Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “Se il buongiorno si vede dal mattino…” di Giuseppe Pellizzeri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

– Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto – avrebbe detto Ramòn.

Sorrido pensando che dovrei incidere questa frase su una lastra di marmo ed appenderla nello mio studio.

Perché molto spesso le mie visite si trasformano in metaforici e involontari duelli in cui, manco a dirlo, la parte dell’uomo con la pistola tocca a me.

Lungomare, mattina presto.

Aria nei polmoni, Eddie Vedder nelle orecchie e via andare.

Che poi non è neanche un andare sostenuto che l’età avanza, è più che altro un andare da dopolavoro ferroviario, da partitella del lunedì sera ma vista dalla parte del portiere, non si sa mai, e senza prendersi troppo su serio, che ad attraversare il confine tra piacere e dovere ci si mette un attimo.

Ma tant’è, non divaghiamo.

Dicevo, me ne andavo sgambettando alla bell’e meglio da circa un’ora, quindi quasi alla fine delle mie fatiche, con tutto quello che ne consegue, acido lattico e fiato corto compreso, quando, alzando la testa, vedo uno che attraversa la strada nella mia direzione.

Bah, penso, sarà una coincidenza.

No.

Non era una coincidenza.

Quello puntava proprio me.

Alza la mano per fermarmi e con la faccia più innocente del mondo, mi dice:

“Dottore, quasi non la riconoscevo. Mi farebbe una cortesia? Questa mattina avevo la pressione alta, me la vuole misurare lei così sto più tranquillo?”

Di sicuro mi aveva già visto all’andata e mi stava aspettando al ritorno.

Mi fermo rifiatando in modo vistoso e lo guardo in modo colpevole.

Ma blocchiamo un attimo la scena. Mettiamo tutto in pausa e ragioniamo.

Voi al mio posto cosa avreste fatto?

A me sono venute in mente alcune possibili vie di uscita, al netto di quelle che comportano l’eliminazione fisica della persona:

  1. Con una finta alla Messi lo dribblo e poi proseguo come se niente fosse.
  2. Nego, dicendo in un italiano stentato che sono il fratello gemello del dottore appena arrivato dalla Germania.
  3. Gli do una testata in piena fronte così al risveglio non ricorderà più nulla (ma questo forse non si può fare, anche se a volte…)
  4. Strappo i primi fili d’erba che trovo per terra e, emulando Rocco Schiavone, rollo una canna e gliela offro, garantendo sulla sua efficacia nell’abbassare la pressione. E vado via.

E voi? Suggerimenti?

Ma andiamo avanti.

Mentre ragiono su queste cose, l’individuo mi guarda e inizia ad indietreggiare.

Ora, io non lo so cosa abbia visto nella mia faccia, ma posso immaginare che sul mio volto, vuoi per la stanchezza, vuoi per le molteplici ipotesi di eliminazione fisica che mi si accendevano in testa e cominciavano a piacermi, si sia stampato uno sguardo tipo Jack Nicholson in Shining, quando, affacciandosi alla porta del bagno dopo averla sfondata a colpi d’ascia, dice alla moglie con un ghigno malefico “sono il lupo cattivo” (riguardatevi la scena).

E sempre fissandomi, ma con un po’ di timore mi chiede: “Dottore, tuttapposto?” detto proprio cosi, con le parole attaccate, senza spazio.

“No, non è tuttapposto” ho risposto un poco avvilito, mentre la stanchezza, fisica e mentale, prendeva il sopravvento.

Avrei voluto aggiungere che in quel momento tra me e il ‘tuttapposto’ c’era la stessa, lunghissima distanza che c’era tra lui e la sua salvezza.

Ma per pronunciare frasi di questo tipo, ad effetto, devi avere le physique du rôle, devi essere lucido e spietato come un sicario, o come il Gorilla. Ed io non lo sono. Punto.

Ma lui capisce e quasi come una ammissione di colpa mi dice: “Dottore, forse l’ho disturbata, vero?”.

Non rispondo perché le prime cinque risposte che mi vengono in mente sono tutte da codice penale.

E continuando a indietreggiare di quel tanto che basta, penso, per sentirsi fuori pericolo conclude: “Forse è il caso che la pressione me la misuri io più tardi con calma e poi al limite la chiamo al telefono”.

Si volta e, con passo spedito, riattraversa la strada e scompare, lasciandomi avvilito ed avvizzito, mentre quel po’ di voglia di correre che mi era rimasta fugge via veloce come Beep Beep inseguito da Willy il Coyote.

-Ed ero in incognito col cappello in testa…la prossima volta scafandro da palombaro- mi ripropongo scherzando (ma neanche poi tanto) mentre mi dirigo verso casa in cerca di una doccia.

Esco di casa e prima di andare allo studio decido di fermarmi al bar a fare colazione.

Faccio una premessa.

Io al mattino non sono in grado di sostenere nessuna discussione. Ci solo quelli che appena svegli articolano la bocca in modalità mitraglietta, tipo venti parole al secondo, io invece sono uno dalla carburazione lenta. Non mi piace parlare e ancor meno ascoltare. Che volete farci, ho i miei ritmi. Fosse per me aprirei bocca non prima di due ore dopo la sveglia (e qualcuno potrebbe anche obiettare che se non l’aprissi per tutta la giornata sarebbe meglio, ma comunque…).

Niente contro il chiacchiericcio da bar. Anzi. Mi piace sentire il rumore di fondo che fanno le voci sovrapposte e mi piace osservare come le persone occupino lo spazio, creando dei movimenti di scena quasi teatrali. Ma io non ne devo far parte. Io devo restarne fuori, impegnato come sono nel rito dionisiaco della colazione. Si lo so, sono un epicureo, ma di ritorno e senza averne né l’aria né la stoffa, me lo dico da solo.

Chiusa premessa.

E mentre sono lì, a godermi il mio trip personale e sensoriale…

… “Dottore, posso disturbarla solo un attimo?”

Ecco, come non detto, incantesimo rotto.

Pensate come è strana la vita: un attimo prima sei felice, l’attimo dopo… puff, è finita la birra (in senso metaforico, sia chiaro).

Mi giro perché voglio vedere in faccia il mio personale ‘sicario dei momenti felici’. Ognuno di noi ne ha uno, che interviene, non invitato, a rovinarti l’attimo. Proprio come quando il tuo presunto amico ti svela il finale della tua serie preferita (scusatemi ma proprio non ce la faccio a dire ‘ti spoilera il finale’, è più forte di me, mi si inceppa la lingua, proprio come capitava a Fonzie quando doveva dire ‘ho sbagliato’).

Avrei voluto fulminarlo con lo sguardo e dirgli “No, caro il mio inopportuno amico, non si interrompe così un’emozione…” ma penso che non avrebbe capito.

Invece rispondo “Prego”, inarcando le spalle come a dire tanto ormai…

Lui mi passa dei fogli e mi dice “Le volevo far vedere gli esami del sangue che ho appena ritirato. C’è scritto che ho il colesterolo alto. L’ultima volta era normale. Che dice, sono malato?”

Confesso che per un attimo ho pensato di trasformarmi in Rigoletto (si, vendetta, tremenda vendetta) e dirgli che era spacciato e che poteva fare testamento, ma non so se avrebbe colto l’ironia e poi ho temuto per le sue coronarie.

“Ma io mangio poca carne, forse mi muovo poco, ma non ho tempo e poi mi sento bene…” inizia a dirmi con voce lamentosa e poi continua con l’elenco dei cibi che mangia, ecc…ecc…

Stavo per partire con un bel pistolotto moraleggiante sul corretto stile di vita (sai che palle), quando all’improvviso inquadro la scena per quello che era veramente: una confessione.

Lui non stava parlando al suo medico, lui stava parlando al suo Padre confessore, tentando di giustificare il suo peccato di gola, se no perché era al bar? e cercando una improbabile assoluzione.

E in fondo chi ero io per negargliela? E di certo non volevo essere il suo ‘sicario dei momenti felici’.

Quindi mi calo nel nuovo ruolo che mi ha appena affibbiato, e con fare pretesco, poggiandogli una mano sulla spalla, gli dico che non sarà certo una granita con panna a rovinargli la vita.

Si illumina in volto, mi guarda riconoscente (giuro che per un attimo ho temuto che si aspettasse da me la formula di rito: Ego te absolvo in nomine Patris ecc. ecc.) e con passo leggero si avvia verso il bancone del bar.

Mentre io penso, guadagnando l’uscita, che forse sia il caso di andare allo studio, la mia confort zone, dove sentirmi protetto.

Entro, mi infilo il camice e riempiendomi metaforicamente le tasche di ghiaccio inizio la mia giornata lavorativa

…che sarebbe trascorsa normalmente, come una delle tante giornate anonime se non ci fosse stato l’incontro con lui, il ragazzo col tatuaggio.

“Buongiorno dottore” mi fa una voce giovanile.

“Buongiorno” rispondo io alzando gli occhi.

Mi trovo di fronte un ragazzo ventenne, che mi guarda sorridendo, perfettamente allineato con lo stile del suo tempo (un paio di orecchini, diversi tatuaggi, ecc..ecc.., insomma il suo ticket di ingresso per far parte dello spettacolo).

Però qualcosa mi colpisce e mi incuriosisce: la sua capigliatura.

Nel catalogo di siepi da giardino che sono ormai diventate le teste dei ragazzi, quella del mio giovane paziente meritava una menzione particolare.

Non era infatti potata in stile geometrico o solcata da tagli netti e precisi come le Linee di Nazca.

No.

I suoi capelli erano chiomati come un Baobab dell’Africa equatoriale.

Cerco di spiegarmi meglio.

Non so se avete presente una busta di fave… pensateci…ecco, appunto…per quanti sforzi facciate, non c’è verso di dargli un verso, le fave dentro non ci stanno.

Così erano i capelli del mio giovane paziente, sparati in ogni direzione.

Ricambio il sorriso e gli faccio un cenno di assenso puntando i capelli, come a dire originale sei originale.

(Non ci posso fare niente, è la mia natura. Cerco sempre la complicità con i pazienti).

Lui però mi guarda, guarda i miei, di capelli, solleva le spalle e con aria noncurante mi dice: “io non c’entro, fanno tutto loro. Basta averli e non lavarli…”

Ah però…

Non so se scherzasse o mi prendesse in giro.

Nel dubbio… 1 a 0 per lui.

Così imparo a voler fraternizzare col nemico.

E si sdraia sul lettino per essere visitato, non prima però di essersi tolto la maglietta ed avermi mostrato il pezzo forte della collezione: un tatuaggio… no, è riduttivo chiamarlo così. Direi piuttosto una cornice monumentale, tipo Fregio del Partenone, che dal braccio destro continuava sul torace per poi finire al braccio sinistro.

Il mio giovane paziente mi guarda, poi guarda fiero il tatuaggio e dice “è un tribale” (come se io sapessi e sopratutto capissi cosa volesse dire).

“Si, veramente bello” annuisco, cercando di essere quanto più credibile agli occhi del ragazzo.

Il quale, però senza ascoltarmi conclude ieratico: “ un tribale Maori!” e lo dice in modo così categorico che al confronto i tatuaggi di Fedez sembrano degli stickers.

Ora, giuro che credevo di averla solo pensata. Invece la frase che segue mi sgorga direttamente dalla bocca senza che io possa fermarla:

“D’altra parte vuoi che nella foresta tra Capo Alì e Capo Sant’Alessio non ci sia una tribù di Maori in grado di comprendere ed apprezzare il tuo tatuaggio?”

Lo so, non dovevo dirla, sono stato una carogna. Ma l’assist che mi aveva offerto era troppo invitante. E poi aveva cominciato lui…

Tanto confidavo sul fatto che il mio giovane paziente capisse l’ironia, si facesse una risata e tutto finiva lì.

Invece no.

Invece quello spalanca gli occhi e con quell’aria di disarmante ingenuità che solo i ragazzi hanno (solo loro, perché le ragazze stanno mille miglia più avanti, ma questo è un altro discorso), mi dice quasi incredulo e un po’ speranzoso: “ci sono davvero?!?!”

No. Non ci potevo credere. L’aveva detto veramente.

A questo punto qualsiasi cosa avessi detto avrebbe solo peggiorato la situazione già di per se surreale. Avevo perso la partita.

Game over.

Ho lasciato andare le braccia lungo i fianchi alzando metaforicamente bandiera bianca e mi sono arreso al nemico senza condizioni.

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2 commenti »

  1. Letteralmente spassoso. Applauso, fiori, sipario.
    Grazie e buon concorso.

  2. Grazie di cuore

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