Premio Racconti nella Rete 2018 “Con i piedi nel cielo” di Paolo Sterlicchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Con i piedi nel cielo
Tra tutti i sapori, gli odori e i suoni che Dio ha regalato agli uomini per me ha scelto il tenue e delicato sibilo del vento e l’amaro e persistente cigolio della terra. Ora avvolto in un fazzoletto di cielo mi lascio accarezzare, solleticare, attraversare dall’aria. No, non cucio più le mani nei pugni, né stringo le mie labbra in pensieri muti; ora lascio sciogliere i muscoli e scatenare i rumorosi silenzi che da anni mi schizzano dentro. Anche le mie guance, irrigidite da tanta tristezza, danzano: tutto il mio corpo forse sta scoppiando, o forse stanno esplodendo i miei ricordi, scaraventati dal vento fuori di me.
Li vedo rimbalzare, dondolare davanti alla mia mente, unirsi, ricomporsi e ricreare quel puzzle che è la mia vita ferita. Urlo, ma non per il dolore, non per la paura a cui quelle immagini vorrebbero riportarmi. Urlo perché ne ho voglia, perché il mio corpo vuole sbizzarrirsi, la mia bocca vuole prendersi questo sfizio, questo lusso imbarazzante. Urlo perché sento che così la vita mi passa attraverso senza andarsene via.
Sono stato per anni un uomo sottovoce, le mie parole sono state sempre discrete, delicati i miei sguardi, a modo il mio comportamento: un uomo perfetto dal tono sottile. Poi dal grido di quel lunedì tutto è cambiato. Le schegge di lamiera che tagliavano il vento umido di quel pomeriggio hanno inciso profondamente la mia vita. Dal centro del mio stomaco si è stappato un suono così inumano, così irreale che non avevo mai pensato che potesse essere contenuto dentro di me. Una colonna sonora davvero sproporzionata che ha accompagnato gli ultimi frammenti di anima di cui ho coscienza: il sorriso di Miriam, le capriole di Giovanni, gli occhiali scuri e severi sugli occhi ironici di mio padre, il mare. Poi vetri, frantumi, pezzi… Incastrato tra i resti della mia auto, non ricordo molto di più. Forse i miei pensieri in libera uscita si sovrapponevano alla realtà. Quadri d’autore i miei pensieri, dipinti perfetti, tanto impeccabili da voler sostituire, coprire quello che stava succedendo: volti accartocciati nel dormiveglia, una sirena, l’arancione dei soccorritori. Fine della corsa: le luci dell’ospedale. Mi vengono in mente quei neon invadenti, lontani, profondi, di ghiaccio: accompagnati dal sibilo penetrante della paura, mi vibravano dentro. Tutto in me schizzava, saltava, fuggiva, tranne il mio corpo, disteso e muto. Presi conoscenza in fretta e quei ritagli di memoria del giorno prima, si composero nelle labbra sottili di mia moglie Miriam, negli occhi di mio padre oscurati dalle immancabili lenti. Il profumo di mia madre, soffice e delicato come lei, mi accompagnava negli interminabili pomeriggi di degenza e Giovanni con i suoi draghi, le sue storie metà vere e metà inventate tagliava e cuciva le parti rotte della mia anima. -Papà, quando esci?- ogni tanto gli scappava, anche se ben addestrato da nonni premurosi cercava di trattenersi. Miriam, sorrideva, come sapeva fare lei, con gli occhi bassi, le guance lievemente rosate e in silenzio mi stringeva le mani. Poi quando tutti se ne andavano via e le luci soffuse dell’ospedale tingevano di giallo anche la notte, Miriam parlava. Con le dita che roteavano veloci davanti a lei, apriva mondi, spalancava progetti, provava a chiudere i miei incubi. Io respiravo le sue brevi pause, gustavo i suoi sogni, camminavo nei suoi pensieri, ma ero fermo, immobile.
La nostra casa a pochi metri dal mare finalmente mi accolse: i lunghi giorni di ricovero erano finiti. Sulla terrazza con gli occhi chiusi, mentre Giovanni giocava e raccontava strane storie piene di draghi e ospedali, sentivo il mare danzare soffice. Le mani solleticate dalla luce del sole, le guance strapazzate dai baci di Miriam, le gambe rinchiuse in una carrozzina: un mondo vecchio e uno sconosciuto mi davano il benvenuto in quella mattina di primavera.
Basta sognare Umberto, lascia stare i tuoi tanti progetti, mi ripetevo. Sono già così difficili da realizzare per quelli che camminano con i piedi per terra, figurati per te che da adesso scivolerai come un mezzo uomo nella città dei normali. E’ meglio vedere le cose da una prospettiva più limitata, la tua, a metà misura. Le grandi idee, i progetti alti sono scoppiati con quelle lamiere, si sono sbriciolati insieme a quei vetri. Mani nelle ruote e occhi sulla strada, rassegnati.
Seguii il mio consiglio alla lettera: occhi bassi, olio di gomito e per diversi mesi la mia vita scivolò tra passerelle per disabili, poche in verità, scale e rampe faraoniche. Incrociavo gli occhi alti dei passanti, le loro paure, la loro commiserazione. Anche in ufficio riuscii a ritagliarmi un mio spazio: schermo del computer, un po’ di pratiche, qualche sorriso di circostanza e le ore passavano innocue. Tornai a una vita normale o quasi e questo mi distruggeva. Già una vita normale è una vita a metà, e io? Stavo vivendo solo un quarto delle possibilità della mia esistenza. Quando solleticavo l’asfalto della città, accompagnato dal cigolio delle mie ruote, sentivo sempre di più il bisogno di rimettermi a sognare. Non ci sono sogni a metà, quando si sogna lo si fa con tutto il corpo, si è interi. Questo cigolio mi è entrato in testa e allora mi sono buttato.
Mi viene da piangere ora ripensando a quella decisione dalla quale è ripartita la mia vita, a quelle quattro del pomeriggio sempre di un banale lunedì, quando sfiorato dai miei sogni e abbracciato da Miriam ho ripreso a scommettere. Piango, ma le mie lacrime ora schizzano in alto come i miei pensieri. Piango, ma nemmeno una goccia mi rimane in viso. Il vento me le porta via.
Legato ad un angelo, al dire il vero un po’ tecnologico, lanciato da Flash Flash, così si chiama il simpatico bimotore che quattro minuti fa mi ha affidato al vento e ronza leggero sopra di me, io volo. «Non lo fare, non cambierà niente, qualche minuto di ebbrezza, pochi istanti per sentirsi come gli altri e poi? Cosa vuoi dimostrare?». Sul filo dell’erba che corre rapida sotto di me, per un istante saettano pesanti i consigli degli uomini interi, o forse dei sognatori a metà, che mi volevano frenare, voci che hanno la consistenza del vetro e della lamiera. Loro mi hanno accompagnato, ma ora: basta! Spalanco gli occhi asciutti e continuo ad urlare.
Io, sì, proprio io, che striscio sull’asfalto, adesso atterro con i piedi nel cielo.
Intenso, a tratti straziante. Per chi non rinuncia ai sogni…