Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2017 “La storia di un sassolino” di Anna Donati

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Non sono; e allora perché ci sono? Perché continuo a vivere? Cos’è che incessantemente muove il mare e me, che dentro esso sono immerso: ospite straniero.

Roccia, che dall’alto della tua integrità splendi sotto il torrido sole; Roccia, tu che sei; che sei madre. Madre dovevi essere e non sei stata: perché?

Sono qui adesso, anzi non sono qui adesso e ricordo; ricordo come tu Roccia, Madre, madre non sei stata. Gli anni passavano ed io ti sentivo sempre più distante, assente.

È bastato così poco: hai permesso ad un soffio di vento innocuo e a qualche alta marea di privarmi anche della tua assente presenza. Come hai potuto non porgere le tue carsiche mani a quel piccolo frammento di te che lentamente se ne stava andando, come hai potuto volgere lo sguardo altrove e lasciare che una parte di te medesima, piccola parte, sprofondasse nell’abisso del non senso, del non essere?

Solo, confuso, perso: rotolavo e cadevo, cadevo e rotolavo finché non fu acqua.

Acqua, che con le tue gelide mani e i tuoi occhi vitrei hai accolto in te l’ospite straniero.

E fu la paura, la paura provocata dall’incommensurabile vasta profondità di quella liquida Madre ritrovata. In te gelida Madre gli anni che furono, furono anni disperati alla ricerca di quel senso perduto, di quell’essere che sentivo di aver posseduto, ma che adesso mancava. Anni crudeli, sì, perché quando non si è, ma si vuole in tutti i modi essere, allora bisogna soffrire e soffrire di un dolore atroce. Costruire a partire dalle macerie di ciò che non siamo: un percorso lungo, difficile, pieno di insidie.

Non ero, ma c’ero; non ero, ma cercavo: mi ricercavo. Sentivo di essere stato e volevo ritornare ad essere: ma come?

Dalla nullità del tutto alla nullità delle parti: io piccolo frammento nel gelido flusso acquoso mi domandavo quale fosse la via del ritorno, ritorno al nucleo indisceso.

Mille e mille volte ancora mi sono perso nel silenzio della placida Madre per poi ritrovarmi e perdermi ancora. Anni di acquisti, anni di perdite: ho creduto di aver ritrovato il mio essere per poi vederlo svanire sotto i miei stessi occhi.

Sono stato segno, sono stato relazione, sono stato distanza; tante cose sono stato, tante altre non sono stato. Ero e non ero, ma c’ero.

Ci fu un tempo in cui ritrovai il mio essere sotto forma di segno. Segno che individuava un punto, ma infiniti erano i punti nella fluida Madre e allora era il segno ciò che importava, il mio segno, il segno di me. Io ero, ero quel segno e quel segno era me: mi vedevo, mi riconoscevo. Dal segno, che era al di fuori di me, nacque la mia autoconsapevolezza: finalmente ero tornato ad essere. Ma nel tempo, perché nella condizione di nullità delle parti è nel tempo che siamo e non siamo, il moto costantemente incessante della Madre acqua mosse ogni suo punto e ogni suo punto da lei venne mosso. E fu così che di nuovo mi persi, lo persi, persi il segno, il segno di me: di nuovo solo, di nuovo non essere. Ritornò il tempo dell’atroce dolore, ritornò per poi svanire ancora: essere e non essere, onda che vai, onda che vieni.

Venne il tempo in cui riconobbi il mio essere nella relazione. Relazione: il modo di essere di una cosa rispetto ad un’altra. I punti, le sostanze e quindi gli enti dotati di esistenza erano molteplici e tutti in qualche modo diversi da me; ed ecco che io ero ciò che le infinite sostanze accolte dalla Madre acquosa non erano. Ma la molteplicità sostanziale degli enti mi restituiva un’immagine di me altrettanto molteplice ed io non riuscii a sostenere questa immensa molteplicità. Mosso: sopra, sotto, destra, sinistra; ogni spostamento era un nuovo essere, un nuovo me. La molteplicità esistenziale di nuovo mi portò a smarrirmi nel non essere: la costante incostanza a cui la relazione mi aveva condotto riportò in me la fuliggine del non senso. Ritornò il tempo dell’atroce dolore, ritornò per poi svanire ancora: essere e non essere, onda che vai, onda che vieni.

Ci fu anche il tempo in cui la distanza rappresentò il mio essere. Distanza: spazio che intercorre tra due luoghi, intervallo di tempo tra due eventi. Scoprii che ero in quanto distavo ed ero in quanto resistevo al flusso costante del tempo. Ciò che caratterizzava l’acqua, la Madre, era il movimento, lo spostamento continuo di tutte le sue parti. Perché ci possa essere movimento è necessario uno spazio, una distanza entro cui le parti possono agitarsi: ed ecco che io ero distanza tra le parti, ero possibilità maggiore o minore di movimento per me e per gli altri punti. Il movimento presuppone anche la temporalità: un punto si muove non soltanto nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Ed ecco che io ero punto all’interno del tempo, punto mosso nel tempo, sempre presente allo scorrere del tempo: in grado di ricostruire un prima ed un poi. Presto, però, svanì anche la certezza esistenziale della distanza: affinché la distanza possa conferire esistenza è necessaria la quiete, perché non può esserci rapporto distanziale costante senza un punto fermo, senza un riferimento immobile; e la Madre acquosa a nessun suo punto permetteva il lusso della quiete. Restava la certezza esistenziale della distanza temporale, ma presto anche questa fu raggiunta dalla caligine: c’era il tempo, un passato, un presente ed un futuro, ma che senso ha temporalizzare la realtà se l’evento che sancisce il prima ed il poi è sempre lo stesso? La realtà destinata ad un eterno ritorno non è forse una realtà in cui passato e futuro convergono in un costante presente?

Ritornò il tempo dell’atroce dolore, ritornò per poi svanire ancora: essere e non essere, onda che vai, onda che vieni.

Adesso pochi attimi mi restano da vivere, ancora poche particelle della fluida Madre riusciranno ad incontrarmi e poi sarà la fine.

Potrei continuare a raccontare tutto ciò che sono stato e non stato, ma adesso non è questo ciò che importa, perché essere e non essere rappresentano la mutevolezza. Ciò che importa è il fatto che mentre ero e non ero, c’ero. La verità dimora al di là dell’essere e del non essere, la verità è l’esserci. Ma cos’è che ha permesso che io ci fossi in ogni istante, quando ero e quando non ero? Cos’è che con un sottile filo mi ha sempre tenuto teso tra la perdizione dell’oblio, del non senso e la vita, il senso?

Ecco che sono arrivato, la vedo: la verità.

La verità: il coraggio della domanda, su se stessi e sul mondo.

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1 commento »

  1. Mi stupisco che nessuno abbia commentato questo bellissimo racconto. L’idea e lo stile, li adoro. Brava davvero

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