Premio Racconti nella Rete 2016 “Il ritorno” di Alberto Pesi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016La mano, bianca ed elegante, rimase aperta a mezz’aria davanti al pugnale che luccicava sul drappo nero. Osservando l’incertezza del proprio gesto, Penelope cercò una conferma negli occhi della maga, occhi ben disegnati dal rimmel, ma che la attraversavano immobili e sembravano guardare un altro luogo, lontano.
Non erano trascorse due settimane dalla notte nella quale tutto era iniziato. C’era stata una festa con i colleghi della clinica, ciascuno aveva portato la compagna o un amico: non erano in pochi e la confusione l’aveva stancata. Troppo alcol, troppo tardi, troppo rumore; al rientro si era coricata accanto al marito ed era stata colta dal sonno senza riuscire a dire buonanotte.
Dormì senza sogni fino all’aurora, finché, al chiarore che iniziava ad alzarsi all’orizzonte si mescolarono lampi di immagini confuse che si componevano lentamente e progressivamente. Si vide, separata da sé stessa, alzarsi dal letto e camminare. Poi dal silenzio emersero in crescendo le voci squillanti delle amiche: – Penelope, corri, corri in mansarda che lo abbiamo visto! – Visto chi? Chiedeva. Da tutte le stanze della casa rimbalzavano echi di grida che la chiamavano. Anche Gianni, suo marito, esclamava eccitato: – Vieni amore, corri su, vieni, c’è tuo padre! – Mio padre? Che dici? Che dite? Mio padre è morto, che volete? Lasciatemi in pace! Aveva ribattuto così ma era salita in fretta. Dalla mansarda era poi uscita sulla terrazza e guardava a bocca aperta intorno, attraverso un vapore teatrale. Le amiche e il marito rispondevano alla sua espressione stravolta insistendo.- Lo abbiamo visto qui, senza la sedia a rotelle, che si lamentava. – Si lamentava orribilmente -, sottolineò Gianni – e cercava te, Penelope. Poi, da un angolo buio, un sibilo e un lampo la fecero voltare: appoggiata con un palmo al muro, curva in avanti, l’ombra di suo padre le tendeva una mano. Un gelo sconosciuto l’attraversò e divenne intollerabile quando riconobbe la voce che non udiva da cinque anni: – Penelope, mi hanno ucciso! Ucciso! Come puoi non aver capito? Non hai saputo? Tu devi, tu devi, tu, Penelope devi…poi suoni incoerenti si erano sovrapposti e luci sfrangiate come cirri avevano smontato la scena, finché non distinse più nulla, provò a gridare ma la voce non le usciva dalla gola. E venne il mattino.
Due giorni dopo, sistemate le urgenze nella clinica di Varese dove era primario, era partita da sola per Lucca. Nella sua città non tornava da due anni: non la richiamavano in Toscana gli affetti né una casa o amicizie. Coi due fratelli aveva poi un pessimo rapporto, logorato dalle vicende familiari, dalle violenze del padre, violenze che avevano prima spento la madre poi loro tutti e senza il beneficio della solidarietà fra vessati a causa del cattivo carattere dei ragazzi, in particolare di Sergio, il fratello più piccolo.
– Cosa ti porta a casa Penelope? si chiedeva guidando. – Un fantasma ti ha parlato e tu gli hai creduto? E perché hai ceduto all’implorare dell’ombra di un uomo che, morto due anni fa, era stato una bestia, un mostro, un costante peso sul cuore dal quale fuggire? E del quale essersi liberata era stata la svolta della sua vita: gli anni delle oppressioni, delle violenze psicologiche degli schiaffi dati a lei, dati a sua madre, erano stati curati dal tempo e, finalmente, aveva capito che poteva avere successo, vincere. Essere migliore di come l’aveva dipinta quel padre tiranno. E col successo se ne erano andati i lividi e tutte le indigenze di quel quartiere buio e miserabile del centro storico dove aveva vissuto. Molto volentieri aveva lasciato ai fratelli ogni cosa, in cambio di pochi soldi per terminare gli studi. E in cambio della sua mancata assistenza al vecchio.
Ma l’auto andava veloce e non sapeva rispondersi: perché tornare? In quello strano sogno il padre diceva di essere stato ucciso, ma l’assurda rivelazione non le aveva istillato dubbi: non aveva assistito al decesso di persona, ma l’arresto cardiaco dell’invalido genitore era certificato da un collega ed era quello che ci si poteva aspettare, dato lo stato di salute. E augurare, si ripeteva con sincerità.
Giunse a sera tarda all’hotel prenotato con Booking, come una turista, e non avendo avvertito nessuno del suo arrivo si sorprese nel vedersi recapitare una busta alla reception. Sulla lettera c’era scritto in bella calligrafia “per la dottoressa Penelope Mansi”. La infilò in tasca e salì in camera. Non sfece la valigia e aprì subito il messaggio. Una bella calligrafia, un inchiostro blu da stilografica:
“Se, come spero, vorrà incontrarmi domattina, resterò a casa appositamente per lei. Suo padre mi ha contattata e posso riferirle. Se le va bene mi mandi un sms al numero qui sotto, lo leggerò al risveglio. Buona notte, Lina”.
Adesso era molto confusa. Non credendo al paranormale o a scemenze esoteriche di alcun tipo, tutto ciò non poteva che essere uno scherzo o un inganno malevolo dei fratelli o di Gianni. Ma il marito non era un tipo scherzoso né poteva aver architettato qualche inganno: si volevano molto bene e non c’era motivo. Quanto ai fratelli, entrambi all’oscuro del suo arrivo, come avrebbero potuto…? Era stanca e decise che avrebbe incontrato la “maga” Lina l’indomani, così inviò il messaggino e si coricò.
Al mattino fu svegliata di buon ora dal concierge: l’autrice della lettera era al piano di sotto e la aspettava. Non aveva neppure avuto il tempo di riflettere su quanto stava accadendo che si trovò di fronte alla sconosciuta. Indubbiamente una bella donna ma un po’ piccola e non giovanissima; aveva tuttavia un’espressione gioviale che dava alle sue evidenti zampe di gallina un aspetto simpatico. Indossava un ampio abito di lino molto colorato, una lunga stola e un fazzoletto a legare i capelli ricci. Le presentazioni furono brevi e Lina spiegò che il padre di Penelope le aveva lasciato un messaggio e aveva saputo che sarebbe arrivata in città proprio oggi. Penelope chiese se avesse conosciuto il padre anni fa e dove le avesse parlato ma quella disse qualcosa di stravagante: – Non l’ho conosciuto di persona. Lasci che le spieghi. La donna tirò un sospiro, la invitò a sedersi sulle poltroncine della hall e si mise le mani fra le ginocchia: – Diciamo così: io tocco le cose e le cose raccontano. Gli oggetti, sa, contengono informazioni, messaggi e ricordi, e voci. Questa cosa mi capita spesso, non ci posso contare, voglio dire, non posso farne un mestiere ma se capita… Giorni fa sono passata da via San Giorgio, verso il carcere, non so se ha capito, disse maliziosa. – Certo che ho capito, abitavo non lontano da lì. Lina annuì, sorrise e continuò. – Dicevo, ero in via san Giorgio e a un certo momento ho notato un cartello, un divieto… di camminare a piedi! Che stranezza, mi son detta, ma poi ho capito: c’erano delle transenne subito dopo quel punto che impedivano di camminare sotto la facciata pericolante di un vecchio palazzo disabitato. Ma ecco, improvvisamente, come costretta, ho toccato le pietre del palazzo ed ho sentito vibrare la parete. Questa della vibrazione è una cosa che mi capita, a volte, quando sento parlare le cose. Poi, quando mi son voltata, così, verso sinistra, l’ho visto. Tuo padre era su una sedia a rotelle, con un brutto maglione da vecchio e mi guardava sghignazzando malignamente. Dicendo queste parole la donna fece una caricatura esplicativa: torcendosi le mani, con gli incisivi sporgenti e il naso arricciato, rideva da strega: he,he,he. Il cervello, a volte, va in posti strani: in questo caso Penelope non si soffermò sul contenuto di quanto aveva ascoltato ma sul fatto che, improvvisamente, la maghetta era passata al “tu”.
Lina continuò il suo racconto. – Era veramente torvo e non capivo se ridesse amaramente o se fosse arrabbiato. Non doveva essere un bel tipo neanche in vita, dico bene? Poi ha iniziato la sua tiritera: -E mi hanno ucciso, e mi hanno ucciso , e mi hanno ucciso e gna-gna-gna. Mi aveva rotto, non era il solito spettro educato, che chieda di, capiscimi, di fare “un ponte” fra “loro” e “noi”. Era arrogante, era imperativo e sembrava pretendere che lo si capisse e lo si ascoltasse. Ora, io non lo avevo simpatico, avevo da fare le mie cose e lui mi era apparso in un momento poco adatto, così feci per andarmene. Lui lo deve aver capito e ha lanciato uno di quei gridi lì, che fanno loro, non so se…. Penelope rimase inespressiva e guardò Lina come si guarda uno che abbia appena ruttato a tavola. – Beh , tipo il tuo grido di tre giorni fa, quando lo hai sognato, e urlavi ma non ti usciva la voce, hai presente? Ecco, questa volta la donna aveva colpito duro: come faceva a sapere del suo sogno? Decise di rimanere sul razionale, semplicemente rimandò a dopo i suoi dubbi e roteò la mano come per dire “prosegui”. Lina terminò in breve: -…e mentre provava a gridare indicava a terra un oggetto lucente che non saprei se fosse già lì o se ce lo avesse messo lui. Un lungo coltello, anzi un pugnale. Poi la sua immagine cominciò a essere meno definita, come sempre in questi casi, capisci, è come non ci fosse più…segnale? Insomma si affievolisce tutto e poi…POF!- scomparso. Che ne dici? Non è fortissimo? Ha lasciato un oggetto ponte, capisci? Non capita che una volta su un milione. Hai avuto culo dottoressa!
Penelope si svegliò dall’intorpidimento che quel profluvio di baggianate le aveva provocato e, non capendo se si trovasse di fronte un’imbrogliona o una demente, chiese in tono interlocutorio:- Ascolti, anzi, ascolta: non ho capito come tu faccia a sapere tutte queste cose di me, se tiri a indovinare o che cosa, ma lasciamo stare. Dimmi, che vuoi dire: che c’entra il pugnale? Mio padre è morto d’infarto al miocardio, mica accoltellato. Lina le fece un sorriso accattivante, aveva un bel visetto simpatico, da gatta, e le disse: – Vieni stasera a casa mia e risolveremo ogni cosa. Si era alzata svelta e, lasciatole un biglietto, era scappata via.
La sera , dopo aver telefonato a Gianni, al quale non raccontò niente, non sapendo come riferire in modo razionale e credibile la sequela di stranezze che le erano occorse, si recò all’indirizzo indicatole. Si trovò in una piccola piazza dove c’era un unico portone, oltre a quello di un ufficio, e un campanello riportava “Lina Simi”. Le fu subito aperto e, fatta una ripida scala in pietra serena, si trovò nell’antro della fattucchiera. Viveva sola con un paio di gatti, unica presenza vagamente magica in un appartamento qualsiasi; la fece subito accomodare in un salottino. – Cara, carissima, mettiti qui comoda al tavolino. Devi fare un’esperienza, adesso, alla quale non tutti sono abituati. E fece l’occhiolino. Poi si diresse ad una mensola e prese qualcosa avvolto in un telo di raso scuro. – Ecco qui, l’ho raccolto e l’ho portato qui. Tutto per te cara! …
Lina aprì il grande fazzoletto e scoprì un nero pugnale dalla lama affilata e lucida. Lo lasciò con fare teatrale sul tavolino e le disse: – Ora non pensare a niente, chiudi gli occhi…e guarda. Le parole le penetrarono in testa con dolcezza e si trovò a obbedire: abbassò le palpebre ed in breve fu raggiunta da lampi di colore e immagini confuse che mescolandosi le mostrarono un ambiente a lei ben noto. In un salottino male illuminato i fratelli Sergio e Luigi, il più anziano, stavano in piedi accanto alla carrozzella del padre. Poi i due si guardano, il vecchio dorme, ha le mani in grembo, indossa un brutto maglione. Sergio prende un cuscino: con rabbia e con forza lo preme sul viso del padre. Questi prima agita le ginocchia, poi le spalle e tutto il corpo. Allora Luigi lo blocca mentre il fratello si fa sempre più frenetico. Dopo poco il capo canuto ricade sulla spalla, senza vita.
Penelope aveva la bocca aperta e le lacrime agli occhi. Quelle figure odiose, orribili, l’avevano spaventata e riempita di pena. Ora il padre abietto le appariva una vittima, un agnello, rispetto ai due fratelli. Poteva essere un’immagine della verità? Poteva esserci stato un omicidio. Lina conosceva i dubbi del suo cuore e aveva capito che aveva visto cose per le quali non era preparata. – Ora cara, non credere a tutto ciò che sogni, che immagini. Questo oggetto, questo pugnale, è un ponte, una radio, un cellulare diciamo. Se vorrai sapere la verità ti basterà prenderlo in mano e, stringendolo, sarà lui a dirti cosa è stato e cosa sarà e cosa dovrai fare.
La mano, bianca ed elegante, rimase aperta a mezz’aria davanti al pugnale che luccicava sul drappo nero. Osservando l’incertezza del proprio gesto, Penelope cercò una conferma negli occhi della maga, occhi ben disegnati dal rimmel ma che la attraversavano immobili e sembravano guardare un altro luogo, lontano.
Dopo due ore era già sulla sua auto, di ritorno a Varese. Era fuggita allora e fuggiva adesso. Non aveva voluto sapere nulla. Non aveva indagato su Lina, non le interessava conoscerne i poteri esoterici o la capacità di inganno. Non voleva sapere se aveva assistito a magia nera o ai raggiri di un parente che stesse orchestrando chissà che frodi. Non aveva toccato alcun pugnale. Non voleva sapere se fu un cuscino o una ischemia a stroncare il vecchio tiranno. Non aveva importanza. L’importante era che lui fosse finito sotto terra, che lei fosse libera, che si fosse rifatta una vita fenomenale, che dirigesse una clinica di 35 persone, che la sua nuova fiammante BMW la stesse riportando in due ore e cinquantacinque alla sua villa con giardino, in centro storico, con cancello in ferro battuto, con le iniziali sopra uno stemma messo dal Gianni, l’adorabile marito che, di certo, la stava aspettando per un drink.
A trecento chilometri di distanza una allegra signora svolazzava in ampie vesti colorate per i vecchi quartieri di Lucca, fermandosi di tanto in tanto come rivolgendosi a qualcuno, un conoscente o chissà chi, che lei sola sembrava vedere.
È una storia particolare. Hai una buona proprietà di linguaggio e per questo ti chiedo perché, in un certo punto del racconto, passi dal trapassato al passato remoto e poi all’imperfetto. Immagino sia una scelta consapevole e quindi vorrei capire cosa volevi trasmettere così. Ti ringrazio per il tuo racconto e per i personaggi che hai creato.
Il tuo racconto ha un fascino strano, elegante e misterioso… Peccato ti soffermi poco sul personaggio di Lina Simi, perché è una figura molto intrigante.
molto intrigante, fantasioso e un pizzico noir. Niente male!!!!
grazie