Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Dicevi di amarmi” di Marisa Obletter

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Dai rumori e dall’odore che percepisco mi rendo conto di essere in ospedale. Riesco a malapena ad aprire gli occhi che sento molto gonfi. Vicino a me ci sono mia madre e mia sorella con suo marito. In fondo al letto due carabinieri parlano con un medico. Sento bruciare il viso, la mia bocca è gonfia, la mano sinistra è bendata e la testa mi sta scoppiando. Tutto il mio corpo è dolorante e sento varie fasciature che stringono. Mia madre sta piangendo. Richiudo le palpebre e le immagini si insinuano nella mia mente.

Era quasi mezzanotte quando Pietro è tornato a casa ieri e mi ha svegliata sbattendo la porta. Aveva bevuto di nuovo. Mi sono alzata dal divano, dove mi ero addormentata dopo averlo aspettato invano e sono entrata in cucina per scaldargli qualcosa da mangiare. Avevo preparato le lasagne alle verdure che lui adorava.
Odiavo queste situazioni, odiavo quando lui beveva. Quante promesse mi aveva fatto che non ci sarebbe più ricascato. Lo avevo supplicato più volte di farsi ricoverare in una clinica per disintossicarsi sul serio. Ma lui diceva che con il mio amore sarebbe riuscito ad uscirne da solo, dovevo solo avere pazienza, tutto si sarebbe risolto.
Negli ultimi sette mesi la situazione era peggiorata. L’impresa edile presso cui lavora, parlava di licenziamenti a causa della crisi economica. Per Pietro era diventato un problema insormontabile. Quasi tutte le sere tornava in condizioni pietose. Lo imploravo di ritornare alle sedute degli alcolisti anonimi, ma questa volta non voleva più andarci. La paura di vederlo ubriaco e di subirne le conseguenze stava creando in me delle vere e proprie crisi esistenziali, il non potermi fidare dell’uomo che amavo mi distruggeva, il non-sapere come sarebbe tornato a casa era angosciante. Le sere “sobrie” ormai si contavano sulle dita di una mano ogni mese.

Ieri era strano, aveva un sorriso sarcastico stampato sulla faccia. Non l’avevo mai così. Mi sono sentita rabbrividire.
Mentre sistemavo le lasagne nel piatto si è avvicinato e mi ha messo una mano fra le gambe. L’ho scostato bruscamente dicendogli di sedersi e mangiare. Odiavo che mi toccasse in quelle condizioni. Ci aveva provato più volte negli ultimi tre anni, ma non era mai andato oltre dopo che gli rimarcavo un no secco. Ieri era diverso. C’era tanta rabbia sul suo volto. Ha preso il piatto scagliandolo contro il muro. Mi ha afferrata per un braccio e mi ha scaraventata a terra. Mi ha strappato la camicia da notte e si è buttato su di me. Ero terrorizzata. Non conoscevo quest’essere spregevole e mostruoso che mi insultava. Urlavo di lasciarmi stare, di smetterla. Mi teneva ferma e mi picchiava con estrema ferocia. Ho cercato di liberarmi graffiandolo in faccia, ma ho attizzato ancora più la sua voglia di violenza. Dopo una lotta impari ha dato sfogo ai suoi bisogni animaleschi nel modo più brutale possibile. Sentivo il sangue colare lungo la guancia e la mano, con cui mi sono coperta il viso prima che riuscisse a sfregiarmi con una scheggia del piatto rotto, aveva un taglio profondo. Mi faceva schifo. Gli ho sputato in faccia. Lui si è alzato, ha preso uno dei miei vasi e me lo ha frantumato in testa. Un dolore fortissimo e poi il buio.

Ci conoscemmo nove anni fa in un pub della capitale e Cupìdo ci trafisse con le sue frecce magiche. Dopo neanche un anno convolammo a nozze con una miriade di progetti per il nostro futuro e un amore grande da vivere insieme. Ma tre mesi dopo l’inizio del nostro idillio subentrò nella mia vita lo spettro dell’alcol che fino a quel momento Pietro era stato abile a nascondermi. Una sera tornò dal lavoro ubriaco. Era la prima volta che lo vidi cosi. Non era il mio Pietro dolce e amorevole di sempre. Quello che tornava con un bel sorriso e un “ti amo stellina”. Era trasformato, il suo viso tranquillo era stato soppiantato da una maschera sofferente e rabbiosa, le sue parole erano farfugliate a caso, i movimenti erano scoordinati. Quella volta si limitò a vomitare in mezzo alla cucina. Passarono due anni in cui queste situazioni si fecero sempre più frequenti. Si susseguirono schiaffi e pugni con tante scuse, lacrime e promesse che non sarebbe mai più successo, fino al giorno in cui mi spinse giù dalle scale e finii all’ospedale con vari lividi e un polso fratturato. In quel momento avrei dovuto capire che dovevo denunciarlo, ma lo amavo ed ero certa di poterlo aiutare. Feci figurare la caduta come un incidente domestico e non dissi niente a nessuno. Tornai a casa e lo affrontai con fermezza. Non doveva mai più accadere una cosa simile. Gli feci capire che aveva bisogno di aiuto. Parlammo a lungo e decidemmo di rivolgerci ad un gruppo di alcolisti anonimi per avere un aiuto specifico e competente. Optammo per un centro a Roma. Non ci avrebbe conosciuto nessuno. Pietro aveva paura di perdere il lavoro se lo avessero scoperto. Abitiamo in periferia della capitale e per fortuna la nostra è una casa un po’ isolata. Ma in questo rione ci conoscono tutti e anch’io non volevo rischiare di farlo vedere sotto una cattiva luce per una cosa che ero certa di superare con la forza del nostro legame. Dopotutto con l’amore si risolve ogni problema.
Povera illusa!
Ci siamo rivolti a questo gruppo di auto-aiuto nelle vicinanze di piazza Navona. Nella prima seduta abbiamo ascoltato altre persone che cercavano di guarire dall’alcolismo. Ognuno di loro aveva iniziato con un abuso di alcolici per vari motivi, ma con lo stesso identico risultato; essere dipendenti e non avere più le redini della propria vita. Pietro si era presentato e aveva raccontato senza alcuna remora e in assoluta onestà tutto ciò che era successo negli ultimi due anni. Anche le percosse da me subite.
Il programma prevedeva dodici incontri a cui siamo sempre stati presenti e durante i quali Pietro non aveva più toccato l’alcol. Sembravamo rinati entrambi. Facevamo lunghe passeggiate in collina ogni fine settimana e quando tornava dal lavoro mi aiutava a rifinire le decorazioni dei vasi che mi commissionavano vari negozi di hand-made. Con il mio diploma di liceo artistico ero riuscita a crearmi un lavoro a casa. Era uno dei progetti per il nostro futuro: avere la possibilità di poter stare a casa a crescere i nostri figli pur lavorando in qualche modo. Ma non sono rimasta incinta. Sono passati otto anni di matrimonio e ora ringrazio Dio di non avere avuto dei bambini. Che infanzia avrebbero passato con i problemi di Pietro?
Abbiamo alternato mesi di tranquillità e di amore a mesi di umiliazioni e disperazione.

Bastava qualche appunto fatto dal suo capo, qualche battibecco con un collega o una multa per divieto di sosta o chissà quale inezia per scatenare la sua incapacità e fragilità nell’affrontare la quotidianità.
Si rifugiava nel solito alcol che anestetizzava ogni dolore e gli rendeva la vita più sopportabile per quei pochi attimi prima di far emergere la sua rabbia interna che perennemente sfogava su di me.

Ieri sera però, ha oltrepassato ogni limite di decenza e di sopportazione.

Sento mia madre che mi accarezza la mano destra e mi chiama. Apro gli occhi per quel poco che riesco. Vedo il suo sorriso splendere in mezzo al viso rigato di lacrime. Non ha mai saputo niente della mia situazione; non volevo farla soffrire. Quanto ho sbagliato a non rivolgermi a lei o a mia sorella. Mi vergognavo per Pietro e mi ero distanziata da tutti con la scusa che ero oberata di richieste da negozi sia italiani che esteri. Questo era vero, il mio lavoro procedeva a gonfie vele. Il mio matrimonio invece era in balìa di un oceano burrascoso. Fino a ieri sera ero fermamente convinta di essere all’altezza della situazione e di riuscire a sistemare tutto per il meglio. Avevo dalla mia parte i vari periodi più o meno lunghi di sobrietà di Pietro che mi davano l’illusione di farcela; mi bastava anche solo una settimana al mese di normalità. Ma era solo fumo negli occhi. L’alcolismo è una vera malattia e va affrontata con un supporto medico e qualificato. Non è possibile guarire da soli.

“Giulia, tesoro mio, non ti farò più tornare in quella casa. Perché non ti sei mai confidata con me? Pietro ha chiamato i Carabinieri e ha raccontato l’inferno che ti ha fatto passare. Ieri è stato licenziato assieme ad altri 14 colleghi ed ha ammesso di aver sfogato tutta la rabbia su di te.”

Richiudo gli occhi e spero che ora provvederà definitivamente a curarsi per non rovinare del tutto la sua vita. Ci vorrà tempo, volontà e costanza.

Ma io, questa volta, non sarò al suo fianco.

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4 commenti »

  1. Il tema è attuale e importante. È un bene che se ne parli. La tua scrittura è fluida e semplice, come piace a me: si fa capire da tutti, non ha bisogno di traduzioni. La storia è narrata con realismo e sentimento. Mi auguro che non sia autobiografica: per quanto è tangibile e ben descritta, la situazione sembra essere stata vissuta. Se lo analizzo dal punto di vista puramente narrativo, avrei cercato, forse non riuscendoci, di rendere la trama meno lineare e un po’ meno piena di informazioni. Al lettore a volte piace che non gli venga detto tutto. Avrei, insomma, messo a fuoco il particolare che ritenevo più importante e sfocato il resto. Ti chiedo scusa per questa mia osservazione e ti prego di capire che sto ragionando come se lo scritto fosse mio e qualcuno mi avesse chiesto di lavorarci su. La frase finale per me poteva essere il fulcro del racconto. È una frase che mi ha colpito. Ti chiedo ancora scusa e ti faccio i miei complimenti.

  2. Il messaggio che passa da questo racconto ( e che secondo me non hai sottolineato abbastanza) è che da soli non si può uscire da questo ginepraio. Decisamente impossibile, assolutamente irrealizzabile! Chi è succube del bere, della droga, del gioco d’azzardo non può ( anzi lo scrivo così) NON PUO’ essere aiutato da chi gli vuole bene! L’amore e l’affetto non riescono a guarire, anzi spesso ci rendono ciechi su quale sia la via più corretta da seguire. Abbandonateli! Lasciateli ! Dimenticatevi di loro! Che siano padri, mariti, figli non importa, abbiate il coraggio di allontanarli da voi, perché possono solo nuocere… Se ne hanno voglia sapranno da soli trovare chi può aiutarli, MA QUELL’AIUTO NON PUO’ VENIRE DA VOI, altrimenti avremo sempre più gente uccisa da questi imbecilli che innalzano altari a divinità spregevoli e nefaste…
    Ecco, secondo me Marisa, il tuo racconto doveva sviluppare un po’ di più questa parte del discorso, altrimenti la storia rimane un po’ piatta ( la solita storia della moglie innamorata che le busca dal marito ubriacone) : in questo mondo non c’è più posto per le vittime, per la violenza domestica o per l’omertà..
    Quando la nave affonda, va abbandonata.
    E l’amore? Ma che amore e amore! A certi livelli l’amore non esiste più, ma diventa rassegnazione, sacrificio,…martirio.
    Era questo che dovevi urlare ( secondo me! ) Marisa…
    Ti faccio i miei complimenti per questo racconto ( sul quale come vedi mi sono un po’ infervorata ) e anch’io spero non sia autobiografico, ma se anche così fosse dalla tua nuova consapevolezza non può che nascere un luminoso futuro. In bocca al lupo.

  3. Ciao Costantino,
    grazie mille per il tuo commento. Apprezzo moltissimo la tua osservazione, niente più di parole oneste può essere costruttivo. Non è proprio il caso che ti scusi, le opinioni degli altri sono da sempre una spinta per migliorare. Grazie ancora.

  4. Bellissimo racconto scritto con garbo nonostante la “violenza” del tema.Complimenti e in bocca al lupo

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