Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “La città dall’alto” di Francesco Azzirri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Se dovessimo togliere tutte le cose che non funzionano non rimarrebbe niente, pensa Orso Franto, mentre con la Fidata misura la pazienza dell’automobilista medio. Una macchina che poi fidata mica tanto a sentire chi ne sa più di lui; carrozzeria claudicante, tenuta di strada pessima e bla bla.

Le città sono il risultato della prospettiva utilizzata per mirarle e la sua non mostra che pezzi di spazi non comunicanti, pulsazioni metropolitane lanciate all’affanno per procrastinarne il ritmo. Ha la malattia del distacco perché, a meno di frequentare i suoi immortali, non sente niente. Non può credere che il fine ultimo possa essere quello di espandere formicai ricavandone intermezzi di immortalità. Ma lui è malato, cosa volete che ne sappia; in fondo parecchi scovano bellezza e mica guardano la città dall’alto. Da qualche tempo si è attivato per diventare membro attivo di questa prospettiva creando spazi di vuoto tra lui e gli automobilisti che gli stanno davanti. Oggi l’ha reputata una giornata calma, con solo due automobilisti inferociti, una giornata ovattata.

Sono Orso Franto ripete per farsi coraggio.

Da qualche tempo trova che l’ovatta ricopra anche i ricordi. Che i ricordi sono meno belli di quando li ricordava un po’ di tempo prima. Rispetta gli orsi perché filtri di ovatta nella loro vita secondo lui non ce ne sono. I lupi, con le loro gerarchie, ce l’hanno. I gatti si perdono intorno a una mosca o a una pozza e di ovatta forse giusto un po’ nella dimensione domestica, ma Gatto non avrebbe potuto chiamarsi, che era morto a trentotto anni di cancro al pancreas l’unico Gatto degno di questo nome. Una volta creò una fila clamorosa e uno gli dette dietro lanciandogli contro un accendino. Finì nel tettuccio della Fidata e non l’ammaccò nemmeno. La sua ostilità gli fece paura. Continuava a clacsonare e a tallonarlo e Orso Franto mica è orso sul serio, quello gliele avrebbe suonate e allora finse di portarlo nel suo ghetto immaginario abitato da un gruppo di poco di buono, magari armati, facendogli cenno di seguirlo, Vieni, vieni, stronzo bastardo. E quasi ci credeva. Alla fine il tipo svoltò e Orso Franto stette il resto della serata con l’inquietudine, che è già qualcosa.

Questa di creare file è diventata la sua principale attività. Non sa nemmeno se possa essere considerata tale perché parrebbe che queste debbano avere una qualche utilità, un fine, e il fine ce l’hanno tutte le cose, pure dare un senso al fatto di vivere guardando la città dall’alto, ma poi passa il discorso che se non è utile nella testa della maggioranza della popolazione allora non è un’attività. Una gran fregatura. Iniziò a creare file un giorno come un altro di un mese qualsiasi mentre pensava al paperino sfigato che gli toccavano due giorni al lago come vacanza e invece agli altri paperini due settimane al mare o tre in montagna e pensò che non gli tornava adesso come non gli era tornato quando lesse quel numero di Topolino trentacinque anni prima. Topolino è spietato.

Guardando la città dall’alto i ricordi arrivano come per colmare gli interstizi sulle arterie di cemento; in questi momenti la disgregazione con il tutto giunge al culmine, come succede a quelli che ridono da soli di continuo ricordando una scena di quando ancora erano vivi o così i fatti facevano credere.

Questo bisogno di creare file spera non possa essere assimilato al variegato mondo delle manie o dei tic. Un bisogno incontrollato privo di intenzione non sarebbe dignitoso. Sente sì nascere, dopo una decina di minuti che è in macchina, il bisogno di procurarne una, ma è la prospettiva deistica a volere un nuovo ritmo nel pentagramma urbano. L’eventualità che possa trattarsi di un tic l’aveva mandato in paranoia più d’una volta e, quando questo era accaduto, aveva iniziato a enumerare quelli del suo passato per giungere alla conclusione che no, non si trattava di un tic che se non lo assecondi ti prude dentro. In ordine sparso: strizzare l’occhio destro, ruotare la mandibola, strabuzzare gli occhi, strizzare le mani. Quello di muovere un occhio per sdoppiare le immagini fu il primo tic e lo faceva all’asilo, così vedeva due simboli dei grembiulini invece di uno. L’oculista sosteneva fosse a causa dell’occhio pigro ma lui preferiva credere fosse un suo speciale potere.

Un’altra cosa che fa è dire cose rischiose.

Vania, la sua ex, aveva delle macchie più chiare in qua e in là sul viso e una volta, in intimità, la chiamò Pimpa dell’Armando e lei s’incazzò ma non si lasciarono per questo.

Ci sono delle figure che richiamano più delle altre, pur non ricercandone lo stile, degli anni; Vania era anni ottanta e ogni tanto glielo diceva e la prendeva meglio della storia della Pimpa.

Sosteneva non potesse esserci Pimpa senza l’Armando ma lui non era l’Armando e forse si erano lasciati per questo.

Orso Franto ha un amico che si chiama Paolo. Paolo è un ragazzone convinto che chi non si sente a suo agio al mare, quando sa di essere stato in passato un essere marino e poi un anfibio, mica sta bene. La consapevolezza d’essere evoluzione lo calma. I pesci richiamano l’acquario più di quanto un mammifero africano richiami lo Zoo è una delle sue massime e Orso Franto la trova una bella frase anche se mica ne capisce il punto.

Lascia stare Love me tender è invece la frase fissa del momento. Intervalla così Paolo, una tantum: lascia stare Love me tender come rafforzativo, lascia stare Love me tender nei momenti di vuoto, lascia stare Love me tender dopo aver picchiato qualcuno. In azienda se lo tengono stretto perché è un genio informatico pagato quanto un commesso.

Con Paolo si conobbero due volte e conoscere qualcuno due volte mica capita spesso: Orso Franto stava tornando da prendere il pane e si sentì chiamare. Era un richiamo primordiale, un riconoscimento, come se si fossero visti solo qualche giorno prima. Orso Franto non sapeva chi fosse quel bambino e invece quel bambino sapeva. E insistette per entrare a salutare sua nonna e sua mamma e loro se lo ricordavano. Quando Paolo se ne andò gli spiegarono che quando avevano tre anni o giù di lì una volta giocarono insieme. La nonna disse a Orso Franto che Paolo era un po’ tocco. Così Orso Franto conobbe Paolo per la prima volta che per Paolo fu la seconda. Iniziarono a uscire i pomeriggi. Al bar a giocare ai videogiochi a Paolo non piaceva stare e Orso Franto se ne accorse subito quando, inseriti due pezzi da cinquecento lire sul gioco del Wrestling per fare il doppio, Paolo iniziò ad agitarsi e a urlare. E allora nulla. Con lui poteva fare solo passeggiate, lanciarsi la palla e mangiare un gelato. Sennò s’incazzava.

Ogni tanto chiedeva a Orso Franto di saltare, così, dal nulla, ma Orso Franto non saltava e allora Paolo gli lanciava i sassi contro e, le prime volte, Orso Franto aveva paura, come quella volta con il wrestling, ma poi capì che bastava mettersi a correre gridandogli di seguirlo. Poi smise di correre perché scoprì che era efficace anche dirgli di non rompere il cazzo puntandogli il dito contro. I genitori di Paolo parevano dei nonni e secondo Orso Franto questa cosa mica aiutava perché facevano finta andasse tutto bene. Sono passati trentatré anni da allora e i genitori di Paolo non ci sono più e lui se la cava mica male all’Euronics. Una volta menò uno che si lamentò che la mela del Mac che aveva comprato da lui era rotta. Mela rotta, voglio la mela intera!, gli gridava spintonandolo, sicuro che il Mac vero fosse quello taroccato con la mela intera.

L’episodio della mela raccontato da Paolo fece scrivere una poesia a Orso Franto su come spesso non manchi lo spazio ma il vuoto da riempire, che il vuoto lo percepiscono in pochi e se solo si potesse comprare, lo spacciatore di vuoto da riempire farebbe i veri soldi. Invece i soldi li fa chi spaccia il vuoto come pieno.

Anni fa, in piena pandemia, aveva pensato di scrivere “È facile smettere di usare i social se sai come farlo”, sulla falsariga di Allen Carr, con un sacco di cose più intelligenti, ma poi mica ci sapeva fare coi libri e la promozione di quel che scriveva e qualche blogger doveva già averlo scritto e se non lo aveva già scritto lo avrebbe fatto in maniera più efficace e subdola di come l’avrebbe scritto lui.

Ognuno ha la sua grande gioia. Ognuno la perde o la coltiva. Ognuno la annoia.

La grande gioia è arte che crea arte. Nell’Eden non c’era bisogno di lavorare e si creava in continuazione e Dio era in estasi. Poi subentrò la monotonia; l’arte si stava afflosciando e allora basta. Donne e uomini avrebbero dovuto faticare per avere meno tempo per creare e, magari, concentrando il tutto in un minor tempo, l’arte sarebbe migliorata e l’autocompiacimento di Dio sarebbe tornato ai massimi livelli.

Orso Franto sente lo sguardo di Dio in attesa di immense file di auto che alterino il ritmo senza un perché apparente.

Quando gli altri se la passano uguale o peggio, il suo animo non riesce a giovarsene e capisce che il fondo toccato ha un doppio fondo non così fondo ma tanto freddo da ghiacciargli i piedi. Questo Orso Franto l’aveva capito attraverso un gelato all’amarena che gli fece venire da piangere. Non si tratta di bere o affogare; un giorno si realizza che la zuppa inglese non la tiene più nessun gelataio e non si capisce più quel che si ha intorno. Durante le camminate per il bosco ripercorre spesso il momento in cui tutto iniziò a precipitare; ci fu un tempo in cui i positivi al virus furono più numerosi dei sogni infranti.

Lavoro, cellulare, casa, serie americana, cellulare. Il sabato una bevuta fuori con Paolo che sa di déjà vu. E non è che prima del virus andasse meglio, ma questo lubrificò meccanismi già a regime da almeno un decennio.

Ogni tanto pensa al suo amico Gatto che morì prima della pandemia e a volte lo invidia ma poi subito se ne vergogna e allora manda un bacio verso il soffitto.

Prima di questa sua attività anarchica aveva pensato di progettare un drone sensibilissimo che si accorgesse, prima dei riflessi umani, quando un oggetto sta per cadere, ma poi lasciò fare perché costava meno ricomprare l’oggetto. La modernità non rammenda, non si prende cura. Sostituisce.

Alla sera freme in lui il mai concluso ricordo di vite precedenti; nel suo monolocale si perde tra vecchi dischi e libri e ammennicoli che gli ricordano il mondo com’era prima. Da anni compra solo musica e lettere liquide perché non vuole intaccare il suo rifugio con odori della nuova vita che è mica vita. La poltrona letto, il tavolo, la cucina, la scrivania; tutto è immerso nell’odore del prima. Il mondo là fuori, o meglio, negli altri dentro, è a portata di milioni di dita che collidono con vetri digitali di varia grandezza.

Alla mattina immagina di vivere nella pallina di vetro che sta sopra alla mensola, all’interno della casetta circondata dagli abeti, mentre fuori una neve ciclica lo nasconde allo sguardo pretenzioso di Dio.

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