Premio Racconti nella Rete 2016 “Una strana eredità” di Carmen Rossi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Quella che mio padre mi lasciò, nel momento in cui dovevo iscrivermi all’università, è una strana eredità.
Ogni passaggio da un livello di scuola ad un altro rappresenta un momento, a suo modo, importante per lo studente; ma quello dalle scuole superiori all’università era e doveva essere più importante degli altri. Il motivo, ancor oggi, mi sfugge. Le fasi di crescita sono sempre importanti e pensare che una sia prevalente sulle altre, mi risulta difficile. Comunque anche se io, allora come ora, non riuscivo a capirne il senso, la mia famiglia mi indicava chiaramente che non poteva che essere così. A sancire ancor di più la svolta fu, più di ogni altra cosa, l’acquisto di una nuova scrivania. Fu mio padre a decidere che, dato lo studio che mi accingevo ad affrontare, avevo bisogno di una nuova scrivania, grande.
Fino ad allora la mia carriera scolastica poteva dirsi soddisfacente. Certo, c’era stato un inciampo, allorché volli iscrivermi a tutti i costi al liceo scientifico, invece che ad un istituto professionale, secondo i miei genitori più adatto alle mie possibilità. Quell’anno fu forse il più importante della mia vita e la bocciatura che lo segnò la più grande lezione che abbia mai imparato.
Ero diventata grande e potevo fare come mi pareva. Così pensavo. Una nuova scuola, con persone che non mi conoscevano, mi davano una grande possibilità: mostrarmi diversa da come ero o come sembravo essere fino a quel momento. Potevo nascondere la mia insicurezza dietro una corazza di spavalderia e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Il trucco funzionò, sin troppo bene: recitai talmente bene la mia parte, che nessuno ebbe mai dubbi sul fatto che fossi una “cattiva ragazza”; tanto da finire l’anno con una bella bocciatura. Eppure, gli spettatori non dovevano essere troppo attenti: a ben vedere un buon attore non calca mai il suo personaggio come feci io. Non ho mai capito cosa volesse dire per la mia famiglia quella bocciatura. Da un lato, sembrava fosse un anatema, la vergogna per una famiglia di media borghesia così rispettabile come la nostra. D’altro canto, tuttavia, sembrava la cronaca di una morte annunciata, quella delle mie possibilità. Chissà per quale motivo, nessuno credeva che potessi farcela ad affrontare un liceo impegnativo come lo scientifico. Evidentemente neanche io. Rassegnata e senza altre possibilità, consegnai ai miei genitori il pieno potere sulle decisioni che in quel momento riguardavano la mia vita. Al solo ricordo, provo ancora quella sensazione di vergogna, di grande impotenza e di piena sottomissione alle loro decisioni. Così, fui iscritta ad un istituto professionale.
Lì per lì non mi resi conto di quanto avessi imparato con l’esperienza dell’anno precedente, né di quanto quell’insegnamento mi fosse stato utile. Avendo dato ampio sfogo a tutta la mia rabbia ed al mio bisogno di libertà (in particolare rispetto a genitori iperprotettivi e possessivi), potevo trovare un nuovo punto di equilibrio, un nuovo modo di convivere con i miei limiti e le mie fragilità. Mi convinsi, quindi, sempre di più di non voler subire di nuovo una simile umiliazione e di voler dare a me stessa un’altra possibilità. Ormai il “danno” era fatto e non era più possibile dimostrare di valere abbastanza per un liceo. Il problema non era riparare un vaso rotto, ma decidere cosa fare di tutti i cocci; la soluzione non era ricostruire il vaso, ma pensare in modo diverso e provare a costruire un oggetto nuovo, con una forma completamente diversa. E così andai avanti, scegliendo di non sprecare un’altra possibilità. Certo, quella non era la via che avrei voluto, ma, in quel momento, la realtà mi metteva di fronte solo quella via, si trattava di abbracciarla o di respingerla. Decisi di abbracciarla. Il mio percorso in quella scuola fu esemplare. Ne uscii con un punteggio molto alto, nonostante un infortunio alla mano che penalizzò fortemente la votazione di alcune materie. Imparai molto anche in questa occasione: imparai a trovare nuovi equilibri, tra il tempo dedicato allo studio e quello dedicato a coltivare altri aspetti della mia vita, tra le mie paure e i miei desideri. Imparai nuove materie, che mi sarebbero state utili ad affrontare l’università. E nonostante tutto questo, ciò che risultava evidente era semplicemente che i miei genitori avevano avuto ragione: una scuola professionale era più adatta a me!
Dopo aver dimostrato di valere q.b., io e i miei genitori decidemmo insieme che avrei potuto iscrivermi all’università. Fu individuata un’Università privata, piccola, ma con un’ottima fama, che dietro il pagamento di una cospicua retta avrebbe seguito meglio i suoi studenti. Era evidente che avevo ancora bisogno di una mano che mi accompagnasse verso l’età adulta. E forse era davvero così: non so se sarei stata in grado di affrontare il passaggio da una piccola scuola di periferia ad una delle più grandi Università italiane con sede a Roma. Università in altre città rappresentavano, ovviamente, un tabù. Così feci i test d’ingresso per entrare alla LUISS. A quei tempi, per entrare all’Università erano previsti test di cultura generale e d’intelligenza. Passata brillantemente la prova d’ingresso, si doveva scegliere la facoltà. La scelta era fra Economia e commercio, Giurisprudenza e Scienze Politiche. Mio padre avrebbe voluto che mi iscrivessi ad Economia e commercio; a me sembrava un po’ troppo tecnica. Giurisprudenza, al contrario, mi sembrava un po’ troppo teorica. Scelsi Scienze Politiche, che consideravo una sorta di via di mezzo tra la teoria e la pratica. I miei acconsentirono, questa volta senza difficoltà. A quel punto non rimaneva che iniziare.
Fu un sabato mattina che mio padre andò in via dei Coronari e, tra tante, scelse la scrivania che avrebbe accompagnato il mio percorso universitario. Iniziò così una nuova fase: una scrivania davanti ad una finestra, libri sopra e scarpe sotto. Mentre leggevo, sottolineavo e prendevo appunti, per gli esami prima e per la tesi poi, le mie scarpe, qualunque fosse la stagione, “scappavano” via dai miei piedi. Ogni volta che mi sedevo a studiare, dopo un po’, mi ritrovavo stranamente senza scarpe. Da sempre ho amato camminare scalza, ma quando studiavo, anche stando ferma e seduta, sentivo un impulso incontrollabile di essere senza scarpe. Non potevo fare a meno di sentire i piedi nudi, a contatto con il legno del parquet. Così, quando mi prendevo una pausa, mi alzavo e camminavo scalza, continuando a godermi quella sensazione. Immancabilmente arrivavano i rimproveri e, troppo pigra per chinarmi sotto la scrivania a riprendere le scarpe, ne prendevo un altro paio. Alla fine della giornata vi erano più scarpe sotto la scrivania che libri sopra. E così è andata avanti, giorno dopo giorno, fino alla laurea, con il massimo dei voti.
Quando mio padre portò a casa la scrivania ci tenne molto a specificare il motivo dell’acquisto: doveva servire “esclusivamente” per il mio studio, quella scrivania sarebbe stata solo mia. Oltre che un oggetto nuovo, era nuovo anche il concetto che l’accompagnava: avendo due fratelli, nulla di ciò che abitava nella nostra casa poteva dirsi di qualcuno. Nessuno, a parte ovviamente i miei genitori, poteva pronunciare la parola “mio”, se non per qualche indumento o paio di scarpe che, comunque, col tempo, finiva inevitabilmente per diventare una comproprietà. Benché la nostra fosse una famiglia benestante, noi figli eravamo abituati, nostro malgrado, a dividere tutto. Da quel giorno tutto, tranne la scrivania. Quella era solo mia. L’ebbrezza di avere finalmente una cosa tutta mia, non mi fece rendere conto al significato assai articolato di quel dono.
Innanzitutto, sanciva un traguardo: anche se da quel momento sarebbe partita una nuova avventura, io fino a lì c’ero arrivata. E con me, i miei genitori con i loro processi educativi (che, per quanto discutibili, avevano ottenuto un bel risultato). E chissà cosa rappresentava per mio padre la mia iscrizione all’Università? Ai suoi tempi, lui, primo di sei figli, un po’ scapestrato, anche se molto intelligente, nonostante la sua scarsa voglia di studiare, si iscrisse all’Università, Chimica. I risultati, i primi tempi, non erano stati molto brillanti. La sua filosofia sembrava essere passare gli esami, a prescindere dalla votazione. Poi conobbe quella che sarebbe diventata mia madre. Lei, titubante sul loro futuro insieme, gli disse che lo avrebbe sposato solo se avesse finito tutti gli esami, senza andare fuori corso. Così fu. Per lui, come per me, il futuro sembrava iniziare davanti a una scrivania.
L’occupazione della mia scrivania fu sistematica e durò per svariati anni, ben oltre la laurea. Era il mio spazio. In una casa dove tutto è di tutti, si faticava a trovare il proprio spazio. Di più, in età adolescenziale, spazio, confini e identità erano concetti che si toccavano fra loro creando una confusione disarmante. Da qualcosa bisognava partire ed io partii dallo spazio. Delimitare ed occupare il mio spazio e difenderlo contro tutti era un po’ come delineare me stessa. Tutto quello che era dentro il mio spazio era mio, ero io. Fuori, tutto il resto, diverso da me. Quella confusione di libri e scarpe mi era familiare, mi ci trovavo bene e mi rispecchiava. Ero convinta che quel disordine avesse un senso, il mio senso. Una sorta di mondo alternativo di Lewis Carroll: il mio paese delle meraviglie. Io solo avevo la chiave per entrarvi ed io sola potevo avventurarmi lì dentro senza perdermi (o quantomeno sapendo di poter tornare indietro). Questo era il mio grande segreto. Il mio potere.
L’importanza di difendere quella scrivania dalle ingerenze altrui è andata avanti nel tempo. Se prima il mio spazio era minacciato da fratelli e genitori col tempo la minaccia veniva da figli e marito. Lo spazio per le mie cose sulla mia scrivania diminuiva giorno dopo giorno. Di nuovo, ognuno poggiava lì le sue cose, rendendomi sempre più difficile lavorare ai miei progetti. Così un dolore antico veniva ravvivato sempre più e la rabbia per la mia impotenza cresceva sempre più. Le mie richieste di rispetto cadevano nel nulla ed anch’io sentivo di appartenere a quel nulla. Finché un giorno tutto questo cambiò. Quel giorno decisi di mettere la parte la rabbia, e di assumere un ruolo più attivo: se non ero vista era perché non mi facevo vedere. Così, presi tutto quello che non era mio e lo spostai altrove. Semplicemente. Avevo bisogno di spazio e se non mi veniva concesso, me lo prendevo. Mi riappropriavo di ciò che era mio e di me stessa.
Pian piano, ho acquisito la consapevolezza che nessuno poteva privarmi di qualcosa, a meno che io stessa non glielo permettessi. Pian piano ho capito che non era necessario difendere sempre ciò che era mio, per dimostrare che era mio. Bastava saperlo. Bastava sentirlo.
Non riuscivo a condividere la scrivania per paura che condividendo il mio spazio, questo sarebbe stato inevitabilmente occupato da altri ed io avrei perso ciò che era mio, finendo, col perdere, pezzo dopo pezzo, la mia identità. Ma le cose non potevano essere realmente così: non è temendo l’invasione degli altri e difendendosi ad oltranza che si prende coscienza della propria identità. Era vero esattamente il contrario: solo se sai dove sei, puoi esporti; solo se qualcosa ti appartiene davvero, la puoi condividere; solo con la condivisione si dà pieno valore alle cose più care, permettendo agli altri di goderne e di arricchirne il valore. Vale per la scrivania, per gli affetti e per la propria identità. Se si è consapevoli di sé non si ha paura di perdersi, perché si ha la certezza, prima o poi, di ritrovarsi.
Da quel giorno, la mia scrivania è di nuovo in disordine. Questa volta, però, il disordine non è solo mio. Ci sono pezzi delle vite delle persone a cui voglio bene. Pezzi che sono lì perché io ho deciso di condividere la mia scrivania, sicura che resterà comunque mia. Pezzi che in ogni momento posso decidere di mettere altrove. Ora non ho più bisogno di difendere quella scrivania, perché il mio spazio va ben oltre.
E’ questa l’eredità che mi ha lasciato mio padre: una scrivania davanti ad una finestra. Col tempo ho imparato ad alzare lo sguardo da quel pezzo di legno e volgerlo, oltre quella finestra, verso orizzonti più grandi.
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Il finale dà un senso a tutto il resto del testo. Un testo scritto molto bene.