Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Lezione di storia” di Franco Rizzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Il professor Angelo Mariani, 43 anni, nativo di Malnate e residente a Lanzo d’Intelvi,  era molto amato dai suoi allievi. Quando lui entrava in classe si faceva subito silenzio. L’attenzione era palpabile e tutti pendevano dalle sue labbra, sia che dovesse spiegare un canto della Divina Commedia, sia che dovesse tenere una lezione di storia.

Non c’era professore al Liceo Zucchi di Monza che come lui godesse del rispetto e della stima di tutti.

Ricordo la lezione in cui esordì dicendo: “Ragazzi, oggi vi racconto una storia.                                       Si tratta di una vicenda che non ha a che fare con la Resistenza, ma credo vi serva per comprendere quanto il Fascismo e la dittatura avessero reso duri quei tempi.

Dove per duri intendo il clima di paura e di insicurezza che avevano investito il vivere quotidiano di intere famiglie, gente normale che poi, come vedrete, tanto normale non era”.

I ragazzi si predisposero ad ascoltare. Lui iniziò a raccontare con quel suo accento lombardo che rendeva accattivante il tono profondo della sua voce.

“Era un giorno primaverile dell’aprile 1944. Giovanni Bernasconi si era alzato di buon mattino, era sceso nella stalla, aveva munto le mucche e aveva portato il pesante bidone del latte alla latteria del paese. Ritornato a casa, aveva fatto uscire le mucche dalla stalla, aperto il recinto in cui erano rinchiuse le pecore e le capre, e si era avviato passo dopo passo ad accompagnare gli animali oltre il giardino dei Melesi, dove si imbocca il sentiero per la selva che degrada a balze fino al torrente che divide la vallata.

Da quel punto in poi, gli animali andavano da soli, fermandosi a pascolare dove l’erba era più tenera. Lui li avrebbe come sempre recuperati nel tardo pomeriggio.                 Ritornando verso casa pensava a sua moglie, la signora Armida, che quella mattina aveva già avuto occasione di rimbrottarlo perché, diceva, toccava a lei sopportare tutto il peso della loro osteria, l’osteria Aurora, situata nel centro del paese.

Da una settimana poi, la signora Armida aveva un compito in più da assolvere. Doveva fare per due volte al giorno il pezzo di strada che scende sino al Cimitero, per portare da mangiare al fratello del marito, Battista Bernasconi, detto Batistin, che stava nascosto nella cappella Lanfranconi – Peduzzi, la prima sulla sinistra.                                                 Lui di mestiere faceva il contrabbandiere e sette giorni prima era sfuggito ad una retata della milizia. L’avevano intercettato di notte sui sentieri intorno alla Sighignola con la bricolla piena di caffè, zucchero e sigarette: le Boston che rivendeva alla gente del paese e le Turmac destinate ai più sofisticati milanesi che il sabato e la domenica venivano a trovare le famiglie sfollate dopo i bombardamenti dell’agosto 1943.                                                                     La milizia gli aveva sparato contro ma lui, nonostante il peso della bricolla, era riuscito a scappare. Sapeva però che lo avevano riconosciuto e che lo stavano cercando.

Giovanni Bernasconi, invece, era un imboscato, renitente di leva e considerato  disertore. Dopo l’8 settembre, il suo reparto si era disperso nei pressi di Taranto.                 Lui era riuscito in qualche modo a risalire l’Italia, nascondendosi di giorno e camminando di notte, mangiando quel che gli capitava, senza mai perdere la speranza di fare ritorno alla propria casa.

A casa in effetti era ritornato, ma ora si sentiva come un sopportato, come uno senza più un’identità, un attendista che viveva alla luce del sole, nascosto a se stesso prima ancora che agli altri.

In paese tutti sapevano del suo ritorno, ma facevano finta di niente. Lo sapeva persino Angelo Rocca, il Segretario politico del fascio, che gestiva il forno del pane, il quale sorridendo diceva all’Armida: questo è il pane per Giovanni,  questo per il Batistin, che poverino è senza denti, e questo per l’osteria, nel caso il buon Dio oggi ti facesse capitare qualche cliente. Del resto il Rocca, camerata in camicia nera, fascista della prima ora ma uomo di buon  cuore, in quel periodo faceva il pane anche per i partigiani che di giorno stavano nascosti sulle strade intorno al Monte Caslè e al Pinzernone e che, dopo le loro sporadiche azioni, di notte dormivano al Rondanino.

Quando Giovanni tornò all’osteria, non notò nulla di strano. Era una mattina come tutte le altre: Luciano, il figlio più piccolo, era già andato a scuola, Marco di quindici anni era andato alla Quadra per sistemare la Cascina, l’Armida era di sopra a rifare le camere, ma aveva già preparato il tavolo dove tra poco gli unici quattro avventori di ogni mattina avrebbero disputato la loro partita di scopa.

Preparare il tavolo significava  predisporre un mazzo di carte, un foglio e una matita per segnare i punti, quattro calici e un fiasco di vino.

In aggiunta, l’Armida non dimenticava mai un portacenere speciale per il Ninetta, dove lui depositava i pezzi di sigaro masticati sino a farne poltiglia e, per terra, la sputacchiera per il Ghelmo che, oltre a fiutare il tabacco, i sigari li fumava e aveva sempre un catarro grasso e pesante, che tirava su con facilità quasi compiacendosi.                 Gli altri due soci, il Carlu arrotino, dalle lenti spesse che sembravano fondi di bottiglia, e il Cirla Barbèe,  erano già arrivati e aspettavano seduti davanti al grande camino.             Il Cirla abitava lì vicino, in una casa a due piani dove, oltre al barbiere faceva anche il falegname o, meglio, faceva le casse da morto lavorando nel laboratorio sotto casa. Quando arrivava qualche cliente, la moglie lo chiamava. Lui saliva al piano superiore e, pieno di segatura com’era, si cambiava solo il grembiule, pronto a insaponare il viso e a tagliare la barba al malcapitato cliente di turno. Malcapitato perché notoriamente la mano del Cirla, adatta ai lavori di falegnameria, non era delle più confacenti alla rasatura.

Insomma nulla di diverso o di particolare dalle altre mattine. Il sole era già alto sopra il Tellero, faceva caldo e dalla selva spirava un vento leggero. Giovanni ripulì il bancone, asciugò dei calici che l’Armida aveva lavato, spruzzò dell’antisettico sul pavimento e si mise a riposare. Nulla lasciava presagire la tragedia e mai avrebbe immaginato quello che sarebbe successo di lì a poco.

Nella Villa Pes’tun di Lanzo, dove aveva sede la milizia comandata dal Brigadiere Arturo Crotti, due giovani della Decima Mas avevano appena ricevuto l’ordine di fare un salto nel paese vicino per vedere se fosse ricomparso il Batistin, “quel farabutto di un contrabbandiere, che si prendeva gioco di loro andando avanti e indietro dal confine a suo piacimento, convinto ogni volta di poterla fare franca”.

L’ordine era preciso, perentorio e lasciava margine ad ogni tipo di azione: “deve essere catturato ad ogni costo, vivo o morto”, aveva detto il brigadiere.

I due giovani, uno di 18 anni e l’altro di 21, presero i loro fucili mitragliatori dal porta ombrelli della caserma che serviva da rastrelliera e si avviarono a piedi per un’operazione che per loro poteva avere il valore di una normale passeggiata.

Imboccarono i sentieri sotto i campi del Circolo Tennis, passarono davanti al Cimitero e alla Chiesa di San Nazaro e Celso, attraversarono la frazione di Scaria senza mai incontrare nessuno e scesero al paese dalla vecchia strada del ponte, superati nel tratto sterrato da una corriera della Salvi.

In breve tempo giunsero alla piazza, dove alcune mogli dei membri del Direttorio Fascista, la moglie del Rocca e le due maestre della scuola, stavano predisponendo la raccolta forzosa del rame e della lana che si sarebbe svolta l’indomani sul piazzale della chiesa.

Quando le donne li videro, un brivido freddo corse per le loro schiene e subito sul paese scese un clima di tragedia.

Una delle maestre, pensando di fare la cosa più giusta, disse a uno dei bambini che giocavano intorno alla fontana di correre senza farsi notare all’osteria Aurora per avvisare i fratelli Bernasconi del pericolo che stavano per correre.

Il bambino, molto sveglio, partì a razzo, ma i due della Decima Mas, forse intuendo qualcosa, lo seguirono altrettanto velocemente.

In un attimo furono sulla porta dell’osteria, dove era da poco iniziata la partita di scopa.

I giovani, fucili mitragliatori spianati, scostarono la pesante tenda multicolore fatta unicamente con i tappi dell’aranciata San Pellegrino e del chinotto Recoaro.

La tenda ondeggiò, facendo un rumore sinistro che non lasciava presagire nulla di buono. Giovanni, pensando che cercassero lui, si alzò di scatto e corse fuori, sulla ripida scaletta che portava al grande terrazzo dove anni dopo si sarebbero svolte le feste dell’Unità e dell’Avanti.

Si lanciò giù  nel vuoto atterrando sul campo di bocce, corse verso la stalla e imboccò la strada dove poche ore prima aveva accompagnato gli animali.

I due giovani lo seguirono di corsa, forse gli intimarono di fermarsi.                                        Lui non capì o non volle capire. Loro spararono alcuni colpi secchi e ravvicinati.                Lo colpirono alla schiena in più parti. Giovanni sembrò saltare verso l’alto, le braccia alzate, poi si voltò verso la casa che non avrebbe più rivisto e precipitò a terra con la faccia sprofondata dove due ore prima avevano sporcato le mucche.

Il Ninetta fu il primo a correre giù per soccorrerlo, maledicendo i due giovani che già se ne stavano andando, convinti di aver ucciso il contrabbandiere Battista Bernasconi, detto Batistin.

Armida gridava, il Ghelmo sputava per terra, il Carlu era bianco e tremava come una foglia, il Cirla si mordeva le labbra e piangeva sommessamente.

Giovanni si accorse che stava morendo.

Lo portarono in Ospedale a Menaggio. I medici intervennero subito ma dissero che aveva perso troppo sangue. Morì infatti il giorno successivo senza aver ripreso conoscenza, con addosso l’odore di mucche e lo sguardo vitreo di uno che sapeva di aver perso con la vita la propria identità”.

A questo punto della storia, il professor Mariani si interruppe. Guardò in faccia i ragazzi e li pregò di considerarsi fortunati per non aver dovuto vivere tempi così duri.                  Duri per tutti, non solo per chi stava da una parte o per chi si era schierato dall’altra.

“La dittatura – disse – ci priva della libertà e non risparmia la violenza, anzi ne fa il principio di ogni azione. Voi sappiate comportarvi di conseguenza”.

 

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