Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Tre storie, una storia” di Stefano Facciolo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Mi chiamo Alexander, e oggi 30 giugno 1992 divento grande: compio dieci anni e i miei genitori mi hanno organizzato una bella festa di compleanno.

“ Auguri Sasha, hai raggiunto il tuo primo importante traguardo: la tua età è arrivata alla doppia cifra, dieci anni! Complimenti!”

Non fece in tempo a dire queste parole mio padre, che la porta della nostra abitazione con un boato che sembrò un tuono, si spalancò di colpo e la nostra casa si riempì di persone che altri non erano se non i nostri vicini di appartamento. Il mio primo pensiero fu di una entrata a sorpresa da parte loro per il mio compleanno, ma quando vidi che erano armati di bastoni e manganelli di gomma e si avventarono su mio padre e mia madre, picchiandoli selvaggiamente, la paura che colpissero anche me mi mise le ali ai piedi e fuggii per le scale. Quando, ore dopo, tornai a casa, la trovai devastata. Mio padre era a terra, coperto di sangue e non respirava più. Mia madre era rannicchiata su se stessa in un angolo, nuda, e piangeva senza lacrime. Mi avvicinai a lei tremante e timoroso; quando lei mi vide, mi prese e mi strinse a se. Con un filo di voce mi disse: “dobbiamo andar via di qui, prima possibile”. Tra le lacrime, le chiesi il perché, ma lei non mi rispose. Si alzò, tenendomi per mano mi portò nella loro camera da letto, dove si vestì, prese una borsa e la riempì con poche cose sue e mie e senza guardarsi dietro, quasi strattonandomi uscimmo da quell’appartamento della periferia di Sarajevo. E non avrei più rivisto né l’uno né l’altra!

Era una mattina piena di sole e di calore come ce ne sono tante in Burundi, ed insieme a mia madre stavamo mangiando quel poco di cibo che era rimasto nella capanna. La capra che portavo al pascolo tutte le mattine era stata uccisa da dei soldati che il giorno prima erano venuti nel villaggio ed avevano ucciso anche tutti coloro che vi avevano trovato. Non erano molti:c’erano soprattutto bambini, donne e vecchi. Escluso me, che vedendoli arrivare ho abbandonato la capra e mi sono nascosto in una buca, mia madre e poche altre donne che erano in un campo poco lontano dal villaggio e qualche altro mio compagno di giochi che è riuscito a fuggire, non era rimasto vivo nessuno. In silenzio così come eravamo stati fino a quel momento, mia madre si alzò, mi prese per mano e iniziando a camminare, senza voltarci indietro ci allontanammo dal villaggio percorrendo il sentiero polveroso e assolato che loattraversa. Fatti pochi passi, un piccolo sasso bianco colpì la mia attenzione e lasciata la mano di mia madre andai a raccoglierlo. “Enoch, vieni qui, non mi lasciare sola” mi disse mia madre. “Non ti preoccupare, mamma. Sto solo prendendo il mio talismano che mi aiuterà a proteggermi e a proteggerti. Oramai con i miei dodici anni sono io l’uomo della famiglia”. E questa volta prendendola io per mano, abbiamo continuato a camminare su quel sentiero rosso, assolato e polveroso verso l’ignoto, portando con noi il nostro orgoglio di appartenere al laborioso popolo Hutu e la grande voglia di vivere liberi.

Era una bella città Aleppo. Ci si viveva bene nel quartiere di Salà al Din nell’oramai lontano 2010. La mia vita di ragazzo la dividevo con i miei amichetti del cuore, Emre ( che significa amico) e sua sorella Serckin ( che significa distinta). Eravamo coetanei e vicini di casa. Le giornate trascorrevano tra la scuola che frequentavamo (stava in fondo alla via dove era il palazzo in cui abitavamo), e il parco attrezzato con tutti i giochi che dei ragazzi di undici anni possono desiderare per vivere serenamente e spensieratamente le loro ore libere dai compiti. Ed io, i miei amici e tanti altri bambini con le loro mamme e papà e nonni lo affollavamo e riempivamo di voci, suoni, allegria. Poi, una sera dell’estate del 2011, la sera del giorno del mio dodicesimo compleanno, mentre con i miei amici e i loro genitori stavamo festeggiando, mio padre chiese un attimo di silenzio e disse a tutti noi ragazzi queste parole: “ Ragazzi, è a voi che voglio rivolgermi. Sono alcuni giorni che in città ci sono scontri armati. Quello di cui vogliamo avvisarvi è che stiate attenti mentre andate a scuola o se siete al parco a ciò che vi accade attorno. Se vedete o sentite o vi trovate in situazioni anomale rispetto al solito, cercate di mettervi al riparo il prima possibile”.

Io, Emre e Serckin ci guardammo, senza capire a cosa volesse riferirsi mio padre, tanta era la voglia di continuare a giocare con la playstation che i miei genitori mi avevano regalato per il compleanno. Quindi, dopo un vago cenno di sì con la testa e dopo un “va bene, faremo attenzione”, continuammo a giocare.

Passarono appena sei mesi da quella bellissima sera, e la mia vita e quella dei miei genitori e quella dei genitori dei miei amici, cambiò radicalmente. Mentre noi ragazzi eravamo al parco, senza che né noi né nessuno delle numerose altre persone presenti ci si accorgesse di nulla, un’auto bomba esplose vicino a noi. Dei miei amici mi rimangono delle schegge di metallo che ho preso staccandole dal tronco di un albero dove c’erano spalmati i resti dei loro corpi dilaniati. Il giorno successivo, i miei genitori decisero che era meglio per noi lasciare Aleppo e trasferirci dai nostri parenti in Turchia. E così, dopo aver chiuso la porta di casa, con poche cose chiuse in una valigia, senza guardarci dietro, iniziò il nostro pellegrinaggio. Perché io mi sono salvato? Non lo so; forse perché mi chiamo Yasar che vuol dire vivente, che vive?

Sono passati molti anni da quel triste giorno che con mia madre lasciammo Sarajevo. Il nostro viaggio verso la Germania non fu semplice. Senza documenti e con pochissimi soldi, una donna sola e un ragazzo non hanno una vita semplice. Se ci aggiungi che nel paese in cui arrivi non conosci nessuno, non conosci la lingua, non hai una casa né un semplice punto di appoggio dove dormire la sera e anche se bianco ti guardano tutti a dir poco con diffidenza …

Oggi, viviamo nella periferia di Stoccarda. Mia madre si è rifatta una vita con un nuovo compagno. Io, oramai quarantenne, sono riuscito a fare una qualche scuola che mi ha permesso di avere una mia attività da falegname. La nostra vita si è stabilizzata, abbiamo nuovi amici e ci siamo inseriti nella comunità musulmana locale. La mia gioventù … è come Sarajevo: un triste ricordo!

Non è stato facile farmi spiegare perché i nostri vicini si comportarono così con noi, facendoci affrontare la vita e le vicissitudini che abbiamo vissuto sino ad oggi: ma avere scoperto che tutto ciò è avvenuto perché siamo musulmani …

Non avevo mai visto il mare, né ero pronto a perdere mia madre. E conoscere quel cielo immenso che si stendeva sotto i miei piedi e i miei occhi, mi ha fatto piangere di gioia per un giorno intero. Non essere riuscito a difendere mia madre dallo stupro e dal successivo assassinio avvenuto da parte di alcuni carovanieri, ancora oggi mi fa piangere amaramente. Mi ritengo molto fortunato ad avere con me il mio talismano preso poco distante dalla mia capanna, perché credo che se sono vivo dopo la disavventura di mia madre, dopo un viaggio in mare dove ci hanno salvato quando oramai, lo stesso mare che ci aveva cullato per qualche giorno, ci stava inghiottendo; dove dopo essere stato sbarcato sulla terra ferma, oggi posso dormire in una capanna di latta dopo una giornata faticosa di lavoro sotto il sole, lo devo a lui. Qualche volta, la sera e più spesso la notte, toccando il mio talismano, mi tornano in mente il mio villaggio, il mio popolo, mia madre. E sono tutti bellissimi ricordi, che mi riempiono il cuore sì di nostalgia, ma anche di gioia. Qualche volta vedo dei ragazzini che vengono a giocare nel campo vicino al villaggio dove ora vivo. Perché non ho ricordi di me a quell’età?

Il nostro viaggio verso la Turchia fu un’odissea. La nostra vettura si guastò dopo pochi giorni e non molti chilometri percorsi. In un posto di blocco poco prima della frontiera, ci furono sequestrati i documenti e parte dei soldi che avevamo. Tramite dei trafficanti di uomini, mio padre riuscì a farci arrivare in Turchia, ma purtroppo il popolo Curdo al quale appartengo, non è ben accetto neanche nella sua patria: è destinato a non avere una terra dove fermarsi e vivere in pace. Dopo molti sforzi e tentativi non riusciti di sistemarci nella città di confine di Nusaybin, dopo aver passato questo inverno sotto una tenda e nella neve nel nord della Turchia, stiamo tentando di traversare la frontiera per raggiungere la Germania, ma ogni tentativo di fuga è come tentare di scalare un alto monte a mani nude e senza scarpe. Ho sempre con me le schegge che presi quel lontano giorno in cui i miei amici morirono. Ho raccontato la loro, la nostra storia, ai ragazzi miei coetanei con cui ho fatto amicizia e con cui condivido questi luoghi. Le loro storie non sono poi molto differenti dalla mia. In tutti noi c’è la consapevolezza che la nostra gioventù ci è stata rubata, ma gli anni che abbiamo davanti li vogliamo spendere alla ricerca di un futuro migliore da offrire ai giovani che ci seguiranno. In fondo è un buon motivo vivere investendo i propri sforzi per la crescita serena e felice di un ragazzo. O no?

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2 commenti »

  1. Originale impostazione, toccanti le storie che, penso, siano tratte dalla realtà e comunque da una sicura documentazione. Avrei aggiunto un po’ più di pathos, ma è un testo molto buono. Bravo.

  2. Un’ insieme di storie davvero toccante, apprezzo molto la capacità che hai avuto di cogliere la sofferenza e anche la speranza di chi intraprende dei viaggi di migrazione. Bella anche la stesura, dove le varie storie si intrecciano, così diverse e così simili

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