Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Tatiana” di Giovanni Fiorentino

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Ovviamente, nulla di tutto quanto accadde poi avrebbe mai potuto essere immaginato se, quella sera, alla fine del turno, Vincenzo Lo Conte da Ariano, 56 anni, conducente di autobus delle linee urbane della città di Avellino, regolarmente maritato con Esterina Leone da San Sossio Baronia, un paese che al deposito tutti dicevano “l’ho sentito, sì, ma dove sta?”, dicevamo: Vincenzo Lo Conte, autista con la passione di niente se non del lavoro e del silenzio, devoto di Padre Pio da Pietrelcina, del quale da anni era intento a realizzare un busto in legno nella sua cantina, non avesse incrociato al rifornimento mezzi il collega Luigi Preziosi, Gino per gli amici, uno con il quale – sì e no – egli aveva preso due caffè in trent’anni e scambiato – sì e no – due parole nello stesso tempo, che appena lo vide mutò rapidamente la sua espressione, fissandolo con due occhi disorbitati come se avesse visto una madonna pellegrina in transito vicino alla pompa del gasolio, lui che per la madonna, quella madonna, aveva girovagato senza esito da almeno tre quarti d’ora, tra una macchina che partiva e l’altra che rientrava.

<<Enzino, io solo a te non avevo pensato>> disse Preziosi con voce bassa e risoluta, allargando le braccia e accennando un sorriso sornione.

<<Mi dovevi pensare? E chi te l’ha chiesto?>> rispose Vincenzo Lo Conte con lo stesso tono, non dando alcun peso al tentativo di confidenza del collega.

<<Enzo, non ti voglio chiedere mica di cambiare la tua linea per sempre. E’ una vita intera che ti fai i tuoi turni, le tue ferie, il tuo santissimo percorso, le tue ore benedette e te ne torni a casa. Lo sappiamo tutti, qui pure le marmitte lo sanno. Però una volta, una sola volta, un favore me lo puoi fare>>, riprese Preziosi con l’aria di chi ha l’urgenza di calare le sue carte sul tavolo. <<Me lo devi fare>>, concluse perentorio, con un sussulto di coraggio, passando in fretta la mano prima che l’altro proseguisse per la sua strada.

Vincenzo Lo Conte, detto Enzo, si fermò davanti al collega e rimase immobile e assente per pochi secondi, poi d’improvviso sembrò cercare qualcosa nella mente, con l’aria di uno che fruga in un baule pesante e misterioso, ma soprattutto aperto di rado. Guardando nel vuoto, con la punta delle dita si stirò la pelle della fronte, sulla quale svettava un ciuffo di capelli color oro, unico vezzo apparente in una vita per il resto anonima e circolare. Prese a respirare profondamente e nascose una mano nel borsello nero che portava sempre con sé. Attraverso i suoi occhi chiari e stretti, al centro di una testa piccola ancorata saldamente su un corpo basso e smilzo, Vincenzo Lo Conte osservò con aria affilata la sagoma che gli si era parata di fronte. Avvertì come se, ad un certo punto della sua perfetta esistenza, qualcuno, ovverosia Luigi Preziosi detto Gino, autista anziano della linea 1 Atripalda-Mercogliano, avesse voluto provare a metterne in discussione l’ordine preciso e invariabile che essa stessa ormai s’era data, da sola, con un rigore mai scalfito da chicchessia o da alcunché. Tuttavia non si scompose, umettò con perizia le labbra sottili, ed ebbe a tratti la vaga sensazione che qualcosa stesse per accadere.

<<Dimmi>>, replicò.

La notizia del cambio di linea tra Vincenzo Lo Conte e Luigi Preziosi fece subito il giro del deposito: non che la cosa avesse una importanza particolare per il servizio, questo è certo, ma a nessuno sfuggì la circostanza che, cosa mai accaduta a memoria d’uomo, il primo si fosse inopinatamente – è il caso di dirlo – reso disponibile a rinunciare per un paio di settimane al giro ed agli orari del suo storico turno sulla sua linea Piazza Libertà-Cretazzo per cimentarsi con la linea 1.

Molti ironizzarono sulla improvvisa disponibilità di Enzo. <<Stanotte trema>>, sentenziò definitivamente il pur mite Imbimbo dal pulpito della manutenzione, non senza il dovuto sarcasmo accompagnato da un gesto scaramantico. L’ispettore Genovese, una volta appresa la novità, accese una sigaretta carica di sospiri e, seduto davanti allo spaccio aziendale, esibì a lungo di fronte a tutti uno sguardo interrogativo e ondeggiante tra i cerchi del fumo, come se al deposito ognuno aspettasse da lui la versione ufficiale dei fatti – cosa, naturalmente, non vera, in quanto al deposito, con tutto quello che si può dire, ognuno prova a pensare da sé; qualcun’altro malignò, invero, su un’intesa segreta tra Lo Conte e Gino Preziosi, che aveva in realtà come obiettivo le ferie di agosto, accordo che sarebbe stato stretto, naturalmente, alle spalle degli ignari colleghi; altri, i più, insinuarono che ultimamente Vincenzo avesse un’aria misteriosa più del solito, che prima o poi c’era da aspettarselo e che in fondo il suo gesto, “estremo” – così lo aveva definito il collega-filosofo Egidio Colucci, della linea Piazza Kennedy-Pozzo del Sale, era pur sempre da apprezzare; pochi, meno disposti al tormento e al pettegolezzo, dissero che alcuni comportamenti sul lavoro vanno presi per quello che sono e guai a giudicare (<<chi di voi è senza peccato…>> si spinse fino al largo il capodeposito Maurizio Pelosi).

Tra Vincenzo Lo Conte ed Esterina Leone le cose non erano più quelle di un tempo, ammesso che un tempo le cose fossero state, come dire, quelle che dovevano essere. Col passare degli anni la loro unione era sbiadita, come il bianco e nero della foto del loro matrimonio sopra al comò della camera da letto, immagine sacra che troneggiava accanto a quella inossidabile dei genitori di lei.

Esterina, casalinga con la passione di niente se non della pulizia, della cucina e del mangiare, più grande – in ogni senso – di Vincenzo, di età di un paio d’anni, di statura di qualche spanna, un corpo da matrona fin da quando ne aveva sedici, aveva sposato l’esile autista in seconde nozze, dacché un infarto le aveva sottratto il primo marito dopo soli pochi mesi di vita coniugale (la fine dello stimato geometra Sabatino Riccio, in verità, era rimasta avvolta nel mistero, ma molti erano propensi a credere, per più circostanze e dettagli che qui non serve riportare, ch’egli avesse esalato l’ultimo respiro a tarda ora, mentre il suo corpo esultava in uno straordinario atto d’amore e sotto il peso delle grosse tette della moglie, la quale però, nel frattempo, si era addormentata sul pover’uomo).

I due figli maschi di Vincenzo ed Esterina si erano sistemati, per fortuna, in qualche maniera e da qualche parte, comunque fuori di casa, e loro due avevano preso a vivere da allora una vita ancor più ordinaria e ordinata di quella fino a quel punto vissuta, senza altre attese ed aspettative, un’esistenza che sembrava ormai non aver più molto da aggiungere alle loro vite oltre che alla vita stessa. Solo qualche intaglio in più con lo scalpello sul volto burbero di Padre Pio in cantina. Poche e rituali le parole tra loro, in genere la sera a cena davanti alla tv, rari i gesti d’affetto, l’intimità scomparsa definitivamente. L’ultimo momento non calcolato e prevedibile, tra di loro, sembrava essere quello congelato da una polaroid ingiallita che faceva da segnalibro in un Vangelo dimenticato tra le bollette e qualche catalogo: c’è lei vestita a festa che accarezza la chioma di Vincenzo in giacca e cravatta e lui, con la faccia da scemo, che fa finta di scappare.

Nell’austero e modesto appartamento al primo piano di una viuzza interna del Rione San Tommaso di Avellino, solo la voce di un telegiornale locale all’ora di cena scandiva un qualche sentimento del tempo, altrimenti marmoreo e pulito, come le stanze continuamente rassettate dall’infaticabile Esterina.

Le istruzioni per l’uso della Linea 1 non tardarono ad arrivare. Preziosi fece di tutto affinché il taciturno collega, còlto da un’enigmatica ed improvvisa disponibilità verso il resto del mondo, non avesse a patire oltremisura il sacrificio umano che si apprestava a compiere, il cambio di orari, di ritmo e – più di ogni altra cosa –  di passeggeri. Furono quindi fornite a Vincenzo Lo Conte, che come sempre ascoltò senza prestare attenzione, anzi biascicando qualche oscura parola tra sé e sé, le avvertenze sulla fermata personalizzata per il ragionier Picariello a via Roma, sia all’andata che e al ritorno, le rassicurazioni sulla salute mentale dell’anziano Modestino Valente (<<sale a Cappella Baratta, sbraita ad alta voce contro il sindaco o un malcapitato qualsiasi e scende alla fermata dopo sbattendo i pugni contro la porta, tre volte in tre ore: tu fai finta di niente>>), la descrizione dei petulanti coniugi Taccone, che gli studenti a bordo avevano ribattezzato Tesò-Amo’, che sembra non abbiano mai considerato seriamente il precetto di non parlare al conducente, l’imitazione della voce della vecchia nobildonna Genoveffa Salvi in Carulli, che a via Nappi chiederà ogni volta – come in effetti non mancò di accadere – di scendere dalle porte anteriori perché, a detta sua, dalle porte centrali scendono tutti, e così via.

Di Tatiana, però, Preziosi non fece alcun cenno.

Alle ore 10:05 del mattino del primo mercoledì di servizio sulla nuova linea, Vincenzo Lo Conte detto Enzo, in sostituzione del collega Preziosi provvisoriamente assegnato ad altra linea per motivi personali, effettuò con puntualità la fermata Torelli in direzione Avellino. Voltatosi verso le porte appena aperte, osservò di fronte a sé un paio di persone che salivano a bordo e, in attesa di riprendere il percorso, fu attratto dai movimenti lenti e aggraziati di una di esse: carnagione olivastra, occhi larghi e scuri, lunghi capelli castani che confondevano un viso docile ma dai lineamenti precisi. Il suo corpo giovane, magro, non alto, avvolto in un vestito attillato sotto un cappottino nero appena sbottonato, restava in perfetto equilibrio sui lunghi stivali dagli alti tacchi. Al polso un braccialetto in cuoio, con una scritta. Lo Conte attese che entrambi i nuovi entrati si sedessero, si schiarì la voce con tre colpi secchi di tosse come se dovesse dire qualcosa a qualcuno, e ripartì.

Il giorno successivo, alla stessa ora, quella strana creatura che, entrando nell’autobus la mattina prima, era riuscita a far breccia negli occhi di Enzo, ricomparve alla fermata e, con le stesse eleganti movenze, i suoi tacchi, il suo bracciale, il suo sguardo, salì i pochi scalini per andare a sedersi proprio alle spalle del posto di guida: al suo passaggio, una folata di profumo si posò sul collo del conducente e lo abbracciò con leggerezza mentre egli, con una mano distratta tra i capelli, provava a dare forma e direzione alla chioma giallognola che oscillava sulla sua testa. Dopo circa un quarto d’ora di viaggio, durante il quale Vincenzo Lo Conte non smise di cercare ogni motivo per lanciare più di un’occhiata dietro di sé, giunti a via Pianodardine, vide nello specchio retrovisore il riflesso di quella figura in piedi al centro dell’autobus e ormai pronta per scendere, cosa che infatti fece appena le porte furono aperte all’unica fermata lungo Via Maddalena.

Enzo tardò volutamente a ravviare la marcia e si smarrì per alcuni secondi in quel profilo elegante, diretto con aria assorta verso una vecchia palazzina, non distante da dove s’era fermato, isolata e apparentemente disabitata.

Nei giorni che seguirono, gli orari, il percorso e la scena non mutarono. Una mattina, trovandosi in anticipo sulla tabella di marcia del turno delle dieci, Vincenzo Lo Conte rallentò la velocità verso Avellino temendo di non riuscire ad incrociare quella persona dalla quale egli si accorse, con sorpresa, di attendersi uno sguardo e della quale, con una certa ansia, sperava di decifrarne gli occhi e sentirne vicina, sia pure per un poco, la presenza.

Alla fine dell’ultima giornata di lavoro sulla linea 1, rinvenne per caso a terra e sotto il suo sedile, il piccolo bracciale che egli aveva già visto e che ben conosceva. La scritta “Tatiana”, incisa su quella striscia di pelle leggermente usurata, lo attraversò senza preavviso, come un coltello infuocato nella sua carne: chiuse gli occhi, passò fugacemente il bracciale sotto il naso come per divorarne in segreto tutti gli odori e infine lo ripose con cura nel suo borsello.

Al deposito, gli osservatori dello spaccio aziendale, tra gli altri, avevano notato un certo cambiamento in quell’autista normalmente opaco, silenzioso e riservato: più di ogni altra cosa, i pantaloni di jeans, che egli aveva ormai da molto tempo dismessi, la cura rinnovata per la pettinatura e la peluria sul viso finalmente rasa, furono oggetto di qualche colorito commento tra un caffè e l’altro. Esterina, a casa, non diede particolare importanza a piccoli segnali che pure non mancò di notare, neanche quando il marito le comunicò una sera di aver deciso di rinunciare alla consueta passeggiata del dopocena per il rione preferendo invece fare un giro in macchina <<per cambiare aria>>, e rincasando dopo qualche ora, mentre lei già dormiva profondamente.

Il giorno che Vincenzo Lo Conte riprese servizio sulla linea Avellino-Cretazzo, quasi tutti i passeggeri salutarono il suo ritorno come un segno di ripristinata normalità: il collega Preziosi, anch’egli rimessosi al timone della linea 1, quella mattina lo aveva ringraziato davanti a tutto il deposito per il cambio concesso e lui, abbassando la testa,  si era schernito dicendo <<dovere>>, cacciandosi una mano in tasca e affondando l’altra nel borsello. Durante la guida, per tutta la mattinata, pensò a sua moglie, alla casa e a nient’altro. Non vide l’ora di fare rientro. Il pomeriggio lo passò, come spesso accadeva, nella cantinetta al piano seminterrato, provando ad aggiustare una vecchia radio e continuando il lavoro minuzioso sul busto in legno di Padre Pio da Pietrelcina.

Quando la sera si sedette a tavola, osservò con tenerezza sua moglie di spalle mentre alla cucina versava la pastina calda nei due piatti. La donna si voltò con un movimento goffo e impacciato, servì il marito, poi posò il piatto per sé e si sedette. Nessuno dei due si sforzò di parlare all’altro, come sempre accadeva. Entrambi presero a mangiare mentre il telegiornale locale seguitava a fornire dettagli sulla notizia del giorno, il ritrovamento in una vecchia casa in periferia del corpo senza vita, segnato da numerose ferite inferte con uno scalpello, di Julio Almeida Dos Santos, transessuale di 24 anni, conosciuto nell’ambiente col nome di Tatiana.

Esterina Leone, d’un tratto, si fermò tenendo il cucchiaio a mezz’aria, la bocca chiusa e masticando qualcosa nella testa: guardò il marito aspettando ch’egli parlasse. Vincenzo Lo Conte avvertì l’attesa vigile della moglie, sollevò lentamente il capo dal piatto, la guardò negli occhi e disse: <<Manca di sale>>.

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2 commenti »

  1. Ho trovato il tuo racconto molto interessante. Il cambio di linea è intelligentemente funzionale alla drammatica sbandata. Di piacevole lettura. Complimenti!

  2. Grazie per il tuo commento e per gli apprezzamenti, mi fa molto piacere sapere che (nonostante io abbia volutamente lavorato sulla tortuosità di alcuni periodi e sul gioco di subordinate) la lettura possa comunque risultare piacevole!

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