Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2019 “Pari trattamento” di Giuseppe Ciarallo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

“Ma… com’è potuto succedere?” si chiese l’uomo, con le lacrime agli occhi.

Tutto era cominciato nel pomeriggio del giorno precedente. Deciso a scrivere un articolo per Buduàr, sulla figura del “gatto antropomorfizzato” nel fumetto mondiale, aveva passato ore e ore al computer scaricando immagini e materiale vario utili alla ricerca.

Come sempre gli capitava al cospetto della bellezza, era rimasto incantato rimirando le tavole di Juan Díaz Canales e Juanjo Guarnido raffiguranti il maestoso Marlowe felino dall’evocativo nome: Blacksad. Da noi… Tristenero. Si era divertito come un matto facendo scorrere le strisce di Felix e di Garfield, si era rituffato nelle geniali atmosfere sixties in compagnia del Fritz The Cat di Robert Crumb e in quelle oniriche e surrealiste del Jones di Franco Matticchio. Aveva poi rabbrividito davanti alle storie di Art Spiegelman e del suo Maus, con gli spietati nazi-mici a difesa di un repressivo e “olocaustico” potere. Era infine incappato in uno strano sito, I gatti conquisteranno il mondo, nel quale divertenti filmati testimoniavano il curioso rapporto che poteva instaurarsi tra gli umani e i loro gatti.

La notte non aveva chiuso occhio. Nell’agitato dormiveglia causato da un gateau di patate maldigerito e da un insolito temporale caratterizzato da boati di tuono e luminarie di fulmini, era stato tutto un susseguirsi di scene grottesche, un Hellzapoppin’ felino nel quale si alternavano, disordinatamente come è tipico dei sogni, immagini, musiche, ricordi d’infanzia, deja vu, Cat Stevens, i Gatti di Vicolo Miracoli, Stray Cats, Gatto Pancieri, Gato Barbieri, Catwoman, Aristogatti, Stregatto, la gatta sul tetto che scotta. Le chat noir.

Ora, con gli occhi sgranati e le unghie delle mani conficcate nella polpa delle cosce per essere sicuro di essere ben sveglio, rivolgeva uno sguardo ebete alla scena che gli si parava dinnanzi.

Zap, il suo Zap, l’amato gattone che viveva con lui da più di dieci anni, dritto sulle zampe posteriori lo sovrastava dall’alto dei suoi quasi tre metri d’altezza. Il suo pelo rossiccio splendeva più del solito e le striature bianche risaltavano donando al manto un che di regale. E il termine regale a maggior ragione si attagliava alla cappa color rubino che pendeva dalle sue ampie spalle, alla preziosa corona calata sul suo testone e tenuta dritta dalle orecchie puntate verso il soffitto, e allo scettro tempestato di pietre multicolori che stringeva tra gli artigli sfoderati.

Alle sue spalle, in un angolo della stanza, su un cuscino rosso con frange dorate era mollemente accoccolata Medea, la sua piccola Medea, adorata micina alla quale aveva dedicato particolari cure e coccole, essendo stata fin dalla nascita molto cagionevole di salute. Medea, ora grande come una tigre di grossa taglia, lo fissava con sguardo beffardo attraverso i suoi grandi occhi grigi che brillavano, freddi, come gli smeraldi che tempestavano il diadema che le coronava il capo.

Ai due lati del sovrano – che aveva scoperto chiamarsi Pardo VIII, ma che per lui era e restava l’amato Zap – stazionavano con fare minaccioso due enormi felini in divisa militare. Kepì nero sulla testa, giubbetto rosso con colletto rigido alla coreana e cinque alamari dorati di crescente grandezza sul petto, pantaloni neri a sbuffo e stivaloni da buttero, i due impugnavano, minacciosi, sciabole da ussaro e squadravano con piglio severo l’umano – con i polsi bloccati da una catena che consentiva pochi, limitati movimenti – in ginocchio al cospetto del re.

L’uomo, ancora incredulo nonostante il dolore delle unghie piantate nella carne, sorrise al pensiero (o alla speranza) che l’intera scena non fosse altro che la prosecuzione dell’incubo da cattiva digestione. I dolorosi pizzicotti? Un sogno. Le catene ai polsi? Un sogno. Zap e Medea come aristocratiche e vendicative figure? Un sogno. I gatti soldato, di affilate sciabole muniti? Un sogno, un sogno, solo un sogno. Un maledetto, troppo realistico sogno.

Fu nel turbinio angoscioso di questi pensieri che il felino monarca parlò con voce stentorea, un timbro che mal si sposava con il flebile miagolio che, ricordava, lo spingeva al riso per quel cozzare con il corpaccione di quindici chili del suo Zap, guadagnati dopo anni e anni passati in un costante e ininterrotto fluire di colossali mangiate intervallate da sonnecchiosi riposini sul lettone di casa.

“Devo riconoscere” tuonò Pardo VIII “che l’umano oggi prostrato al mio cospetto, si è sempre dimostrato affettuoso e servizievole nei nostri confronti”. E nel dire questo si era girato e aveva incrociato lo sguardo con quello della principessa adagiata sul cuscino scarlatto. Lei fece un cenno col capo, confermando le parole di sua maestà.

“Negli anni passati con lui abbiamo sempre ricevuto la dovuta attenzione. I croccantini non sono mai mancati nelle nostre ciotole, l’acqua sempre fresca e pulita, la sabbietta regolarmente cambiata. Vero è che abbiamo passato l’intera nostra vita tra quattro mura e che il desiderio di libertà si è dovuto col tempo piegare a una tiepida, anche se claustrofobica, comodità casalinga. Ma non tutto si può avere. In compenso, non ci sono state lesinate cure mediche quando necessario, e mai siamo stati abbandonati in casa, da soli, se non durante le ore in cui gli umani scambiano il loro tempo col denaro, che consente loro l’illusione di una vita agiata”.

L’enorme felino coronato fece una pausa a effetto e si lisciò le vibrisse lasciando l’umano a cuocere nel suo brodo, nell’atroce dubbio di una domanda che, ansiogena, ingombrava per intero il suo cervello: “Data tale premessa, dove vuole andare a parare?”. Era quel “devo riconoscere” a preoccuparlo enormemente.

“Pertanto” riprese dopo aver cercato di afferrare al volo un moscone che si era arrischiato a volteggiare sulla coronata testa “dispongo che al mio umano venga riservato un trattamento totalmente in linea con quello che egli ha riservato a me. Voglio che seppur recluso in una casa ampia e spaziosa, abbia sempre cibo in abbondanza e acqua fresca per placare la sua sete. Un bagno sempre ben pulito e un comodo letto su cui riposare. Ordino inoltre che, in caso di necessità, venga opportunamente curato dai migliori dottori, in modo che possa vivere, in salute, il più a lungo possibile. Portatelo via!”.

Il prigioniero, col fiato sospeso si era sorbito la requisitoria senza sapere come interpretare quelle parole. Doveva gioire per un responso che, in qualche modo, tradiva una sorta di riconoscenza postuma, o disperarsi per la vita da animale casalingo che lo attendeva, condannato a non godere più, di lì in avanti, dell’aria fresca della sera, del sole sulla pelle, della piacevolezza di una serata in compagnia, della libertà di fare qualsiasi cosa?

I pensieri vennero interrotti bruscamente dai due gatti soldato che, agguantatolo sotto le ascelle e sollevatolo da terra lo stavano trascinando verso l’uscita del salone.

Quando il terzetto si apprestava a varcare la soglia, il sovrano alzò lo scettro al soffitto e urlò: “Un momento. Dimenticavo…”.

Tutti si volsero verso di lui. “C’è ancora una cosa per far sì che il trattamento da me ricevuto sia speculare a quello che io voglio venga a lui riservato… Castratelo!”.

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3 commenti »

  1. 😀 infida giustizia felina

  2. Bellissima storia surreale e divertente. Io non ho un gatto in casa ma dopo aver letto questo racconto se ne incontrassi uno lo tratterei coi guanti 🙂

  3. Sulla cattiva digestione del “gateau” di patate mi sono sbellicata dal ridere. Fortissimi tutti i giochi intorno al termine felino, ma doloroso il finale! 🙂 Meritatissima vittoria! Complimenti Giuseppe, miao!

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