò in gola: 

“Cazzo! Merda!”

Battei i pugni e la testa su quelle pareti luride, imbrattate di scritte e adesivi.

“No, no, no!” piagnucolai.

Dove avrei steso la droga di cui avevo disperato bisogno? 

Mi levai il chiodo di dosso, lo piegai in due e lo stesi sul pavimento piscioso. La pelle del giubbotto, vecchia e dura, mi avrebbe fatto da piano per stendere le righe rimaste.

Versai il contenuto della busta e il giallo della droga creò un bel contrasto con quello sfondo nero. Ci stesi sopra la polvere. Il rito della serata si ripeté. Quando tutto fu finito, raccolsi il chiodo, e con un paio di sputi e un po’ di carta igienica lo pulii.

Uscito dal bagno la trovai ancora lì davanti ad aspettarmi. Sorridendo la presi per mano. Facemmo un giro per il locale, parlando tra di noi e con gli amici che incontravamo. Tutto andava alla grande.

La droga salì all’improvviso, come un big bang. Me ne accorsi dal brivido caldo che mi attraversò la schiena e andò a sbattere dentro al cervello. Prima di uscire del tutto di senno, mi feci coraggio e le chiesi se aveva voglia di andare fuori in macchina a scopare.

“E’ tutta la sera che aspetto il tuo cazzo. Ti voglio e mi piaci.”

Le feci l’occhiolino. 

L’adrenalina e il testosterone mi fecero trovare subito la mia auto. La guardavo mentre cercava di togliersi i pantaloni strettissimi, appiccicati alle cosce dal sudore; le fu impossibile levarli e le rimasero bloccati al polpaccio, così perplessi e sexy. Ero eccitato, ma anche così confuso che dovette aiutarmi a spogliarmi. Magro come ero, i miei jeans caddero con facilità. Riuscii a saltarle addosso.

Voleva essere schiaffeggiata e insultata. 

“Tranquillo, non mi fai male, mi fai godere, forza non avere paura”. 

Mi feci prendere dalla mano. Il mix di alcool e droga non fece che aumentare la violenza. Le rivolsi tutti gli insulti che mi venivano in mente, la picchiai sul viso con una tale rabbia che rimasi senza fiato. Le strinsi i polsi dietro la schiena, e continuai a colpire quella carne come un pazzo. Non sapevo nemmeno se la stessi scopando. In lontananza lamenti di piacere e di agonia, finché, ormai, lontano dalla realtà, diventai sordo.

All’improvviso, un urlo mi scosse:

“Basta! Basta! Testa di cazzooooo! Ma che ti è preso! Mi fai male! Non lo vedi! C’è sangue dappertutto! Bastaaaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!”

Ebbi un sussulto.

Accanto a me c’era la notte; solo, in macchina, mi ero pisciato nei jeans. Il sedile del passeggero era macchiato.

Decisi che avrei acceso il motore e che me ne sarei tornato a casa.

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