Premio Racconti nella Rete 2016 “Conversazioni col tarlo” di Maria Laura Mura
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016La campana risuonò tre volte, poi arrivò il silenzio. La ragazza che abitava davanti casa si era trasferita; non potevo neanche più sbirciare da dietro le tende, né potevo più sentire quegli urletti di piacere ogni qual volta arrivava un uomo, né quelli di rabbia ogni qual volta non si faceva più vedere. La sua vita non era di certo entusiasmante, ma per qualche motivo mi attirava, e dire che lei non era neanche bella, ma vista da lontano, come tutto del resto, mi pareva interessante. La sua sagoma si muoveva in quell’appartamento spoglio, spoglio come le mie giornate in quel periodo. Mi divertivo a spiarla, a prenderla in giro tra me e me, quando sentivo odori non molto gradevoli provenire dalla sua cucina, e mi chiedevo cosa sarebbe accaduto un giorno se l’avessi salutata anche solo con un cenno, ma fino ad ora non ne trovavo il coraggio. Chiuso nel mio appartamento prestavo ascolto solo al mio cervello baritono, passeggiavo su e giù per la mia stanza piena di scartoffie, fogli arrotolati, lettere scritte e mai spedite, quadri di poco valore e calendari che ricordavano un tempo mai vissuto, memori di giorni spenti e sempre uguali. Ogni giorno mi riproponevo di buttare tutto, ma poi non lo facevo mai, del resto cosa sarebbe cambiato? Nel disordine ritrovavo pensieri e parole non dette, pallidamente ricercavo qualcosa di cui ignoravo il significato, vagavo senza mai muovermi e creavo figure vacue col fumo delle mie sigarette scadenti. Ah, il catrame non aveva cementificato solo i miei polmoni, ma tutti i miei organi vitali, le mie aspettative, le mie speranze! L’unica cosa che dava colore alla mia vita era la mia vicina, ma oramai anche lei se ne era andata. Che fare? Stetti per due ore sdraiato sulla mia brandina a fissare la macchia di muffa sul soffitto e molto probabilmente mi addormentai, quando fui svegliato dal rumore del camioncino della spazzatura. Allora mi affacciai per vedere gli omini della notte che ripetevano meccanicamente ogni sera quello stesso movimento, e io ingenuamente mi compiacevo di aver dato loro lavoro con i miei rifiuti, se avessi avuto l’ardire di buttare anche quei fogli sbiaditi e quei calendari, forse avrebbero alzato il capo e mi avrebbero sorriso, mi sarebbero stati riconoscenti. Ritornai sul mio letto e li salutai col pensiero, dando loro appuntamento alla sera seguente. Poi come ogni sera, prima di andare a dormire, mi fumai una sigaretta e tentai di scarabocchiare qualcosa su un foglio, che immancabilmente venne appallottolato e gettato via. Spensi la luce e, inappetente di fare, iniziai a rigirarmi nel letto sinché non mi addormentai. Dovevo dormire di gusto perché quando mi svegliai non capii se ciò che mi accadeva fosse o meno reale. Udii, infatti, un sibilo che chiamava il mio nome. Inizialmente pensai che fosse la radio dei vicini, ma poi capii che le onde, medie o corte che fossero, provenivano dal mio appartamento. Di riflesso misi la testa sotto il cuscino cercando di ricordare cosa avessi mangiato di così tanto pesante a cena e lì mi resi conto di non aver proprio toccato cibo, allora pensai che fosse la fame a farmi sentire ciò, ma non appena il mio pensiero si fu adagiato su questa convinzione, risentii nuovamente quella voce appena accennata. Cercai di urlare, ma niente, la voce non usciva e il mio corpo tremante fotografava il mio stato d’animo. “Chi è?” dissi. In risposta mi arrivò una risata appena accennata, allora portai la mia mano destra fuori dal letto e accesi la luce della mia vecchia bajour. Non vidi niente, ma nonostante ciò non mi tranquillizzai, eppure tutto era silente e immobile, cos’era stato allora? Stetti un po’ a vegliare e poi assicuratomi che non ci fosse nessuno con me, oltre la mia ombra, spensi la luce e mi riaddormentai. La mattina seguente, feci un’abbondante colazione, mi lavai con acqua calda e accesi la radio, sintonizzandola sulla stazione locale, dove di solito trasmettevano vecchie canzonette. Bene, era tutto nella normalità. Portai il mio flaccido corpo fuori dalla mia dimora e scesi le scale guardando dietro di me a ogni gradino fatto. Uscito per strada accesi l’ultima sigaretta del mio pacchetto e andai in primo luogo a comprarmene un altro, ma stavolta mi dissi: “Ne prenderò una qualità migliore”, richiamando al pensiero l’episodio della notte ormai trascorsa. Così feci, e la vecchia del tabacchi dovette spostare la sua mano, che tanto sicura s’era andata a posare sul pacchetto che chiedevo ormai da anni, per sospenderla a mezz’aria e con aria interrogativa e sorpresa chiedermi: “Prego?”. Io lievemente scocciato ripetei il nome delle mie nuove compagne e pagatele uscii. Stavo per tornare a casa quando decisi di passeggiare sul lungo viale che la costeggiava. Perso tra la folla mi pentii subito di aver avuto quella malsana idea e iniziai a sbuffare e ad accendere una sigaretta dopo l’altra, e fu così che mi feci trascinare dai miei pensieri sino a ritrovarmi in un quartiere isolato, a me ignoto. “Strano” pensai “anni che sto qui e non avevo mai visto questa zona”. Iniziai così la mia perlustrazione, quando mi imbattei in quella sagoma che da anni avevo spiato da lontano: s’era trasferita a soli pochi isolati dal mio! Mi avvicinai a lei con fare goffo e chiesi timidamente un accendino, conscio del fatto che la signorina in questione fumava più di un camino! Come previsto, sfoderò dalla tasca della giacca un accendino e sbadatamente mi diede da accendere, ma a discapito delle mie previsioni – ed ecco perché son lieto di non giocare d’azzardo o investire in borsa – mi rivolse la parola. Fui così stupito della cosa che non capii nulla di quello che mi disse e fui costretto a far cenno di sì col capo, sicché lei mi sorrise e mi disse: “Era ora!”.
“Ma di cosa?” mi chiesi io. Lei forse intuì o forse no, ed esclamò di nuovo, ma io preso dall’agitazione feci per andarmene dicendo semplicemente: “A presto”.
Lei interdetta mi guardò e con aria canzonatoria mi salutò appena, dandomi subito le spalle. Ma cosa mi era venuto in mente? Arrabbiato con me stesso per il mio fare impacciato, rifeci la strada a ritroso. Chiesi l’ora a un passante e appresi così che era già ora di pranzo. Entrai in una trattoria e ordinai un piatto di pasta e fagioli e del vino, scadente s’intende, d’altronde la mia misera pensione di maestro non mi permetteva granché. A dirla tutta, erano decenni che non mangiavo fuori casa e che mi trovavo in un posto dove ci fosse così tanta gente, quasi mi sentivo a disagio e iniziavo a chiedermi se avessi fatto bene ad entrare. Arrivarono vino e pane e con essi altri pensieri. Alla vista di quel vino, ricordai l’uscita con la donna che divenne la mia amante, tanti e tanti anni or sono. Ma il mio ricordo fu subito bloccato dall’arrivo della pasta, che mi ricordava il perché ero entrato lì: avevo una fame mostruosa e non volevo stare solo. Mangiai lentamente, di gusto, feci piccoli sorsi di vino e “mangiai con gli occhi” la vita reale, da cui avevo digiunato per troppo tempo, decisi così di ordinare anche il caffè e un dolce. Pensai che era stata una gran cosa entrare in quella trattoria, e quando me ne trovai fuori fui pervaso da un senso di malinconia, decisi allora di tornare a far visita alla ragazza, lasciata ore prima in quella via insieme a un grosso punto interrogativo e a tanti punti di sospensione. Stavolta camminai di buona lena e con spirito diverso: per la prima volta, dopo tanto, andavo in un posto perché là vi avrei trovato qualcuno, e infatti il caso mi assistette. La vidi mentre andava a gettare il sacchetto dell’immondizia, e allora sorrisi pensando che anche lei, come me, collaborava a dare lavoro agli omini che la notte la portavano via. Mi avvicinai a lei e feci per levarmi il cappello, come per omaggiarla, quando mi resi conto di non averne assolutamente uno, forse non lo portavo dai tempi delle mie scuole superiori: non avevo iniziato bene. La ragazza mi guardò così male, che pensai di darmela a gambe, ma il vino che avevo in corpo mi fece aprir bocca e sentii io stesso che stavo emettendo delle parole sensate. A quel punto lei allungò la mano e stringendola alla mia mi rivelò il suo nome: Maria. La ragazza aveva finalmente un nome, e pensare che per tutti quegli anni avevo immaginato si chiamasse Ada, chissà perché poi. Dopo che mi presentai a lei, mi resi conto di averle detto un nome che non era affatto il mio, ma non potevo di certo dirle: “Mi scusi, in realtà non sono Alberto, sono Arturo”, mi avrebbe preso per matto, e non avrebbe avuto tutti i torti. Alberto era il nome del padrone della trattoria in cui ero appena stato e non so per quale strano motivo in quel momento mi ero identificato in lui, era persino più vecchio di me. A questo punto i giochi erano fatti; avevo deciso: da quel giorno mi sarei chiamato Alberto. E così fu.
Scambiai con lei pochi convenevoli e a scapito di ogni previsione mi ritrovai a cena da lei. Chiacchierammo così tanto che mi sentii la bocca impastata e tutti i miei anni addosso, lei invece sembrava non stancarsi e trovava sempre di che dire, a guardarla bene era davvero bruttina ma la sua gestualità e il suo modo di porsi la rendevano terribilmente attraente. Scoprii allora che Maria era anche lei una maestra, che aveva la passione per l’arte e che passava i sabato pomeriggio per mostre e musei, magari a vedere anche per tre volte la stessa esposizione. In realtà, a parer mio, non ne capiva un granché, ma forse questo me la faceva piacere ancor di più. Aveva una risata contagiosa e un vizio tremendo: si schioccava in continuazione la schiena, cosa che mi infastidii così tanto che a un certo punto le urlai di smetterla; ma dopo, sentendomi fortemente in imbarazzo, decisi di congedarmi e lei non fece niente per trattenermi. La ringraziai e le augurai una buona notte, ma si vedeva che lei mi augurava tutto fuorché una notte serena. Tornai pian pianino a casa e forse allungai di proposito il tragitto. Tanta era la rabbia e la malinconia che mi pervadevano che mi ritrovai a vomitare per strada come un ubriacone, ma l’unica sbronza che stavo smaltendo era data dal mio modo di essere: ero diventato un animale agreste. Volevo tornare da Maria per chiederle scusa, ma pensai che si era fatto molto tardi e che avrei rischiato di infastidirla di più, così arrivai alla conclusione che lo avrei fatto il giorno seguente magari con un mazzo di fiori. Con questo pensiero nella testa mi avviai finalmente verso casa, ma quando misi la mano in tasca feci una brutta scoperta: avevo perso le chiavi! Iniziai a maledirmi e a dar calci al portone, ma un mio inquilino si affacciò trovando degli epiteti ancora più pesanti che fecero sì che mi sentissi uno sciocco. Mi allontanai da casa e passai il resto della notte sveglio, a vagare senza meta e a chiedermi per quale motivo non ci fosse neanche un tabacchi aperto. La mattina si fece attendere e quando arrivò lo fece pesantemente. Per prima cosa, accadde che un passante mi segnalò a un vigile, evidentemente lo turbò il mio fagotto di carne ammucchiato su una panchina, sicché mi trovai appena sveglio a dover spiegare come e perché mi trovassi in quella situazione a un uomo basso, tarchiato e dalla voce roca: risveglio traumatico che condizionò il resto della giornata. Dopo esser riuscito a formulare un qualcosa che fosse il più somigliante possibile ad un discorso, andai sotto casa dove disgraziatamente incontrai l’uomo che durante la notte mi aveva apostrofato in modi tutt’altro che lusinghieri e che non ci pensò due volte a rincarare la dose non appena ebbe capito chi fossi, a nulla valsero le mie scuse e giustificazioni. Stanco di sentirmi sempre messo sul banco degli imputati mi recai nella trattoria, dove avevo mangiato il giorno prima, e lì accanto alla ciambella e al caffè mi venne servito il mio mazzo di chiavi, che evidentemente mi era scivolato la volta precedente al momento di estrarre il portafoglio per pagare, mangiai con molto più appetito! Con la pancia e la tasca piena me ne andai verso casa, quando mi imbattei in Maria. Aspettava me? Era qui perché forse ce l’aveva su con me? Oddio, che fare? Sfoggiai il mio sorriso migliore e, cercando di sembrare il più possibile sicuro di me, la salutai cordialmente. Maria ricambiò e mi chiese se poteva salire, io istintivamente risposi di sì, ma un attimo dopo mi pentii della risposta data, pensando alle condizioni del mio appartamento; al che iniziai a dirle vergognosamente che doveva scusarmi se avrebbe trovato la casa in quello stato, ma lei mi fece cenno di tacere e mettendosi a ridere mi disse: “Alberto, non eri il solo a passare il tempo alla finestra!”, io arrossii e vanamente cercai di giustificarmi, ma lei stavolta trovò un altro modo per zittirmi. In un attimo mi ritrovai sul mio letto con Maria, che come un animale iniziò a spogliarmi e a sussurrarmi parole indicibili all’orecchio. Io, Arturo Pacecani, ero a letto con una ragazza di trent’anni più giovane di me! Quella donna era una strega: mi aveva trasmesso la sua bestialità e per la prima volta dopo vent’anni mi ero sentito giovane. Il suo alito caldo sul collo, i nostri corpi che si strofinavano, il piacere che provavamo mi avevano fatto dimenticare tutto il resto. Ci addormentammo abbracciati, ma al risveglio lei non c’era più, se ne era andata. Che avevo fatto? Perché non era ancora qui con me? Iniziai a piangere come un ragazzino, poi mi rivestii e andai a casa sua, ma Maria non c’era o almeno così mi fece credere. Rimasi sotto casa sua per cinque ore, ma di lei neanche l’ombra, arrabbiato e confuso tornai nel mio appartamento dove fumai un pacchetto di sigarette e bevvi del cognac, tra lacrime e vituperi contro Maria e me stesso. Esausto andai a dormire, quando nel mezzo del mio sonno mi svegliai per via dello stesso sibilo di due notti prima, spaventato accesi subito la luce e come la volta passata non vidi nessuno. Tirai un sospiro di sollievo e pensai che stavolta il carnefice della mia mente fosse l’alcool, e mi ripromisi di non bere più. Spensi la luce e mi rimisi a dormire, quando ecco che la strana voce si ripresentò, stanco di ciò urlai contro ignoti di abbassare il volume della radio e mi voltai sull’altro fianco sperando di riuscire ad addormentarmi. Ma neanche riuscii a finire di compiere questo movimento che mi sentii chiamare per nome, al che spaurito accesi la luce e mi iniziai a guardare attorno: i miei occhi, rossi dal pianto, diventarono due sentinelle. Ecco che sentii nuovamente pronunciare il mio nome e per la paura svenni, il mattino seguente mi risvegliai con un terribile mal di testa. Trascorsi la giornata a letto a fissare il soffitto e a sognare una sigaretta, avevo finito il pacchetto e non avevo la forza di andare a comprarne uno nuovo. La giornata passò così e non appena si fece buio iniziai ad aver paura, se con Maria mi ero sentito un ventenne ora mi sembrava di avere nuovamente sei anni, tutto raggomitolato sotto le coperte impaurito dal buio. Accesi la radio per distrarmi e per tenermi sveglio, ma la stanchezza mi gettò tra le braccia di Morfeo. La notte passò tranquilla, al mattino pensai che sicuramente era stato tutto frutto della mia immaginazione e risi di me. Mi alzai dal letto e dopo essermi lavato e aver mangiato un pezzo di pane duro più del marmo, scesi a comprare le mie amate sigarette. “Arturo Pacecani ha paura del buio? Arturo è tornato alla vita!”. Furono queste le parole che a fine giornata sentii nella mia stanza e che non mi permisero di dormire per un’intera settimana. Nel quartiere si sparse la voce che fossi diventato pazzo, questa notizia arrivò persino a Maria, tanto che venne di persona a sincerarsene. Quando la vidi in camera la trovai ancora più brutta e le dedicai una serie di parole che nel complesso non dovettero suonare proprio come un complimento, ed infatti Maria si arrabbiò e si occupò di dire in città che non c’erano dubbi: ero matto da legare! Nel giro di un mese mi ripresi e ritornai alla mia vita normale, ma ero ancora più solo di prima. Avvenne però una cosa singolare: una mattina sentii nuovamente quella voce, ma stavolta la sentenza fu diversa. Neanche le diedi modo di arrivare a fine frase che mi ritrovai a correre per strada come una furia, nella foga mi dimenticai di essere completamente nudo per cui venni arrestato e messo sotto sorveglianza medica. Il che da una parte fu un bene: mi permise di dormire tranquillamente per svariato tempo, ma tornato a casa la vocina si fece sentire ancora più insistentemente. Spazientito, decisi di risponderle e dissi: “Una volta per tutte, dimmi chi sei e facciamola finita!”, di tutta risposta la voce si rese silente. Il giorno appresso in casa mia un sacerdote benediva la casa. Ma non appena l’acqua santa andò sul mio armadio si sentì un urlo di rimprovero, che fece balzare il sacerdote fuori dalla porta di casa. Richiesi allora chi fosse l’impertinente che alloggiava da tempo in camera mia e dove si trovasse nascosto, fui immediatamente interrotto dal mio interlocutore misterioso che esordì in questo modo: “Io non sono affatto impertinente, è da tempo che cerco di parlare con te ma tu, ogni qual volta prendo parola, urli e ti comporti in modo strano. Non vedo il motivo di tanta agitazione, del resto sono io che mi ritrovo a essere svegliato dall’acqua, mica tu!”. A quel punto chiedo nuovamente: “Insomma si può sapere dove sei? Esci fuori, bast…”.
“Bada bene a come parli, Arturo!! Io non ti ho mai insultato e dire che di motivi ne avrei avuto, per anni ho dovuto fumare passivamente a causa tua, ho dovuto assistere al tuo accoppiamento con la maestrina e mi tocca vivere tra cumuli di carte e oggetti inutili!”.
Urla disumane coprirono la mia e la voce dell’individuo a me invisibile, era accorsa tutta la città alla notizia che persino il prete aveva avvertito quella presenza. Io non ero più pazzo! In prima fila, c’era la signora del tabacchi che con altre anziane signore pregavano a squarciagola e mi chiedevano scusa se fino ad allora mi avevano trattato come un matto, tutti avevano qualcosa da dire ed un’interpretazione da dare. Ma io volevo che mi lasciassero solo con la vocetta, che per poco non s’era rivelata, ma come fare? Escogitai così di avere un malore e poiché il medico mi consigliò di stare in assoluto riposo, tutti furono costretti ad andarsene, tutti fuorché una persona: Maria, che per mettere a posto la sua coscienza si propose di restare a vegliarmi durante la notte. Non appena il popolo urlante se ne fu andato mi scagliai contro Maria, ma la voce non gradì e s’intromise: “Alberto, non esagerare!”. A questa frase Maria svenne e dormì per tutta la notte. Al che ringraziai la voce e chiesi ancora chi fosse, ma non ricevetti risposta alcuna: forse, anche lei era affaticata dalle emozioni del giorno e si era finalmente addormentata, per cui ne approfittai anch’io per farmi un riposino. Il giorno dopo, casa mia era invasa nuovamente dalla gente che spinta dalla curiosità chiedeva di entrare, ma che volevano? Maria raccontò di aver sentito lei stessa quella voce, a cui però attribuì altre parole: disse che le aveva predetto una vita felice e non so quali altri accadimenti, insomma mentì spudoratamente. Fu in quest’occasione poi, che apprese il mio vero nome e fu grazie al fatto che disse che la vocina mi aveva chiamato Alberto che le sue parole perdettero credibilità e la gente la derise. Il che andò tutto a mio favore, perché nel giro di poco le persone si dimenticarono dell’accaduto, prese da altre chiacchiere malevole su un nuovo malcapitato mio concittadino.
Finalmente rimasi da solo in casa mia.
Per una settimana chiamai e stuzzicai la vocina in ogni modo, ma quella niente. Stufo, iniziai anch’io a dimenticarla, fino al primo giorno del nuovo anno, quando appeso il nuovo calendario udii: “E gli altri cosa li conservi a fare?”.
Io sbarrai gli occhi e, dopo aver augurato buon anno anche a questa strana entità, ricevetti la risposta che da tempo attendevo: “Sono nel tuo armadio!”.
“Nel mio armadio? Ma che razza di storia è questa? Basta esci allo scoperto, ne ho le tasche piene”.
E fu allora che la voce non trovò un volto, ma diede una svolta alla mia triste e anonima vita.
“Non penso che tu avrai mai la possibilità di vedermi o di farmi chissà cosa” rispose “perché io sono un tarlo!”.
A quel punto non sapevo più se ridere o piangere, era mai possibile che la mia fantasia non fosse mia alleata in nessun tipo di arte, ma mi fosse nemica nella vita reale?!
Cosa si rispondeva a un tarlo: “Piacere”?
Ma piacere di cosa? Stetti per un po’ in silenzio, quando lui mi precedette dicendomi: “Sono un tarlo sì, e allora? Son forse io la creatura più terribile che tu abbia mai incontrato? Son forse io il tuo tarlo più grande?”.
Ebbene, a quelle parole qualcosa in me mutò e dai miei occhi iniziarono a zampillare delle lacrime, che ebbero il potere di dissetare la mia mente e il mio animo. Il mio fascio di nervi si rilassò e diede vita ad una composizione astratta, che non avrebbe mai trovato una cornice, perché mai più mi sarei dovuto sentire vincolato a qualcosa e soprattutto ai mie pensieri. Iniziai a ridere e a spogliarmi, ma poi ricordandomi di non esser solo in quella stanza, mi coprii di vergogna come una vergine.
Non considerai neanche per un istante l’ipotesi che fossi un pazzo, ma abbracciai con sollievo l’idea di aver trovato un confidente, diverso dalla mia ombra. Con lui non potevo appellarmi alla proverbiale frase “l’abito non fa il monaco”, non potevo guardarlo dritto negli occhi e sapere quale pensiero vi si nascondesse, non potevo fare molte cose ma ero sicuro che molte ne avrebbe fatte lui per me. E infatti: “Innanzitutto” esclamò “penso sia arrivato il momento di liberarti di tutto questo vecchiume che ti circonda. Questa casa è la prova che ti manca il coraggio di fare molte cose… Per una buona volta, fatti delle domande e trova le risposte!”.
A quelle parole sussultai e iniziai a deriderlo: “Sei forse un oracolo?”.
La giusta punizione arrivò con il suo silenzio.
La notte, pensai e ripensai alle sue parole e mi sentii ribollire dentro il sangue: che ne poteva sapere lui della mia vita, che ne poteva sapere della vita?! Ma perché ovunque andassi ero destinato ad incontrare persone che credevano di aver forgiato la loro lingua a Delfi?! Che male avevo fatto, cosa potevo fare per liberarmi della sicurezza altrui e per acquisirne una mia? Mi sarei aperto la calotta e avrei banchettato con i brutti pensieri pur di non essere ossessionato da loro. Non c’era né trama né intreccio, non c’era corpo poetico nella mia vita, c’erano solo momenti allitteranti che perpetuavano il mio stato d’animo. Avevo il cuore vestito di condensa e non c’era nessuna finestra da aprire per rinfrescarne le pareti. Sentivo che il mio essere da tempo si era corroso e con esso ogni mia volontà. Ma quella strana e aliena conversazione aveva innescato qualcosa e sentivo che il mio orologio interiore iniziava nuovamente a ticchettare… Forse anche il buffo esserino che abitava abusivamente nel mio armadio ne sentì il ticchettio perché riprese a parlarmi: “Ora dormi, e vedrai che domani ti sarà ancora tutto meno chiaro”. A quelle parole non mi sentii certo rinfrancato, ma ne sorrisi e chiusi gli occhi. Era arrivato il giorno seguente ed effettivamente non capivo più nulla di quello che era accaduto il giorno prima, figuriamoci di quello che mi era, o piuttosto, non mi era accaduto in una vita. Le parole con le idee, i ricordi, i dubbi e le paranoie, iniziarono a fare una staffetta e al posto di portare una qualche risposta portarono un ulteriore interrogatorio: e se esistesse la reincarnazione?? Allora sì che mi sarei sentito imbrigliato in me stesso, non avrei dovuto risolvere una ma bensì migliaia di guerre con la mia vita. Oddio che fare?! Iniziai a capire che non potevo capire, così pensai di ricreare tutto, a partire dal linguaggio: i neologismi sarebbero stati il ceppo del focolare! Le mie mani presero ad agitarsi e il mio corpo ospitò dei funamboli, che si esibivano in spettacolari acrobazie cerebrali. Iniziai a muovere il collo come se fosse quello di uno struzzo, mi accostai alla mia vecchia radio, l’accesi e ne alzai il volume al massimo, come si fa col gas, come se dovessi accelerare il processo di ebollizione. Iniziai a danzare, accompagnato dalla musica completamente nuova, prodotta dal mio corpo con le sue ossa addormentate che si svegliavano dal loro lungo torpore. Per la prima volta sentii davvero la musica perché io ero musica. Mi muovevo goffamente ma non cercavo di coordinare i miei movimenti, ero stufo dell’ordine: volevo iniziare a sbagliare dal mio corpo, e chi se ne frega se il nuovo dirimpettaio ne avrebbe riso, io ero felice di aver presentato alla mia bocca un sorriso. Ero felice e non sapevo neanche perché, afferrai per un attimo il tempo e gli strizzai l’occhiolino. Al posto del cuore avevo un grammofono e al posto dei piedi avevo… I PIEDI: me lo ricordarono i vecchietti che abitavano al piano di sotto, a cui avevo fatto ripetere parole tutt’altro che nuove!!
Ma io non fui scoraggiato, ripresi a sdanzare contento. E urlavo la parola sdanzare come si può urlare la parola basta, e poi ancora e, ancora, muovermi senza coordinazione fino a vomitare il vecchio che c’era in me. Preso da questa energia, mi vestii senza pensare all’accostamento dei colori e scesi in strada per fumarmi l’aria dei polmoni altrui. Io ero nuovo, nuovo, nuovo, nuovo, nuovo, nuovooooooo!!!!!! Fiero di essere diverso proclamavo la mia indipendenza dall’indipendenza e a dire di tutti vaneggiavo, loro poveri mortali non volevano capire e sapere che dietro questa metamorfosi non c’era che senso e sensazione. Dovevo trovarmi un’occupazione: comperai il giornale per trovare quello che faceva a caso mio. Ovviamente non lo trovai subito, ci vollero settimane o forse mesi. Non importava: il tempo non era più un problema, del resto cosa lo era?? Il problema risiedeva in me, era creato da me e non mi andava di risolvere quello che mi veniva imposto da uno che non ero io. Finché un giorno trovai ciò che stavo cercando da una vita, o almeno da questa di cui avevo memoria. Era l’ultimo dell’ultima pagina, l’ultimo dei miei pensieri, l’ultimo insomma.
L’offerta chiedeva di proporre offerte. Annotai il numero sulla mia cravatta nuova e chiamai, stranamente lo trovai libero e fui assunto seduta stante. Potevo svolgere la mia nuova occupazione dalla sedia spagliata di casa mia, ma nonostante ciò mi comperai degli abiti nuovi per non sfigurare di fronte a me stesso. Acquistai poi un grande specchio, perché capii che lo specchio non era un oggetto per la casa ma per me: mi restituiva la mia figura così com’era, cosicché una volta uscito dalla porta di casa potevo dedicarmi a guardare il prossimo! Decisi di dare un tocco alla mia persona, stravagante per gli altri, giusto e appropriato per il mio gusto. Infilai il mio orologio, tramite il cinturino, nell’asola della giacca; misi dei lacci color verde acido alle mie scarpe e rasai completamente la mia testa: abito, scarpe e testa dovevano essere i più lucenti del paese! Dopo aver portato a termine tutti questi propositi iniziai a buttarmi sul lavoro: la mia creatività non era più miope! Non pensai a cosa scrivere, scrissi e basta. L’offerta così diceva: “Sdanzatore professionista cerca partner per esibizioni saltuarie. Massima serietà”. Certo, poteva suonare un po’ ambigua ma di certo era scritta in modo corretto e conciso. Come un’artista di fronte alla sua prima opera ne rimasi sbalordito. Strinsi tra loro le mie mani per congratularmi con me stesso. Quella ancora seguente così citava: “Offresi ampia stanza nella città delle illusioni”. Ora, sfinito mi stesi sul letto e offrii a me stesso un’occasione per dormire. Il tarlo riprese la parola, ma io non potei che sentirne l’eco, ero troppo stanco per offrire la mia attenzione. Dopo qualche ora, mi destai preso dalla voglia di fare l’amore e risposi io stesso alla mia offerta, dopodiché stetti in silenzio con la speranza di sentire quella voce, che però per quella sera non si fece sentire. Conversai con me stesso e decisi che il giorno dopo avrei offerto al tarlo un’altra possibilità, al tarlo e a Maria, o forse a me stesso. Ingurgitai tutto quello che trovai in dispensa e rigurgitai tutto l’indomani.
Maria Laura Mura
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