Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2021 “10 parole per un racconto con finale a sorpresa” di Laura Zona

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

L’almanacco, aperto alla pagina del 31 dicembre 2020 giaceva, abbandonato, sulla scrivania disordinata. Appuntata, con una scrittura svolazzante, c’era la parola “volare”. Scorrendo all’indietro, ogni pagina dell’almanacco conteneva una parola. Una diversa per ogni giorno. Scrivevo al mattino, appena sveglio. Per non dimenticare. Una consegna data, anni prima, dal mio psicanalista: tracciare il filo conduttore dei viaggi onirici. Notte dopo notte. Una consegna che avevo perseguito con puntualità e determinazione. Alla ricerca spasmodica dei pezzi di me che si erano sparpagliati chissà dove. Forse proprio nei sogni.

Per i vicini ero un tipo strano. La mia riservatezza metteva disagio. Scambiata, da sempre, per rifiuto ad entrare in relazione con il mondo. In realtà si trattava di una maschera, che indossavo per nascondere la mia profonda inquietudine. Il significato della parola inquietudine è “quiete in movimento”. Senso, spesso travisato da un’apparente accezione negativa. Per me, si trattava di uno stato di perenne ricerca, frenata dalla convinzione di non poter uscire dai miei limiti. Imposti dalle barriere dell’educazione, intrisa di divieti e di paure. La scrittura rappresentava l’unica via di fuga. Un ponte sicuro. Per superare il fiume di ostacoli, frapposti tra la vita quotidiana, rinchiusa dentro la scatola asfittica della mia vita, e l’universo della fantasia. Nei tratti della calligrafia, morbidamente ondeggiante, un esperto sarebbe stato in grado di cogliere l’immenso desiderio di libertà che sentivo nel cuore.

Quel dannato 2020 era stato un anno controverso, a causa della pandemia. Contrassegnato da isolamento e depressione per la moltitudine. Per me, invece, così abituato a vivere appartato, non faceva alcuna differenza. Anzi: il silenzio forzato in cui era piombata la città, mi permetteva di pensare meglio.

La parola, scritta il mattino dell’ultimo giorno dell’anno, racchiudeva l’irrefrenabile volontà di cambiamento. Non potevano capirlo i miei due gatti, per i quali avevo riempito di crocchette diverse ciotole, allineate in cucina. Sapevo perfettamente quanto sono animali indipendenti. Terminato il cibo, se ne sarebbero andati a cercarlo altrove. Dimenticandosi di me. Nessuno si sarebbe preoccupato della mia assenza. Perciò infilai le vecchie scarpe, dalla suola un po’ consumata. Comode a sufficienza per affrontare un lungo cammino. Indossai la giacca pesante, al cui interno, protetti in una tasca, avevo sistemato tutti i risparmi ritirati dalla banca. “Non si sa mai…”, pensai. Leggero e, senza pensieri, uscii sulla strada deserta, lasciandomi alle spalle la casa e tutti i ricordi.

Camminai di buona lena per raggiungere il luogo del misfatto. Lo chiamavo così, sapendo che si trattava di una cosa davvero brutta. Purtroppo, non potevo farci niente. Tutto sembrava scritto, in modo definitivo, per me. La mamma, da piccolo, continuava a ripetermi che il mondo è pieno di gente cattiva. Guardando la televisione, me ne convinsi al punto tale da iniziare a progettare armi per conto mio. Il Politecnico mi diede una mano… il resto lo fece la mia creatività. Con ottimi risultati: guadagnavo un sacco di soldi, standomene rintanato nel mio piccolo laboratorio sotto casa. Al sicuro. Protetto da tutto. Cosa volevo di più?

Il giorno del mio cinquantesimo compleanno, accesa la televisione, vidi il filmato in cui un bambino moriva per l’esplosione di una mina anti-uomo. Per la prima volta, mi resi conto che qualcosa non funzionava nel mio lavoro. Rimasi bloccato. Senza parole. Cosa avevo visto, fino ad allora, in quella scatola parlante? Quale orrore, aveva prodotto la mia mente? In realtà, il bambino saltato per aria ero io. Insieme a lui, scoppiarono tutte le mie convinzioni, precipitandomi in una crisi profonda.

Seguii il consiglio dello psicanalista, che mi prese in cura per diversi anni. Conservavo una pila di almanacchi, pieni di parole scritte, puntualmente, ogni mattina. Dovevano aiutarmi a ritrovare me stesso. In realtà, ciascuna mi fece comprendere d’essere stato, semplicemente, un vigliacco. Preso dalla paura del mondo e della vita. L’ultima parola scritta, era l’unica vera: volare… volare via da tutto per risolvere il dramma. La soluzione era molto semplice. Pianificai, fin nei minimi dettagli, il misfatto. L’angolo scelto si trovava nel fitto della boscaglia, in mezzo ai rovi. Nessuno avrebbe sentito lo sparo. Il mio cadavere si sarebbe decomposto, scomparendo rapidamente nella terra umida.

Ero pronto, con il dito sul grilletto, quando lo vidi spuntare davanti a me: bianco, brutto, un muso lunghissimo e il corpo tozzo. Mi puntò con due occhi neri, vivaci, e si mise ad abbaiare. “No…non è possibile!” esclamai, stupefatto. Per un istante, mi balenò l’idea di farlo fuori insieme a me. Avevo messo un secondo colpo in canna, per sicurezza, ma la voce femminile, in rapido avvicinamento, mi fece desistere. “Tobia… Tobia…dove sei finito?” gridava la donna. Quel maledetto cane si era inchiodato davanti a me. Non mi mollava, con lo sguardo, continuando ad abbaiare. Ero in suo potere, purtroppo. Qualsiasi movimento mi sarebbe stato fatale. Rimasi immobile. Quando lei riuscì ad arrivare, facendosi largo in mezzo ai rovi, mi trovò con la pistola in mano e lo sguardo attonito sull’animale.

“Tobia…ma che ti è preso?” disse la donna, mentre agganciava il guinzaglio al collare. Poi, alzò lo sguardo su di me, guardandomi con sorpresa. “Paolo…” il silenzio calò, improvviso, in quell’angolo del bosco. “Che ci fai, qui… con quella cosa in mano?”

“Primo: come poteva conoscermi quella donna? Secondo: proprio in quel momento doveva arrivare la bestiaccia? Terzo: adesso cosa potevo fare?”. Fu la rapida sequenza di pensieri che attraversò la mia mente.

“Tobia! Seduto!” disse la donna, richiamando il cane. “Non temere… Incute timore ma, in realtà, è buonissimo… Segue solo il suo istinto di cane da riporto… E tu eri la sua preda! “ la frase fu accompagnata da una risata che mi destabilizzò.

“Ma chi è costei che ha il coraggio di ridere in un momento così tragico?” dissi fra me, piuttosto infastidito dal suo sguardo. Avevo la sensazione che mi stesse facendo una radiografia. “Ma… tu, Paolo, sei sempre uguale!” ebbe il coraggio di aggiungere.

“Sembra quasi soddisfatta di avermi trovato…Che beffa!” pensai, stizzito. Il mio piano era miseramente sfumato. “Mi riconosci? Sono Marinella… Eravamo compagni di scuola alle medie e al liceo… Non ti ricordi di me?”. Continuò lei, senza lasciarmi il tempo di ribattere. “Posso invitarti a bere un caffè? La casa dei miei è poco distante, proprio alla fine della borgata… Vicino al sentiero che porta nel bosco…Sai, i miei genitori sono mancati quest’anno ed io sono tornata per mettere tutto in vendita…Tobia era il loro cane… Non so che ne farò di lui… Io abito fuori Roma…Vivo con i mei figli… Gestiscono un bagno a Ostia…Che bello rivederti…” Parlava a raffica. Non riuscivo a pensare. La seguii come un automa, stordito. Improvvisamente mi ricordai di lei. Rividi tutte quelle ragazze che mi inseguivano, per la strada. Fuggivo, impacciato e spaventato. Mi nascondevo, per paura dell’amore.

Entrato in casa sua, sedetti al tavolo di cucina. Tenevo la pistola in grembo. Continuava a parlare, mentre preparava il caffè. “Penso che, anche un bicchierino di grappa, ti faccia bene… Sei così pallido…Ho qui una bottiglia conservata dal mio papà, te la faccio assaggiare…”. Mi porse il bicchiere ed io lo trangugiai. Bruciava nello stomaco. Scaldava la testa. Ne bevvi altri due, mentre l’ascoltavo. La testa girava, ma mi dava forza. Non so perché, più la guardavo, più mi ricordavo che, allora, anche lei mi piaceva. Aveva un sorriso disarmante e la sua risata metteva allegria. “Eri bellissimo…cioè… non è che adesso sei diverso…anzi, sei sempre uguale…” il suo sguardo incantato mi metteva soggezione. “Ero innamorata di te… tutte lo eravamo… Ma tu non mi hai mai degnata di uno sguardo… Scappavi, quando mi vedevi… Poi il tempo è passato, ho incontrato Antonio…un ufficiale dell’esercito. Si trovava, qui vicino, per un’esercitazione militare. Ci siamo conosciuti in discoteca e…mi sono sposata. Era di Roma. Sono stata davvero felice con lui. È morto, improvvisamente, al ritorno da una missione in Kosovo…non ho mai saputo cosa sia successo…quei proiettili all’uranio impoverito…”. Si fermò, un istante, colta dall’emozione. Sembrava aver tenuto dentro quelle parole per tanto tempo.

Non so come, ma balzai, di scatto, dalla sedia e l’abbracciai. “Perdonami…perdonami…perdonami…”continuavo a ripeterle. Avrei spaccato il mondo, tanto grande era la rabbia che cresceva in me. “È tutta colpa mia, se lui è morto!”. Pronunciai quelle parole, disperato. Poi, non so come, la baciai. Quasi con violenza. Non mi rifiutò. Anzi, qualcosa in lei diceva di continuare.

Mi svegliai in un letto vuoto. Non capivo dov’ero. Forse avevo sognato. Era rimasta, però, la bellissima sensazione di aver volato. Finalmente libero, dopo tanto tempo. Quando la vidi arrivare, sorridente, mi resi conto di quanto fosse giovane e bella. Come al tempo dei nostri diciotto anni. Portava un vassoio, pieno di cose buonissime da mangiare. Lo appoggiò sul comodino e si sdraiò accanto a me. Mi diede un bacio, dolcissimo. Sentii che il rigido cordone, tenuto da sempre al posto del cuore, si stava sfilacciando. Potevo permettermi di lasciare entrare aria nuova nella mia anima. Le accarezzai il viso, grato per il dono ricevuto. Sapevo, però, di doverle chiedere dov’era la pistola, ma temevo, per questo, di farle del male. Ho capito, con il tempo, che le donne sanno sempre tutto. Guardandomi negli occhi, come se mi leggesse dentro, Marinella aggiunse “ È finita nello stagno…tanto non ti serve più”.

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1 commento »

  1. Le donne non amano la guerra e possono dare la pace, commovente!

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