Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “La stanza dove è sempre mezzanotte” di Stefano Cherici

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Nell’atrio della memoria c’è un ampio finestrone che intrappola doppi vetri in cornici di legno, mentre la luce, gialla e abbacinante, scivola nella stanza in trapezi sghembi. C’è un tendaggio pesante tutto orpelli e merletti, con nappine solide come mazzuoli, lungo le spalle del finestrone. La mantovana è aggruppata sulla cima e ondeggia simile a un mare riverso. Una parte della tenda è incravattata di lato, liberando alla vista una porzione di panorama. Manca solo la nonna intenta a sistemare, con attenti quanto inutili tocchi, ogni sinuosità e curva del tessuto, per poi bloccarsi nella contemplazione dell’opera, con gli avambracci ritti sui gomiti, le dita intirizzite e un rictus demente. Passava ore, supina con il mento sui palmi e i piedi che ondeggiavano, a guardare sua nonna e quella luce violenta che spingeva contro quel tessuto spesso. Quando termina la piroetta è mezzanotte, la carrozza è diventata una zucca che assomiglia a una finestra piccola e sudicia, con due tendine smorte che cadono da sottili traverse ingobbite.

In fondo è come se danzasse. Un organismo leggero, simile a un immagine sottile.

Vestita di candore, indossa disinvolta un tegumento bianchiccio, si muove roteando il bacino ginecoidale con le braccia che fluttuano nell’aria, ogni tanto lancia uno sguardo fuggevole, teatralmente distratto, fuori della finestra sboccata, speranzosa che la notte sparisca. Ma la notte non sparisce mai, eterna. Lassù, in alto, nel deposito dei sogni, un monocolo di alluminio cromato, giace bramoso di curiosità, su un letto soffice di vapori acquei, allungando, di tanto in tanto, il bigio ciclopico bulbo oculare in quintadecima.

Il traffico urla e bestemmia, giù in strada. I Led dei semafori, le algide rifrazioni di luce dei veicoli, i coni dei lampioni, isolano le ombre e incrociano desolazioni. Ma lei balla, su piante dei piedi pesanti, con occhi stretti socchiusi da palpebre che mal sorreggono un dolore opprimente. Le guance appena arrossate, ospitano spesso lacrime trasparenti. Il ritmo è quello di un Jazz che vortica per la stanza in spirali coniche. Lei ama ballare, lo fa ogni sera, ormai non sa più da quanto tempo, anche se non è proprio un ballo, è il Suo modo di ballare, simile a una sospensione delle regole coreutiche del tempo e dello spazio. Lei è libera, più che mai, di inventarsi il suo ballo.

Balla, ogni notte, mentre aspetta.

Si guarda attorno, è sempre mezzanotte.

Aspetta, forse, che ritorni lui, che la prima volta che la vide le disse schioccando le dita: “Assomigli tanto a quell’attrice…”, e lei di rimando pensò: “La battuta è vecchia, ma…”.

L’attesa, assieme alla notte, sono le lancette coassiali che scandiscono lo scorrere del suo tempo, braccia affaticate, che stendono singulti sommessi tra un millesimo e l’altro. Ma il tempo può fermarsi? Si chiede incitata dall’attesa, perché se davvero può fermarsi allora questo è il momento in cui è fermo.

Adesso preme con le braccia sui seni nudi, li strizza come se volesse farli rientrare nel petto, li accarezza chiudendo gli occhi, ma non sente nulla. Non prova nulla. Non è mai stata realmente soddisfatta del suo corpo, ma in fondo quale donna lo è davvero.

Amanda?” le chiese un giorno, “Sì?” rispose sbattendo ripetutamente le ciglia “per te è possibile amare qualcuno che sai di non dover amare?”. Ricorda quanto indugiò nella risposta, fin troppo, mentre i capelli le si sparpagliavano in viso in ciocche disorientate “Io penso che in amore non esista il verbo dovere, ma solo quello potere” adesso sa che non significava niente, anche se allora sembrava significare tutto.

Si ferma accanto al letto, la stanza smette di ruotare, imbiancata di giallo coi grumi simili ad abrasioni di stelle, conosce bene quel piccolo appartamento, non potrebbe essere altrimenti, ne conosce ogni dettaglio. Senza guardare si siede sul letto, non ha bisogno di voltarsi, sa esattamente dove si trova, il materasso è rigido, non come piace a lei, “Io lo preferisco e tu?” le disse un giorno e così fu. Davanti al letto la toletta, con le sue curve in finto liberty, lo specchio a tre ante e la caotica disposizione di trucchi e prodotti di bellezza, pari a un giardino di fiori non colti. Calcolò quante volte si era trovata in quella specifica posizione, a osservare quella stanza da quella esatta prospettiva, sempre in attesa di sentire lo scatto della chiave che si agitava nella serratura, il battente che scatta una, due volte. La felicità che ne seguiva, come di un animale scodinzolante, che è rimasto troppo a lungo da solo e ha voglia di giocare.

Guarda verso la finestra; è tardi, è mezzanotte, è buio, anche se la luce livida dei lampioni è squarciata da vapori abissali; è vertiginoso, un panorama di tetti e nuvole; è alto, troppo alto anche per vedere le fronde degli alberi sbattute al soffio leggero del vento. E’ come stare a una finestra affacciata sul mare, meglio, è come stare a una finestra affacciata direttamente sul mare, laddove è sufficiente piegare un braccio oltre la sponda per sentire l’acqua.

Da lassù il mondo dev’essere diverso.

Era stata la prima cosa che aveva pensato, quando aveva deciso di andare a stare lì.

Il grattacielo, lo chiamano tutti, in realtà non è altro che un palazzo molto alto. Nulla a che vedere con i grattacieli veri, eppure per lei è come essere in una di quelle sfere di vetro trasparente, con il diorama di Natale e con una New York miniaturizzata, immersa in un liquido amniotico rifocillante, che rallenta la scesa dei corpuscoli bianchi simili a neve. Un brandello d’America a Firenze, non quella geopolitica della realtà, ma quella di celluloide che vive nei film e negli spazi infiniti del sogno.

Le voci della piazza giungono, lassù, come da un luogo che non le appartiene completamente, distante e non del tutto reale. Un brulichio del sogno, che increspa la superficie del cemento.

Ascolta, Amanda, mentre si alza dal letto e la voce di lui le ripete che la ama, “ma non lascerò mai mia moglie, perché in maniera diversa amo anche lei.” parla giocando con l’anello al dito, lei gli chiede come può amarle entrambe, lui scrolla le spalle, lei si agita violentando i capelli e urla: “devi scegliere, devi scegliere!”, lui calmo e spietato: “Non accadrà mai.”.

Può vederlo muoversi in quella stanza, anche in quel momento, calmo e arrogante, eppure irresistibile, con la camicia bianca e la cravatta e quella porzione di sorriso così malata e volgare, mentre dispensa affascinanti menzogne sulla possessione camuffate da poetici slanci d’amore.

Si siede alla tolette, la visione di lei da tre prospettive la disturba, tre occhi che la osservano e ridacchiano, si prendono gioco della sua fragilità, del suo concedersi così platealmente a una sconfitta già predeterminata. Un trittico un po’ ridanciano e un po’ severo e un po’ malinconico.

Anche se non ha l’orologio al polso sa che è mezzanotte.

Aveva scelto quell’uomo come aveva scelto quell’appartamento: col criterio dell’ebrezza.

A volte la chiamava quando si trovava in piazza, le faceva una telefonata e le diceva: “Bellissima? Sono qua sotto, sto per salire.” Allora a lei prendeva a battere forte il cuore, eccitata aspettava quei minuti necessari per prendere l’ascensore e salire per quattordici piani, attendeva con la vestaglia che scodinzolava. Poi la chiave scassinava e lui entrava. La definiva il suo gioiello, per questo doveva restare protetta in quello scrigno al quattordicesimo piano.

Amanda si alza dallo sgabello della toletta, con una piroetta giunge alla finestra, Piazza Leopoldo, due spicchi semicircolari tagliati dalle rotaie del tram, tra le colline del Poggetto e Statuto. Un gruppetto di sudamericani balla e beve birra sulle panchine della piazza. La città dormicchia balbettante mentre lei si sente sempre più strana, irrealmente malinconica.

Il disco Jazz suona ancora, adesso è un frattale che reitera se stesso in piccolo e in grande, il tempo passa sempre la solita canzone, ogni sera ogni minuto in un loop eterno.

Fino a che punto si può amare una persona per riuscire a odiarla?

L’aveva amato, non c’erano dubbi. L’attesa in una casa vuota, la dipendenza totale alle sue decisioni, dai suoi capricci, avevano costruito un’atmosfera di dolorosa necessità, dove il tempo, contava ben poco, perché era vita solo quando la chiave girava nella toppa, solo quando lui entrava lei diventava improvvisamente reale, fisica. Solo quando lui entrava lei esisteva.

Poi un giorno Amanda non sente più la chiave girare. Comprende che non l’avrebbe più sentita. Si spoglia degli abiti, le lacrime seguono un solco secco, eroso, che scende fino alla mascella. Apre la finestra per respirare la notte. Sente il muto gemito delle onde di quel mare di tenebra infrangersi contro il parapetto della finestra. Getta un’occhiata fragile alla sveglia sopra al comodino. È mezzanotte. E adesso? Mezzanotte. La finestra è aperta, sale sul davanzale; la finestra è piccola, si accuccia; la finestra è un varco, tetro e abissale. Quattordici piani, non è un grattacielo anche se viene chiamato il grattacielo. Forse l’aveva scelto apposta, quell’appartamento, per testare che effetto fa il vuoto, perché un giorno sapeva che avrebbe scelto di volare piuttosto che galleggiare. Amanda si sporge, come ogni mezzanotte, si tuffa e scompare nella luce livida dei lampioni.

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2 commenti »

  1. Veramente tanti complimenti Stefano. Il tuo stile è ricco, barocco e straordinariamente avvolgente. il racconto è potente fatto di un attesa infinita, di un vagare attonito in un tempo sospeso. Una cenerentola senza amore ma con un principe che è suo carceriere e guardiano. un rapporto di sottomissione fedele e dominanza assoluta.
    Splendido l’ultimo “scodinzolare della vestaglia”. Un racconto da vero scrittore.

  2. Grazie mille Gianluca, troppo buono. Un commento generoso che mi riempie di orgoglio. Sto leggendo i tuoi “Frammenti”, davvero splendidi, complimenti.

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