Premio Racconti Nella Rete 2016 “Regent Street” di Nicola Matteucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016La Londra di quei giorni non era lontanamente paragonabile alla sguattera arricchita di duecento anni prima. Ma di notte tornava con quel suo sguardo sinistro, alla tenera luce dei lampioni che rimbalzava fra una mattonella umida e l’altra. Da ore Regent Street aveva finito di vendere i pezzi della propria anima, come ormai faceva dalla fine della guerra. In quell’armonioso scintillio si palesavano le ombre aguzze di quella massa informe di negozi ed edfifici. James camminava con le mani in tasca alla sua giacca in jeans; teneva la testa quasi china, come se i suoi pensieri costituissero un ostacolo ben più grande del mondo circostante. Ormai, passata la mezzanotte, era arrivato il trentesimo anniversario del fatto che gli aveva cambiato per sempre l’esistenza. Intanto alla luna, che doveva essere piena, era stato fatto il torto della nebbia, umida come le lacrime versate in cento guerre, la quale lasciava la mente di James in balia dei suoi spettri. Ma lui non aveva paura. O meglio, ce l’aveva, ma era la paura di non essere condannato. Già a qualche metro di distanza dall’Oxford Circus, ossia il punto di non ritorno, le vetrine dell’Hamleys servivano senza vassoio il ghigno irritante dei pupazzi in esposizione. Le loro pupille, senza iride e sentimento, facevano da contorno ad un sorriso maligno. Per quel gioco sadico che si sarebbe profilato, serviva un pubblico inanimato. James era sempre più vicino ad Oxford Circus, quando d’improvviso sembrava ci fosse il vento. Ma quel vento non aveva temperatura, direzione, forza. Sembrava più una voce usurata negli anni. L’ormai sessantenne, più logorato dal tempo che dai rimorsi, si fermò un attimo. Ascoltava attentamente. Sapeva che perlomeno in questo Universo niente è dovuto al caso, forse nemmeno il caso stesso. Quei sospiri eterei raggiungevano via via dei picchi, poi si interrompevano, poi ricominciavano da capo. Quelle oscure onomatopee assomigliavano vagamente ad un “C’mon!”, come se qualcosa avesse fretta di chiudere un’epoca. Quello che aveva fatto James, e lui lo sapeva bene, era imperdonabile. Non tanto il motivo intrinseco della sua colpevolezza, ma la sua incoscienza nel tentativo di rimediare. Trent’anni prima di quella notte, quando i piccoli negozi delle piccole menti borghesi avevano ormai perso definitivamente la battaglia con le grandi cupole in pietra di Portland, la nebbia non c’era. C’era invece il fumo dei lords, il chiacchiericcio della vanità, l’accartocciarsi dei pacchetti e le mostruose panoramiche su tutto ciò che era prigionia nel libero arbitrio degli uomini. Johanna -e mai chioma bionda fu più irresistibile, mai più nacque una giovane ingenua la cui pelle odorasse di ciliegia- correva incontro ad un giovane James. In quel momento, ahimé, stavano avanzando come una sorda locomotiva i cavalli neri di un cocchiere che trasportava il corpo grasso di un signorotto che voleva dare un’occhiata all’area per i suoi futuri investimenti. Tutto ciò che investì era la povera Johanna, le cui viscere ribollirono fuori dal ventre, schiacciate dalle ruote del carro. James negli anni non si era mai dato pace. Per farla breve, un giorno, venuto a conoscenza di una vecchia signora che operava nella periferia di Londra, decise di rievocare ciò che aveva perso. E dovette farlo sul luogo della strage. Forse desiderava poterle dire addio, o forse sperava in qualcosa di più. Ma si sa: chi torna non è mai come lo si ricorda. James evidentemente di questo non teneva conto. Per molto tempo non accadde nulla, quando un giorno, mentre spostava dei mobili, rinvenne un biglietto con su scritto “Stazione di Oxford Circus, 1 Novembre 1965, poco dopo il rintocco della mezzanotte”. Ormai James era nell’occhio del ciclone: quel rombo di tuono era ormai il sibilo di un serpente invisibile, una promessa malsana che sarebbe stata mantenuta da lì a poco. James arrivò finalmente sul posto. Imboccò il sottopassaggio, si iniziava a sentire l’odore del piscio ovunque. Girandosi vide usbito una sagoma, si mosse improvvisamente! Ma era soltanto un barbone che riusciva a malapena a parlare. Sbucò dall’altra parte, la testa, dapprima china sulle scale, si alzò ed il corpo si arrestò di getto. Non era lei, Johanna, ma una donna altrettanto bella, forse di più. “C’mon” ripeteva, ma senza aggiungere altro, senza attribuire alcuna enfasi a quelle parole che uscivano dalla sua bocca senza essere accompagnate da un filo d’aria. James era tanto incredulo quanto spaventato, ormai non sentiva neanche più il suo cuore battere. Già, ma c’era un motivo. Mentre la fanciulla sorrideva, la gola del sottopassaggio iniziò a riempirsi di sangue. James cacciò un urlo. Poi sollevò i palmi delle mani. Il sangue usciva dai suoi polsi, la sua pelle via via si faceva candida come la neve. “Quel sangue era solo un prestito”, disse improvvisamente, nel frastuono delle ombre, la donna, ora sorridendo più di prima. E il mondo si accartocciò, il freddo e il cadlo erano divenuti l’illusione di una tela ormai gettava via dal suo sadico pittore. Quel pittore era James, il quale si era ricordato che la disperazione lo aveva portato, dopo qualche mese da quella notte, a privarsi di tutto il suo rosso.
La donna tese la mano all’uomo, il quale ricambiò con il suo arto sgorgante. Egli non aveva fatto altro che rievocare se stesso. E aveva capito di essere tornato, per sempre diverso da prima, prima di essere ripescato dall’illusione da chi vegliava le ombre. L’Universo inghiottì se stesso in quel preciso istante, e fu un buio cui i morti hanno consapevolezza.
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Complimenti, Nicola, hai dipinto un quadro gotico e surreale!!
In poche righe molta suggestione, niente di scontato e belle immagini. L’ho letto con piacere. Molti auguri.
Alberto Pesi (Il ritorno)