Premio Racconti nella Rete 2017 “Cuore di gesso” di Francesca Romano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Il bianco candido dell’abito di scena contrastava con il buio dell’anima. Le ciglia pesantemente truccate le accarezzavano il volto di ceramica, filtrando gocce di lacrime scure. «È un’allergia» aveva specificato alle sue colleghe curiose di conoscere la sua silente disperazione. Si era appuntata una rosa bianca di tulle sui lunghi capelli neri, raccolti in una crocchia laterale. Era stata una richiesta di Fabian, mentre si stringevano abbandonati tra le lenzuola nell’hotel a ore a Monmatre. La chiamava mon petit fleur e lei, come una stupida, aveva insistito per ottenere, contro il volere della costumista, quello che ora riteneva solo un inutile orpello. Le altre ballerine, leggermente scostate dal centro del palco, la circondavano a semicerchio, indicandola in posizione en dehors. Era lei la star indiscussa. Le sue braccia ossute formavano un cerchio: avrebbe voluto gettarvisi dentro, chiudere gli occhi e scomparire inghiottita da quel buco nero.
Il balletto era terminato, come la sua vita. In attesa del responso del pubblico e del suo destino, contraeva il volto mostrando profonda tristezza e malinconia. Tutti la ritenevano una grande interprete, una perfetta Giselle, la migliore dell’Operà, ma era solo una ballerina di fila della propria vita. Le labbra rosse fuoco socchiuse le permettevano a malapena di inspirare l’aria che scarseggiava. Avrebbe voluto spalancarle, urlare la propria disperazione; invece era compita, in attesa del suo destino già scritto. Le pareva che l’odore del gesso delle scarpette da punta le penetrasse nel naso sottile, fino a infiltrarsi nello sterno e afferrarle il cuore impietrito come gesso solidificato. Se non avesse percepito il tamburellare dei propri battiti, avrebbe giurato di essere morta.
Il lungo collo era proteso in avanti in una perfetto cambrè, il tulle dell’abito le accarezzava il corpo minuto sfiorandole delicatamente le spalle ossute. Avrebbe voluto alzarsi, strapparsi il vestito, il cuore di gesso e scappare lontano. Invece se ne stava immobile, dimessa, divorata dall’interno, con le viscere contratte. I grandi occhi neri erano rivolti al pavimento polveroso; avrebbe voluto alzarli al cielo in cerca di un Dio assente, perché, se fosse esistito, Fabian sarebbe rimasto, regalandole il suo amore invece destinato a un’altra.
Le aveva lasciato solo un biglietto accompagnato da un mazzo di rose bianche: “Mon petit fleur, non posso continuare a vivere così. La mia vita appartiene a un’altra, ma non il mio cuore. Tuo per sempre, Fabian”.
Si mosse cercando con un gesto rapido di asciugare le lacrime che scorrevano lungo il volto. Le mani ossute si soffermarono sulle gote pallide, che si tingevano di un rosso vivido solo dinanzi a lui. Accolse con un inchino gli applausi cercando di sorridere, mentre voleva morire. La luce di scena la abbagliava. Con uno sguardo disperato cercò nella prima fila della platea. Era il posto di Fabian. Ad ogni prima si liberava dalla moglie con una scusa e correva tra le sue braccia.
La poltrona di velluto rosso era vuota. Un anziano signore in panciotto vi aveva poggiato un bastone di onice scuro con il pomello argentato.
Corse nel camerino senza degnare di uno sguardo le altre ballerine, che si abbracciavano dopo il successo ottenuto in sala. Si struccò con le mani tremanti, senza nemmeno rifinire con la matita le sopracciglia. Si infilò un soprabito e si affrettò ad uscire recriminando ad ogni richiesta di autografi, evitando gli sguardi indagatori e indiscreti delle colleghe.
Il vento la accarezzò, regalandole per un attimo un dolce ricordo di attimi furtivi. Sapeva che quei brevi momenti di felicità rubata sarebbero finiti, ma non oggi. Non ora. Tuttavia era pronta al suo infausto destino. Le luci erano accese, le strade deserte del quartiere dell’Operà non la spaventavano. Era inadeguato quanto inopportuno per una signora, aggirarsi di notte senza essere accompagnata.
Uno scoppiettio la fece voltare, un fremito la travolse. Una Traction Avant sfrecciò a tutta velocità. Strizzò i grandi occhi umidi, era la macchina di Fabian. Forse aveva deciso di tornare da lei. Subito il disappunto e la delusione le si dipinsero addosso: un vecchio dal cilindro nero stava scortando una donna di mezza età.
Affrettò il passo dirigendosi verso il Pont Neuf. Le acque scure della Senna erano rischiarate dalla luna. Con le unghie laccate si slacciò lentamente i bottoni rimanendo in abito di scena. Salì sul muro alzando le braccia e puntando i piccoli piedi. Chiuse gli occhi, trattenne il respiro, e con un passo di danza, si buttò nel vuoto.
Le acque melmose e scure le accolsero, trascinandola nell’abisso. Un uomo, che passò lungo il ponte poco dopo, si fermò a rimirare un oggetto galleggiante nella Senna: una rosa bianca di tulle che veniva trascinata dal lento incedere del fiume. Il chiarore della luna la rendeva irreale: pareva un cuore bianco di gesso.
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Una madame Bovary sulle punte, un’étoile che precipita. Tanto struggente e cupo quanto realistico o reale. Molto bello, Francesca, questo tuo racconto, scritto con efficacia e dovizia di sfumature. Complimenti.
Ti ringrazio Marcella, sono contenta che ti sia arrivata la disperazione della protagonista e l’atmosfera cupa e realistica.Spesso non si riesce a trasmettere ciò che si vuole esprimere con le parole.Io ci provo.
La danza è forse la più fragile delle arti. Come la vita. Non rimane niente dopo un’esibizione. Come di molte vite, del resto. Ma qui c’è una sintesi, intensamente lirica e visiva, che concilia fragilità e memoria nel segno di un’immagine molto bella. Complimenti!
Un commento artistico e delicato.Questo racconto è stato scritto con l’intenzione di rendere protagonisti i dettagli, che di solito nei miei racconti non compaiono.Sono contenta di aver colto nel segno.Grazie.
bellissimo!
questo racconto nasconde frasi preziose, questa ad esempio mi è piaciuta moltissimo “Accolse con un inchino gli applausi cercando di sorridere, mentre voleva morire”.
riesci a rendere l’idea in modo perfetto di una grandissima sofferenza interna, di una morte interna e poi eterna.
complimenti per questo breve racconto, adoro i finali che ti lasciano di sasso (o dovrei dire di gesso?) 🙂
Bellssimo vedere citata una propria frase, ti ringrazio Granit per il tuo commento e felice di essere riuscita a trasmettere la disperazione della protagonista.
Francesca, quante volte il trucco serve a nascondere agli altri il nostro dolore perché lo spettacolo deve continuare! la disperazione cammina in punta dei piedi, quasi sempre, come la tua Giselle.
Paola,in effetti questo racconto potrebbe essere una metafora di come a volte, si celi agli altri la nostra sofferenza interiore.Grazie del tuo commento e della tua lettura tra le righe d’inchiostro.
Francesca,
il parallelismo che hai creato tra la danza e la disperazione interiore, il “cuore di gesso”, mette i brividi.
Fondamentale, a mio vedere, l’intensità e precisione delle descrizioni: un mondo cupo, pervaso da un amore cupo, che fagocita nelle sue “acque melmose” il destino altrettanto cupo della protagonista.
Che questa “rosa bianca di tulle” possa adesso trovar pace tra le braccia di un “Dio Assente”.
Bravissima.
Lorenzo che dire?Essere rimproverata di mancanza di descrizioni nei miei racconti e poi avere un così bel rimando, mi emoziona..davvero.Quello che cerco quando scrivo è regalarmi emozioni di pancia e di cuore. In questo caso, anche se in un contesto cupo e angosciante, pare sia riuscita a far trasparire ciò che volevo. Grazie.