Premio Racconti nella Rete 2016 “Metropolitana” di Paola Limatola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Seduto sul sedile che gli era stato ceduto dalla signora bionda un po’ in carne, Mario sentì gli occhi inumidirsi e provò imbarazzo.
Era proprio uno stupido! Commuoversi per una sciocchezza come quella, e davanti a tutti! Diventare vecchi era una vera iattura.
Si guardò intorno.
A parte la signora bionda, quando era entrato nel vagone nessuno era sembrato accorgersi del suo passo malfermo e dello sguardo famelico col quale si era aggrappato al corrimano per mantenersi in equilibrio. Adesso, invece, aveva l’impressione che tutti lo fissassero.
Forse non proprio tutti, non la ragazza con la treccia e l’uomo con la ventiquattrore ai piedi, talmente presi dallo schermo dei loro cellulari che non avrebbero alzato lo sguardo nemmeno se nella carrozza fosse entrato un marziano; eppure, gli sembrava che la donna seduta sul sedile di fronte lo stesse squadrando. Non poteva averne la certezza, perché grandi lenti scure nascondevano la direzione del suo sguardo.
Strizzò gli occhi, cercando una conferma alla propria percezione: la donna era immobile e appariva concentrata, come se stesse accadendo qualcosa che meritasse una grande attenzione.
Alle proprie spalle Mario aveva solo il finestrino, al di là del quale s’intravedeva il muro di cemento che scorreva insieme ai binari. Escludendo che guardare una parete potesse essere d’interesse per qualcuno, si convinse di essere proprio lui l’oggetto di tanta curiosità.
La bocca gli tremò leggermente. Le lacrime non volevano proprio fermarsi, se le sentiva ormai sulle guance e doveva provvedere. Tirò fuori dalla tasca della giacca un fazzoletto piegato e, senza aprirlo, lo usò per tamponarsi il viso. Scostò un poco gli occhiali e il cotone lambì il bordo inferiore delle palpebre. Prima la destra e poi la sinistra, con gesti misurati per non farsi notare. Che quella donna guardasse pure, se proprio ci teneva: tra qualche fermata si sarebbero separati per sempre e tutto quello che lei avrebbe potuto raccontare erano le lacrime di un uomo senza nome e senza identità in metropolitana. Non gli importava.
Fece un sorriso di gratitudine alla signora che l’aveva fatto sedere e la guardò con più attenzione. Avrà circa quarant’anni, pensò, e si è alzata per me. Si guardò intorno, per cercare conferme ai suoi pensieri: sì, c’erano parecchi ragazzi che avrebbero potuto compiere il gesto di far sedere un anziano, come sarebbe stato normale in un paese civile, come lui stesso aveva fatto sugli autobus in gioventù, ma non si usava più. Ai suoi tempi, alzarsi era un riflesso condizionato, una forma di rispetto che i genitori inculcavano ai figli anche con l’aiuto di qualche gomitata assestata al momento giusto allo scopo di richiamarli al dovere, se mai sull’autobus si fossero distratti e fossero rimasti seduti lasciando in piedi una signora carica di buste o un uomo affaticato. Educati male e viziati, questo pensava dei giovani che osservava quotidianamente, poco abituati a fare attenzione agli altri. Col passare degli anni si sarebbero resi conto anche loro di cosa voleva dire avere dolori dappertutto e sentire i propri piedi lamentarsi: forse allora, guardando gli esponenti delle nuove generazioni immobili e sbracati sui sedili, si sarebbero rammaricati di aver svolto nel peggiore dei modi il loro ruolo di educatori.
Non doveva essere così duro, si rimproverò. Forse, visto da fuori, non sembrava così malridotto e così bisognoso di attenzione. I capelli bianchi c’erano, questo era vero, sopra una fronte spaziosa e un paio di occhiali spessi poggiati sul naso e sorretti da due orecchie molto solide. La pelle era segnata dal tempo ma non così rovinata da farlo sembrare irrimediabilmente vecchio. Nonostante i dolori, aveva la schiena diritta e due gambe che avevano molto camminato anche se allo sguardo apparivano in buone condizioni.
Quel giorno indossava un paio di pantaloni e una camicia a quadri con sopra una giacca dalle tasche ampie nelle quali, oltre al fazzoletto, teneva il portafoglio e le chiavi di casa. Un portacellulare azzurro da collo gli finiva all’altezza del petto, per essere sempre raggiungibile nel caso un figlio l’avesse cercato. Un apparecchio piccolo con funzioni limitate, telefonate e messaggi da scrivere con dita incerte quando non se ne poteva fare a meno. Nulla a che vedere con quelle cose moderne, non gli sarebbe bastata una vita intera per capire come maneggiarli.
Mario si guardò intorno e, di nuovo, sentì che gli occhi gli prudevano. Altre lacrime… non era possibile!
Va bene, si era commosso perché aveva incontrato una donna gentile ma doveva proprio smetterla di piangere. Riprese in mano il fazzoletto e asciugò le gocce di sale che avevano appena lasciato le ciglia.
Chissà che avrebbe detto sua moglie! Clara l’avrebbe preso in giro, ne era sicuro. Loro due scherzavano sempre, l’avevano fatto fino all’ultimo, proprio come quando avevano vent’anni. La loro storia era cominciata con il sorriso e con il sorriso era finita. “Sei sempre il mio bel ragazzo”, gli aveva detto prima di entrare in sala operatoria per l’intervento che se l’era portata via. Se lo sentivano, tutte e due, che sarebbe finita quel giorno. Anche se i dottori avevano spiegato che i rischi dell’intervento erano elevati, Clara non aveva avuto dubbi. Non era vita, quella, doveva provarci. Prima di andarsene lo aveva guardato diritto negli occhi e gli aveva fatto una carezza che era il riassunto della loro vita insieme: forte e dolce nello stesso tempo.
Se Mario chiudeva gli occhi, anche adesso, seduto in metropolitana, poteva sentirla. Come se Clara, dopo i giorni interminabili che avevano scandito i suoi quattro anni di vedovanza, fosse ancora lì a fargli coraggio e a sostenerlo.
Riaprì gli occhi e cercò di fermare il senso di vuoto che gli aveva afferrato lo stomaco. Perché non riusciva a rassegnarsi? Si sforzava di portare avanti una vita monca, si aggrappava alle cose belle che aveva. Molti non avevano più neanche quelle o non le avevano mai avute. Figli, nipoti, qualche amico per fare due chiacchiere, un libro, un film in televisione, una bella giornata di primavera. Doveva bastargli. Aveva i suoi ricordi, quelli non poteva toccarglieli nessuno, ed era già molto.
Si guardò intorno: uomini e donne in transito avevano quasi riempito il vagone. Scrutò i visi, trovando in ciascuno segni di crucci e debolezze o anche, più raramente, di felicità. Una ruga, una piega amara delle labbra, un guizzo degli occhi, caviglie gonfie e palpebre pesanti di sonno non consumato. Tutti, anche i più giovani, avevano in viso i segni inequivocabili che lasciava la vita con il suo scorrere.
La signora bionda gli fece un cenno di saluto mentre si avvicinava alla porta, preparandosi a scendere alla fermata successiva: senza emettere suono, le labbra di Mario composero la parola “grazie”. Lei scosse la testa, come a dire che non aveva fatto niente d’importante e che non c’era bisogno di ringraziare, e poi scese.
Altroché, pensò Mario: mi hai visto, altroché se è importante. Se lo facessero tutti, se tutti vedessero, invece di limitarsi a guardare, il mondo sarebbe diverso.
Subito si rimproverò: quanta banalità! La vita è imperfetta, fare il moralista non era da lui. Essere concentrati su se stessi è una cosa assolutamente normale. Il fatto di aver ceduto ai più anziani il posto in autobus non lo rendeva migliore degli altri. Quante volte avrebbe potuto essere più attento e più comprensivo, avrebbe potuto tendere una mano, e non l’aveva fatto? Sicuramente moltissime e non ne era stato neanche consapevole. Non era umanamente possibile tenere conto di tutto.
Pure, ogni tanto capitava di avere l’occasione di fare qualcosa di grande, di accogliere gli altri nella propria mente e nel proprio cuore e di scaldarli, anche per un solo minuto. Quando accadeva, ci si sentiva migliori.
La voce di Clara gli fu nelle orecchie: “Stai invecchiando proprio male, ragazzo. Davvero! Non me lo sarei aspettata da uno come te. Esci, fatti una passeggiata, guarda i colori e goditi il sole. Comprati una vaschetta di fragole e mangiale anche per me. Smettila di piangerti addosso. Invita a pranzo i tuoi nipoti per domenica e mettiti in cucina. Insomma! Vivi e falla finita con tutte queste sciocche malinconie!”
Mario, improvvisamente, sorrise. Aveva ragione lei, come al solito, e bastavano due parole per rimetterlo al suo posto. Sì sentì di nuovo pieno di energie e decise che sarebbe sceso alla fermata successiva per andare a comprare un cestino di fragole: le avrebbe sciacquate alla fontanella e le avrebbe mangiate al sole, seduto su una panchina.
Si alzò con un po’ di fatica per mettersi davanti alla porta e fissò la signora con gli occhiali scuri, sorridendole: se si era intrufolata nelle lacrime di un anziano, l’offerta di un lampo di serenità avrebbe potuto aiutarla a rimettere a posto le cose. Nel suo mondo, evidentemente, gli uomini non piangevano in pubblico. Mario pensò di doverla rassicurare e, in un certo senso, di doverla risarcire per il fuori programma che le aveva offerto.
Si fece largo tra i passeggeri e guadagnò una buona posizione, non voleva rischiare che qualcuno, nella fretta di entrare, gli facesse perdere la fermata.
Inaspettatamente, una mano lo toccò sulla spalla.
«Mi scusi… Lei è il padre di Antonio?»
Saldamente aggrappato al corrimano, volse leggermente il capo nella direzione della voce. La signora con gli occhiali da sole era in piedi dietro di lui e lo guardava negli occhi. Si senti confuso e non riuscì a rispondere. In quel momento non avrebbe saputo dire quale fosse il nome del figlio, tanta era la sorpresa.
«Venga, l’aiuto a scendere.»
La donna l’afferrò per il braccio, lo sorresse e lo condusse fino alla scala mobile.
«Mi scusi per gli occhiali, ho una brutta congiuntivite. Sono Patrizia, si ricorda di me?»
Mario annuì convinto. Salirono, lui davanti e lei dietro, e mentre andavano verso la luce si accorse di non sapere ancora come si chiamasse il figlio.
Forse non voglio saperlo, pensò, non adesso.
«Le andrebbe di mangiare delle fragole con me? Stavo giusto andando al mercato a comprarle. E’ una bella giornata, potremmo sederci su una panchina e mangiarle insieme. Se ha tempo…»
Patrizia annuì. Lavò le fragole che Mario volle pagare a tutti i costi si sedettero sulla panchina.
La donna gli raccontò di Antonio, della loro comitiva, degli scherzi che facevano a scuola e di come poi, ciascuno di loro, fosse cresciuto e avesse preso la propria strada. Anche lei si era sposata e aveva una figlia.
Mario l’ascoltava attento, pronunciando ogni tanto una parola per confermare un giudizio o un’opinione.
Le fragole avevano un sapore speciale e lui non avrebbe proprio voluto rovinarlo.
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E’ ‘il posto delle fragole’ (Ingmar Bergman ) quel che esce fuori da questa metropolitana.L’ho letto come nel film..come fossi poggiata all’albero del giardino…
Scritto molto. Dolce e romantico.
Non avrei indugiato “su i giovani di oggi maleducati “,ma è la mia umile opinione. Davvero un bel racconto!
Se ti va, leggi il mio!
È un viaggio interiore molto dolce e delicato… forse neanche io avrei fatto entrare nei pensieri di Mario la frase ripetuta troppo spesso dagli anziani di oggi sulla maleducazione dei ragazzi… è troppo dolce per pensarlo e infatti poi cambi idea! ???? Comunque questo racconto addolcisce l’umore e il finale da speranza.
Ciao, scusa… volevo scrivere :scritto molto bene…