Premio Racconti nella Rete 2022 “La telefonata” di Marco Angelini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Così ho deciso di fare da sola. Mi sono messa la tuta, i sandali e sono uscita sul balcone della camera a prendere la candeggina. Mio marito era in bagno. Lo vedevo attraverso la finestra. Stava davanti allo specchio e si tagliava i peli del petto con le forbicine per le unghie. Seminava i suoi peli ovunque, ogni volta. Quella chiazza rosa che aveva sulla punta della nuca mi pareva sempre più grande. Un cerchio di pelle quasi perfetto. Raditi, piuttosto: quante volte glielo avevo detto. Ma lui no, quello non era essere calvi, secondo lui. Poi ha cominciato a lavarsi i denti e le ascelle e a fare un sacco di rumori.
Sono salita al piano di sopra, sulla terrazza, con la candeggina e lo scopettone. Avevo chiesto a mio marito di pulire la terrazza quante volte? Dieci, almeno. Era dall’estate prima che non la puliva nessuno. Ho sparso due dita di candeggina e l’ho lasciata lavorare per un po’. Sul pavimento del terrazzo ci sono mattonelle un metro per un metro, colore grigio chiaro, ce ne sono un centinaio. Il sole era basso ma faceva già un gran caldo. Mi sono messa a strusciare con lo scopettone e ho visto che dovevo passarlo parecchie volte e premerlo forte per fare andar via le macchie più scure. Era lo sporco di tutto un inverno.
Ho deciso di fare una fila alla volta. Davo la candeggina su tutta una fila, la lasciavo lavorare, poi passavo lo scopettone e dopo ogni fila facevo una pausa. Alla fine della seconda o della terza, mi sono appoggiata al parapetto per riposare la schiena. Mi faceva un gran male. Di notte dormivo bene, sul divano, ma mi svegliavo con la schiena indurita da una parte e il collo indolenzito. Ho guardato la macchine in fila dal benzinaio, proprio sotto casa, e ho pensato di nuovo al tempo che ci mette il corpo a cadere dall’ottavo piano. Ci mette poco, una manciata di secondi. E ho pensato anche che era una cosa strana, pensarci. Ma ancora più strano era che, se non ci avevi mai pensato, quell’idea non ce l’avevi in testa. Come prima che mio marito se ne andasse di casa. Quel pensiero era come un percorso, che partiva dalla gronda, oltre la ringhiera, e da lì scendeva giù sull’asfalto. Poi finiva. Un pensiero lineare e silenzioso come la traiettoria del corpo che cade. Se non lo avevi mai fatto, non lo facevi, ma se lo percorrevi una volta, rimaneva tracciato e allora ritornava. E ogni volta, quel percorso sembrava più facile e veloce.
Ho inarcato la schiena all’indietro, poi in avanti. Ho sparso la candeggina lungo un’altra fila di mattonelle, ho aspettato e poi ho iniziato a grattare, ma quando sono arrivata a metà un uccello mi è volato proprio sopra la testa. Mi sono voltata e ho visto un gabbiano, una bestia grossa con le ali grigie e nere. Ha ripreso quota, poi ha virato e si è diretto di nuovo verso di me. Sono rimasta ferma a guardarlo. Veniva proprio nella mia direzione, mi fissava, ed ero convinta che mi sarebbe arrivato in testa per colpirmi sulla faccia o negli occhi, col suo becco lungo e aguzzo. Ho alzato per aria lo scopettone e ho lanciato un grido: «Oh!» gli ho urlato, e mi sono sentita ridicola. Il gabbiano ha rallentato di colpo e ha cambiato direzione. Poi ha emesso un verso stridulo. Ce l’aveva con me, per qualche ragione. Si è allontanato e io l’ho seguito con lo sguardo. Ho pensato: ora si volta di nuovo. E lo ha fatto, ha girato su se stesso e mi ha puntata un’altra volta. Teneva il becco aperto e questa volta emetteva un verso stridulo e continuo. Ho sollevato di nuovo lo scopettone e l’ho sventolato a destra e a sinistra con tutte e due le mani. Il gabbiano ha continuato a scendere, poi ha virato da una parte e subito dopo ha buttato fuori una sostanza liquida che mi è finita quasi addosso. Un liquido gelatinoso, di un colore verde, si è sparso sulla fila di mattonelle che avevo appena pulito. Sono corsa a prendere la pompa, ho aperto il rubinetto e mi sono messa nel centro della terrazza ad aspettare che il gabbiano tornasse, con lo scopettone in una mano e la pompa nell’altra. Il gabbiano non sembrava intimorito e mi ha attaccata di nuovo, ma con il getto dell’acqua sono riuscita a tenerlo distante. Funzionava. L’acqua saliva in alto, verso il gabbiano, e poi riscendeva giù, oltre la ringhiera, fino in fondo alla strada. Il gabbiano attaccava, deviava e tornava. Ce l’aveva proprio con me. Ho pensato che non avrebbe mai smesso e allora mi sono sentita in pericolo. Mi sono anche chiesta cos’avrebbe fatto mio marito, al mio posto.
Poi ho abbassato lo scopettone e ho diretto il getto d’acqua sul pavimento. Ho lasciato che il gabbiano si avvicinasse ancora, ma più delle altre volte. Mi era addosso, ormai, e lo vedevo enorme; ho sollevato d’improvviso entrambe le mani armate e ho gridato più forte che potevo. Ho preso il gabbiano in pieno con l’acqua e l’ho sfiorato con lo scopettone. È volato via, oltre le antenne e oltre il terrazzo del vicino, senza più voltarsi. Mi sono guardata intorno per vedere se ce n’erano degli altri. In effetti ce n’erano parecchi che volavano in giro, ma si facevano i fatti loro.
Ho aspettato. Poi ho spruzzato l’acqua su quel liquido verde e ho pulito un’altra fila di mattonelle. Avevo il fiatone. Allora ho spostato un lettino al sole e mi ci sono sdraiata. Ho sentito il sole che mi riscaldava le gambe e quando ho riaperto gli occhi ho capito che mi ero addormentata. C’era mio marito in piedi che si faceva una sigaretta. S’era messo i pantaloni di una tuta che speravo avesse buttato via da tempo e una maglia che avevamo comprato alla festa della birra, appena ci eravamo conosciuti. Volevo tirarmi su e raccontargli cosa m’era successo con quel grosso gabbiano, ma poi sono rimasta lì ferma a guardarlo e basta. Non capivo perché si ostinasse a farsi quelle maledette sigarette, invece di comperarle già fatte. Fuma come tutti gli altri, se vuoi fumare: quante volte glielo avevo detto. Non si era mica accorto che ero sveglia. Si è acceso la sigaretta, poi ha preso lo scopettone e si è messo a grattare. Senza la candeggina, poteva restare a grattare la solita mattonella per tutta la vita. Allora mi sono tirata su e ho visto che mi aveva messo un panino e una birra ai piedi del lettino. Poteva chiedermelo, io volevo il tè che era in frigo, e un toast. Così mi sono alzata e mi sono messa a pulire con lui. Ho versato la candeggina e gli ho detto: «Bisogna lasciarla lavorare qualche minuto, prima di grattare». Abbiamo fatto due file o tre, poi, a forza di pigiare su quello scopettone, il manico si è spezzato in due. «E ora?» «E ora devi farlo in ginocchio» gli ho risposto. Così mio marito ha continuato a grattare giù a carponi e io, per dargli una mano, gli spruzzavo l’acqua nel punto dove passava lo scopettone.
Quando abbiamo finito, il sole era già sceso e non faceva più tanto caldo. Ero sudata. Mio marito si è appoggiato alla ringhiera e si è messo a preparare un’altra sigaretta. «Ne vuoi una?» Io non avevo mai fumato, cosa me lo chiedeva a fare, ogni volta? Mi sono affacciata alla ringhiera. Era lontana, la casa da dove l’avevo visto uscire con quella donna, e da lì si distingueva appena come un puntino. Ma sapevo riconoscerla fra tutti i puntini che vedevo in lontananza. Lo sguardo di mio marito non c’era andato neanche una volta, quel pomeriggio.
Avrei voluto un massaggio alla schiena, e dopo anche un massaggio ai piedi, che mi facevano male. Quello sì che glielo avrei chiesto e potevo pure aspettare che finisse di fumarsi la sua sigaretta, ma poi lui avrebbe voluto fare sesso. Eravamo appena tornati dalla vacanza coi ragazzi e c’era tutto da riprendere in mano, anche il sesso.
Ero lì che ci pensavo, e lo sapevo che lui mi voleva parlare. Mi pareva di vederle, le parole che gli salivano su per dire quello che mi voleva dire, ma poi, come al solito, le ha ributtate giù. Mi ha chiesto solo: «Se vengo lì, ti posso abbracciare?»
«Fai come vuoi» gli ho risposto «Meglio dirti così che di no, sennò poi finisce che si discute».
Al suo posto me ne sarei andata. Invece lui è rimasto dov’era, ha sbuffato, ha lasciato cadere le spalle come fa sempre, si è tirato fuori quella sua stupida sacca dove teneva il tabacco e si è preparato un’altra sigaretta. “Già ne fumi un’altra?” gli volevo chiedere, ma poi mi sono detta, fatti tuoi. Se l’è preparata e l’ha infilata nella sacca assieme al tabacco. «Faccio la doccia». Se la fumerà sul balcone della camera, quella sigaretta, ho pensato.
Ho raccolto la bottiglia vuota della candeggina, ho preso il panino e la birra, poi mi sono messa in un angolo e ho guardato tutte e cento le mattonelle. Tutte e cento del solito grigio chiaro, come dovevano essere. Il passamano di ferro, però, era sporco. Con tutte quelle cacche di uccelli, vecchie e nuove. E allora ho pensato che il giorno dopo mi sarei alzata presto, avrei riempito un catino con acqua e sapone, avrei preso una spugna nuova e avrei pulito tutto il passamano di ferro e anche la striscia di marmo su cui appoggiava. Girava tutto intorno, sui tre lati della terrazza. Ci sarebbe voluto parecchio, non quanto pulire le mattonelle, ma parecchio. Andava fatto.
Quando sono scesa, ho trovato mio marito sul balcone della camera che fumava la sua sigaretta e parlava al telefono. Sono andata sul balcone anch’io. Mentre mi avvicinavo, lui ha detto qualcosa, poi ha allontanato il telefono dall’orecchio e ha aspettato che io facessi quel che dovevo. Ho appoggiato da una parte la bottiglia vuota di candeggina e sono tornata in casa. Mi sono fermata dietro l’angolo e ho sentito che ha ricominciato a parlare.
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Un racconto in cui la “normalità” della vita viene mischiata alla sofferenza, alla distanza, al disagio vissuto dalla coppia. Noi sentiamo la voce della donna: dentro di lei percepiamo quello che realmente pensa e vive, del suo matrimonio, di suo marito. Del suo desiderio a volte di farla finita. Fuori però non traspare nulla, come se tutto questo non fosse comunicabile. Davvero doloroso il distacco emotivo di questa coppia.
Un racconto che non lascia indifferenti, complimenti