Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Tuoni senza nuvole” di Riccardo Montanaro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Vedo una donna in mezzo ad un campo, raccoglie dei semi dal terreno, e con cura li ripone in un sacco. Ha un fazzoletto bianco annodato intorno alla testa, i suoi movimenti sono lenti, armoniosi, e mi accorgo che ogni tanto mi guarda e mi sorride. Dietro di lei ci sono altre donne, anche loro raccolgono semi, ognuna col suo sacco. Mentre osservo quella moltitudine che si muove indaffarata nel campo, avverto in lontananza un fragore, come se fosse in arrivo un temporale. La donna col fazzoletto bianco dà un’ occhiata al cielo e alle sue compagne, poi torna a sorridermi, proseguendo nel suo lavoro. Intanto le nubi avanzano sempre più minacciose dall’orizzonte, ruggendo e tingendosi di un rosso porpora, fino ad oscurare tutto il cielo. La donna col fazzoletto bianco continua a mostrarmi il suo sorriso sereno, e proprio mentre la osservo chinarsi e prendere fra le dita un piccolo seme, con la coda dell’occhio vedo qualcosa precipitare fulmineamente dall’alto, ed esplodere su una delle raccoglitrici. Non ho il tempo di reagire che un secondo dardo infuocato, con estrema precisione, colpisce un’altra donna. E subito un terzo, e un quarto, finché una pioggia infernale si abbatte sul campo, annientando le donne una dopo l’altra. La donna col fazzoletto bianco è ancora illesa, avanza stancamente verso di me con uno sguardo  malinconico. Il sacco che ha lasciato diversi metri indietro sta prendendo fuoco, come tutti gli altri sacchi dispersi in quello scenario apocalittico. Qualcosa in quel momento mi dice di alzare la testa, lo faccio a rallentatore, e dal cielo vedo scendere una grande palla di fuoco. Viene giù piano, crepitando, ed io in qualche modo so che sta mirando a lei, alla donna col fazzoletto bianco. Grido per avvertirla, ma dalla bocca non mi esce alcun suono. Lei continua a trascinarsi nella mia direzione, mentre la palla di fuoco si fa sempre più vicina. La donna si ferma a pochi metri da me, la sfera incendiaria è ormai vicinissima ed enorme e allora provo a lanciarmi in suo aiuto, ma il corpo non risponde. Mi basterebbe fare un paio di passi per tirarla via da lì, ma le mie gambe sono bloccate come colonne di cemento. A fatica riesco a stendere un braccio, ma quel gesto non fa altro che aumentare la distanza che ci separa, così rimango immobile. Io e la donna col fazzoletto bianco siamo uno di fronte all’altra, inermi. Sento che la fine è ormai imminente. L’ultima cosa che vedo è una lacrima che riga il volto della donna e s’infila nell’angolo della bocca. Poi vengo accecato da un forte bagliore, a cui segue un boato assordante. Mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo seduto al centro del letto, con gli occhi sgranati e il cuore che mi batte affannosamente. Vado in cucina, con l’eco dell’esplosione che mi risuona ancora nella testa e metto su il caffè. Mentre aspetto che salga fisso la corona di fiammelle azzurre sotto la macchinetta. Fuori è buio pesto, sorseggio un po’ di caffè dalla tazza e contemplo la campagna che mi circonda. Tra qualche ora partirà il corteo di manifestanti diretto alla spiaggia. Sono stato invitato anch’io, ma non credo che andrò. Non amo molto le manifestazioni, non fanno per me le marce, gli slogan, anche se credo nella causa. La prima deflagrazione la sento intorno alle sette. da molto non le sentivo,  o meglio, da molto ci si è fatto il callo. Ormai si mescolano ai rintocchi delle campane, ai motori accesi dei trattori, sono diventati una cosa normale, di routine. All’inizio ricordo che aspettavano il maltempo. Come arrivava un temporale giù a sganciare bombe, camuffate da improbabili tuoni. Poi, quando hanno capito che avevamo capito, smisero di prenderci per scemi e cominciarono a testare le armi con qualsiasi condizione meteorologica. Verso le undici accendo il computer e faccio un giro su internet, trovo un video caricato pochi istanti prima. A malapena riconosco la via che si trova a pochi chilometri da casa mia, quella che faccio sempre d’estate per andare al mare. Una camionetta blu è parcheggiata di traverso sull’asfalto, come se fosse arrivata lì sgommando e inchiodando furiosamente. Un cordone di poliziotti protetto da caschi e scudi e armato di manganelli blocca il passaggio del corteo. Dietro un grande striscione bianco con la scritta in rosso CONTRO LE BASI AZIONE DIRETTA, si sviluppa la folla di manifestanti, non immaginavo fossero così tanti, sono tutti indignati da quella situazione vergognosa. Un ragazzo grida che ci stanno ammazzando tutti, che la gente è ammalata di cancro, persino i bambini. Inquadrano una signora molto anziana, la quale, dopo essersi chiusa il cardigan sulla pancia per il freddo, si rivolge ad uno dei poliziotti chiedendo che li lascino passare, che devono raggiungere gli altri alla spiaggia, che loro non stanno facendo niente di male, stanno solo manifestando un punto di vista, un’idea, e gli implora con tutto il suo cuore di non usare quei bastoni. Mentre parla le si spezza più volte la voce, ogni tanto si gira verso chi le sta di fianco per trovare conferma alle sue parole. Gli uomini in divisa però rimangono fermi impalati, non parlano, e soprattutto non guardano nessuno, si limitano a spostare lo sguardo di lato, verso la fila di eucalipti scossi dal vento che costeggia la strada. Poi intervistano una donna sui settant’anni, racconta del suo lavoro, di come insieme ad altre donne stia portando avanti da anni esperimenti partecipativi ed evolutivi, con l’obiettivo di riportare il controllo dei semi nelle mani di chi coltiva la terra, e di riportare le persone alla terra. Infine esprime la volontà di vivere in questo territorio, di viverci nella pace, e in armonia con la natura, d’un tratto s’interrompe e si volta di scatto dall’altra parte, il cameraman sposta la telecamera e si fa largo tra la folla. A terra, in posizione fetale, c’è un ragazzo molto giovane, avrà venti, venticinque anni. Ha il volto ricoperto di sangue, e con la mano cerca di tamponarsi la tempia. Molti si lanciano in suo soccorso, mentre altri si scagliano contro quel poliziotto che, ancora preso dall’ira, agita convulsamente per aria il suo manganello. Mi vesto ad una velocità sorprendente. Non so perché, ma lo sto facendo davvero, e la cosa mi carica di adrenalina. Esco di casa e imbocco la via che scende verso il mare, a passo decisamente sostenuto. Non basta. Inizio a correre. La strada leggermente in discesa mi aiuta, più corro più mi sento vivo, utile. Vado avanti così per un bel pezzo, finché inizio ad avvertire una fitta nel fianco, cerco di resistere, ma si fa sempre più dolorosa e sono costretto a fermarmi. Con una mano premuta sulla milza e il fiato corto mi guardo intorno, e capisco di non essere neanche a metà del percorso. Esausto mi trascino per un sentiero che si inoltra fra campi di carciofi e fichi d’india. Lo seguo per un po’, senza badare ai rami sporgenti dei rovi che mi graffiano i jeans, finché arrivo ai bordi di un prato incolto. Lì, mi accascio morbidamente nell’erba alta. Sento la terra umida che mi preme sul viso, ha un buon odore. Mi volto supino e guardo l’azzurro del cielo. Un elicottero sorvola la zona a bassa quota, aspetto che si allontani, poi, lentamente, chiudo chi occhi, cercando solo di sentire il lieve tepore del sole sulle palpebre. Prima di rientrare a casa mi allungo in paese ed entro in uno dei cinque bar, quello più frequentato. Ordino una birra in bottiglia ed esco fuori, mischiandomi tra gli avventori  ammassati sul marciapiede. Un ragazzo con la barba folta e una felpa mimetica di pile, senza rivolgersi a nessuno in particolare, comincia ad inveire contro i manifestanti. Dice che non capiscono un cazzo, che non si rendono conto che se non ci fossero i militari, qui, stavamo tutti morendo di fame. Lui è grazie a loro che tira avanti, e se proprio deve crepare, preferisce farlo con la pancia piena. Coglioni, con che vogliono campare, con l’aria pura? Coi fiorellini? Secondo lui invece, finché non si trova un’ alternativa valida, che tanto alternative non ce n’è, bisogna tenerseli buoni, che almeno loro portano soldi. Quella notte faccio fatica a prendere sonno. Dapprima le scambio per tuoni, in questa zona capita spesso che arrivino perturbazioni improvvise. Ma poi comprendo che in realtà si tratta di bombe. Ora le testano anche di notte? Bene. Era già previsto dal loro programma o vuole essere uno sberleffo, una simpatica risposta alla protesta di quella mattina? Comincio a contarle, come si fa con le pecorelle. E mi addormento in questo modo, immaginando che ci sia la festa di paese, e che le bombe siano i fuochi d’artificio, quelli che sparano al termine della processione, quando la statua della Madonna, portata a spalla dai fedeli, raggiunge la piazza della chiesa in un trionfo di applausi. In principio vedo leggermente sfocato, mi sembra di avere davanti agli occhi una vecchia fotografia color seppia, poi l’immagine si fa nitida e prende vita. C’è la donna col fazzoletto bianco che raccoglie i semi in mezzo al campo, dietro di lei le altre donne al lavoro. Sto rifacendo lo stesso sogno dall’inizio. Tutto si ripete con la stessa successione, lei che mi sorride, i primi fragori nel cielo, le bombe che piovono sulle raccoglitrici, i sacchi in fiamme. Solo che questa volta è tutto più veloce. Come quando acceleri un video per portarlo avanti. In un attimo arrivo al punto in cui alzo la testa e vedo la palla infuocata. Sono consapevole di quello che sta per accadere, e so benissimo che se provo a fare un passo non mi sposterò di un millimetro, perché quella strana legge dei sogni mi impedirà di muovere le gambe. Così chiudo gli occhi e mi sforzo di creare una nuova immagine che sovrappongo a quella del sogno. Visualizzo il momento in cui la lacrima scende sulla guancia della donna, e aspetto fino all’ultimo istante, prima che quella piccola goccia si infili tra le sue labbra, per lanciarmi su di lei. Io e la donna col fazzoletto bianco siamo abbracciati. Il suo volto è poggiato al mio petto e posso sentire il suo respiro, calmo e profondo. Riapro gli occhi, e siamo sospesi nel nulla. Una settimana dopo la notte delle bombe la corriera mi lascia in città. Arrivo nei pressi di un caseggiato piuttosto basso. Sul muro è attaccato un grosso manifesto: TAVOLA DI PACE, PROPOSTA DI UN PIANO D’AZIONE PACIFICO PER LA LIBERAZIONE DEL TERRITORIO DALLE SERVITÙ MILITARI. ASSEMBLEA APERTA A TUTTI. Lo stesso titolo che c’è sul volantino che ho in tasca. Giro attorno alla scuola cercando l’ ingresso, da una porta a vetri viene fuori un ragazzo, mi saluta e mi invita ad entrare. Percorriamo insieme un lungo corridoio, fino ad un’aula piena di persone. Mi fermo un istante sulla soglia, sorrido, poi faccio un passo ed entro.

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1 commento »

  1. L’inizio mi sembrava banale. Dopo poche righe avevo capito che si trattava di un sogno ed ero tentato di interrompere la lettura. Poi il risveglio e la narrazione diventa realistica, intensa e interessante. Bel cambio di marcia, io avrei indugiato meno sul sogno iniziale proprio perché stavo per interrompere la lettura. Io però sono un lettore ostico, è difficile catturare la mia attenzione e forse altri lo riterranno adeguato. Il resto è una bella storia, scritta benino. Dico benino e non bene perché ci sono degli elementi di stile e di punteggiatura che mi disturbano: le ‘e’ di congiunzione dopo la virgola ad esempio. Ogni tanto ci sta la virgola prima della ‘e’. Ad esempio dopo un inciso: “Il cuore batte forte, nonostante tutto, e veloce.”. L’esempio fa schifo, ma spero di essermi spiegato. Tu invece le hai usate in accoppiata più di qualche volta. Se era voluto, per come la vedo io è un errore. Diciamo che con un lavoro di editing, nemmeno troppo pesante, avresti per le mani un gran bel pezzo. Come ho già detto ad altri, se mi permetto di farti queste osservazioni è perché credo nella storia e nella tua capacità di farla funzionare in modo perfetto. In bocca al lupo.

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