Premio Racconti nella Rete 2016 “Baby blue” di Elena Panzera
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016“Che cosa abbiamo fatto, Guido?”
“Emma?”
Guido abbassa la voce e stringe una mano intorno alla cornetta.
“Lo so, è tardi. Scusa.”
“Sono le tre del mattino, cristo santo.”
“Si è svegliata?”
Guido guarda verso la porta socchiusa di camera sua, in fondo al corridoio.
“No, credo di no” sospira. “Ma se resto ancora al telefono lo farà di certo.”
Emma avverte un formicolio allo stomaco; lo sente vuoto e bruciante. “Allora scendi. Sono sotto casa tua.”
Guido si porta una mano alla fronte. “Emma…”
Ora la vede, fuori dalla finestra, infreddolita dentro una cabina telefonica mezzo scassata, l’ultima superstite del quartiere. Chi altro, a parte lei, usa ancora le cabine telefoniche? Possibile che non si arrenda a comprarsi un cellulare come si deve? Lui gliene ha regalati a decine, ma lei ha sempre trovato nuovi e insospettabili sistemi per mandarli tutti in frantumi.
“Emma, torna a casa. Che cosa ci fai in giro da sola a quest’ora?”
La vede abbassare la testa. Indovina il suo labbro inferiore che trema nello sforzo di non piangere.
“Non riuscivo a dormire. Non riesco a dormire senza di te.”
Guido stringe un pugno e lo morde per chiudersi la bocca; per non accusare, per non gridare. Quel tempo è passato.
“Non posso. Se Marta si sveglia e non mi trova dà di matto. Non è disposta a perdonare altre incertezze.”
“Ha ragione.”
“Non fare la spiritosa.”
“Dico sul serio: ha ragione.”
Guido la guarda dall’alto, guarda i suoi capelli biondi sparsi sulle spalle, sul cappotto lungo e ampio che la avvolge morbidamente, come una coperta. Non una a caso: la loro coperta, quella color panna vecchia come il mondo che ha campeggiato per anni sul loro divano. La coperta di Emma. Entro cui l’ha vista sprofondare tante volte, di sera, stretta a lui sotto quella soffice soglia del mondo; la coperta che si è tenuta addosso per una settimana intera quando ha avuto quella bronchite impossibile, su cui hanno fatto l’amore per terra come succede nei film.
“Bene, allora per una volta siamo d’accordo. Vai a casa, Emma, non farmi preoccupare. Ti chiamo un taxi.”
Emma appoggia la schiena a un lato della cabina e tira la testa all’indietro, toccando la nuca contro la parete di plastica rossa. È un gesto smanioso e esasperato, di rabbia infantile.
“Guido” mugola nella cornetta. “Guido, cosa abbiamo fatto?”
Scoppia a piangere, e lui la vede. Acquattato come un ladro dietro la finestra buia della sua nuova casa (in stile country-chic, con le sedie di vimini e una cucina color lavanda davvero azzeccatissima) vede la bocca di Emma socchiudersi, il petto contrarsi e una piccola mano triste salire ai capelli. Vorrebbe essere lì, al freddo, accovacciato con lei dentro la cabina telefonica; baciarla fino ad asciugare il suo pianto, fino a cancellare gli ultimi due anni della loro vita. Invece se ne sta in piedi al primo piano di una palazzina centralissima e recentemente ristrutturata nel suo pigiama di seta nero, con i piedi conficcati in un paio di ciabatte più soffici di un gatto persiano che oltretutto aiutano a mantenere una postura corretta. Emma riderebbe di lui, se lo vedesse ridotto così. Gli chiederebbe dov’è finita la maglia dei Nirvana con le maniche strappate che per dieci anni è stata il suo pigiama preferito; dove sono le infradito blu di una plastica che prenderà fuoco di certo, prima o poi, con cui è andato in piscina, al mare, in vacanza e ha trascinato i piedi per casa anche a dicembre, eleggendole al rango di sole ciabatte di cui ci sarà mai bisogno. Non le aveva mai detto che le teneva solo per vederle indossare a lei. Guardarla attraversare la camera coi capelli scarmigliati dall’amore e indosso solo le sue ciabatte fuori misura era quanto di più tenero ci fosse a questo mondo.
“Emma, vai a casa” riesce a sussurrare. “Devo tornare da Marta.”
Emma piange a dirotto, ora. Queste ultime parole hanno sciolto ogni residuo di orgogliosa tenacia.
“Ti ricordi, Guido? Te lo ricordi quanto ci siamo amati?”
Guido incassa in silenzio. Non ha alcun bisogno di ricordare. Le uniche dimenticanze sono i brevi momenti in cui quell’amore lo lascia respirare; la normalità è costituita dal resto.
“Non farmi questo, Emma.”
“Lo so, scusami. Ma sto così male, Guido. Non passa. E io non riesco a dormire senza di te.”
“Stringiti a lui. All’altro.”
Perché lo ha detto? Perché deve essere sempre così crudele e stupido?”
“Vaffanculo, Guido.”
Guido si volta verso il muro. Deve smettere di guardarla, distogliere gli occhi dalla bambina di un biondo abbagliante che lo difende a suon di pugni dai compagni di scuola che lo prendono in giro perché è goffo e grassoccio e non parla con nessuno; dalla sedicenne pallida e un po’ pazza che una notte d’agosto – in un campo d’erba e alberi di fico che profumavano di zucchero – si è spogliata davanti a lui e gli ha detto Guido, dobbiamo essere coraggiosi; dall’unica donna che abbia mai desiderato da quando per la prima volta ha scoperto di desiderare una donna.
“Buonanotte, Emma.”
“Noi due non smetteremo mai di conoscerci. Se anche non ti vedessi più e non sentissi più la tua voce, saprei esattamente chi sei e cosa stai pensando.”
“Basta, Emma.”
“Ti amo, Guido. Stanotte penso che siamo stati folli, completamente folli, e io ti amerò per tutta la vita come ti amo stanotte. Adesso lo so, stanotte è tutta la vita.”
Marta si affaccia dalla porta socchiusa. È stato quel nome a svegliarla. Emma, Emma, Emma. Come un lamento, una preghiera, un atto d’amore. Emma nella loro vita, ancora; un’ombra negli occhi di Guido che non si dirada mai. Guido non si è accorto di lei. Se ne sta schiacciato contro il muro. Un metro e novantacinque di uomo dissolto in una manciata di sospiri, scomparso dietro quell’espressione da eterno adolescente che gli si dipinge sul viso quando pensa a lei, a quell’Emma che non se ne vuole andare. Tiene la testa bassa come un cucciolo messo in punizione, si preme le dita sugli occhi per impedirsi di piangere. Ma anche così, disfatto, Marta non riesce a non trovarlo bellissimo. Le ha provate tutte, per quelle spalle pacifiche e forti; per quelle mani gentili e impacciate; per il suo grande corpo dinoccolato e accogliente. Si è rimboccata le maniche, lo ha curato e risollevato da terra quando sarebbe bastato un soffio a spazzarlo via come una nube di polvere. Guido si è comportato bene, ha fatto tutto quello che ha voluto lei. Ha persino smesso di mangiare la carne per farla felice, e Marta sa bene che gli brillano ancora gli occhi ogni volta che vede una bistecca. Ma non funziona. Quando Emma riappare, quando per caso spunta fuori una foto o la incrociano per strada Guido si accartoccia dentro, l’uomo scompare e ne rimane un involucro triste e assorto che sorride per tutto il tempo solo per nascondersi da qualche parte. Eccolo, adesso, quello che le sue amiche hanno definito ‘un ragazzo impossibile da trovare’.
Lo sente dire: “Emma, tu continui a capire tutto in ritardo.”
Già, Emma, è proprio vero, tu capisci tutto in ritardo, pensa Marta. Forse anche adesso hai questo problema: non riesci ad afferrare l’idea che Guido non ti appartenga più, che abbia una vita tutta nuova, una casa nuova, una macchina nuova, una donna nuova, e che donna. Non una ragazzina volubile e mezza matta con le punte dei capelli colorate di rosa e quella faccia slavata piena di rossetto, ma una donna adulta e seria, con un lavoro ben retribuito e delle res-pon-sa-bi-li-tà; una che sa sempre quello di cui Guido ha bisogno, che non lo lascerebbe mai andare in giro con quei cappotti improbabili che gli regalavi e scolarsi una bottiglia di vino tutte le sere. Tu l’hai rotto, io l’ho aggiustato. Tu. Tu, Emma, continui a capire tutto con un dannato ritardo!
“Vuoi davvero sapere cosa ci è successo, Emma?”
Bravo, Guido. Digliene quattro. Spiegale che è questa la vita che vuoi, che sono io la donna che fa per te; dille che avremo dei figli, dei bellissimi bambini castani (che andranno alla scuola steineriana, su questo non si discute!) e che il nostro cane (rigorosamente a pelo corto, s’intende!) ti correrà incontro quando tornerai da lavoro (uno vero, perché con questa storia della musica nei pub hai chiuso, sia chiaro. Non sei più un ragazzino).
“È successo che eravamo felici e volevamo un bambino. Ma il bambino non voleva noi, evidentemente. Non si decideva a venire. È successo che siamo andati da quel dottore bravissimo che ci ha assicurato che non c’era niente che non andava, in noi, e che dovevamo solo continuare a provare. Abbiamo provato e riprovato. Abbiamo provato tanto che abbiamo smesso di fare l’amore. Stavamo solo provando. Abbiamo provato tanto che abbiamo smesso di parlare. Parlavamo solo di quello. Poi tu hai iniziato ad arrabbiarti. Non era colpa di nessuno, ma tu ce l’avevi con me per qualsiasi cosa. Allora non c’è stato altro: solo quel bambino che non c’era. Io e te eravamo scomparsi.”
Emma singhiozza nella cornetta. “Ti ricordi quella notte sul molo? Siamo saltati sopra una barca e abbiamo fatto l’amore. Avevamo quel vino fresco e tu mi hai detto che un giorno mi avresti sposato. Aveva un nome orribile, la barca: si chiamava baby blue. Da allora non hai mai smesso, con quel nomignolo. E non è vero che lo detestavo.”
“Lo so che non lo detestavi.”
“Guido. Come abbiamo fatto a perderci tutto questo?”
“Ci siamo dimenticati come si faceva a essere felici.”
La guarda di nuovo, fuori dalla finestra. La vede annuire. La sua figura gli è familiare come un bicchiere d’acqua, come il cielo sopra la sua testa.
“Volevo solo un figlio con i tuoi capelli, Guido. Che digrignasse i denti la notte e mi facesse ridere ogni volta che dice ramarro con la tua ‘r’.”
“Lo volevo anch’io. Ma mi bastavi anche tu.”
Marta sgrana gli occhi nella penombra, sgomenta, ma quel verbo al passato la rincuora un poco. Gli bastavi. Ora non ha più bisogno di te.
Emma si stringe nelle spalle. “Sono incinta, Guido.”
La faccia di Guido ha un guizzo incontrollato. “Cosa?”
Marta fa un silenzioso passo in avanti per sentire meglio. Che cosa gli hai detto? Che cosa gli hai fatto, stavolta, maledetta Emma?
“È di Stefano?”
“E di chi altro, sennò?”
Guido vorrebbe morire. Vorrebbe accasciarsi sul suo parquet di faggio – lucido, senza un graffio – e non rialzarsi più. Pensa al ragazzone bruno che scalda il letto di Emma, alle sue mani rozze che attraversano quel corpo delicato e fresco; pensa a lui che gioca con un bambino biondo, il figlio di Emma.
“Tanti auguri” dice.
Avrebbe potuto dire qualcosa di più lontano dai suoi pensieri, di più insensato?
“Non lo voglio, Guido. Non voglio un bambino qualunque. Voglio il tuo bambino. Non posso immaginarne uno che non sia tuo.”
“Credevo fosse tutto quello che volevi.”
“Lo credevo anch’io. Avevo perso la testa.”
“Da quanto lo sai?”
“Da stasera. Ma domani sarà tutto finito. Me lo faccio togliere.”
“Che stai dicendo?”
Emma si tocca la pancia. “Ciao Guido.”
Guido si volta verso la porta di camera, ma Marta si ritrae prima che lui riesca a vederla. Attacca il telefono e guarda un istante verso la direzione della sua nuova vita, verso una notte tranquilla nel letto ortopedico che lo aspetta per coccolargli la schiena, accanto a una donna tutto sommato bella; una che rispetta il pianeta, gli animali, i bambini, gli anziani, il lavoro, lo Stato, i diritti, i doveri, la biodiversità, la razza, la religione, l’orientamento politico. Sì, una che rispetta. Una persona attenta, corretta, affidabile, che accoglie gli ospiti con un tè al bergamotto e biscottini fatti in casa. Una persona con tutte le carte in regola per definirsi splendida. Sarà per questo che afferra un cappotto a caso e scende le scale di corsa. Lui non lo è mai stato, splendido.
Marta esce dalla camera giusto in tempo per vedere la porta d’ingresso che si chiude con un rumore sordo. Le batte il cuore di rabbia. E allora fottiti, Guido. Sei un caso perso. Corri, corri cagnolino, corri dalla tua padrona; nascondi la coda tra le gambe. Siete due buffoni, due bambini bizzosi. Io voglio un uomo vero, uno con-le-cosiddette. Domani ti lascio. Domani vado in ufficio e invito a cena Mauro. Lui sì, che sa che cosa vuole. È un tipo raffinato, ha gusto, ha persino smesso di usare la macchina e adesso gira solo in bicicletta per non contribuire all’emissione di gas tossici. Mauro non ha mai fumato, sai Guido? Non è come te, che a trentasei anni ti fai ancora le canne di nascosto e pensi che non me ne accorga. Vattene. Non tornare. Non me ne faccio niente di te.
Ma piange, Marta, nella sua camicia da notte azzurra in coordinato con le lenzuola.
“Emma!”
Emma si volta, minuscola dentro quel cappotto enorme. È già in fondo alla strada quando vede Guido coi piedi nudi dentro le ciabatte, spettinato, stravolto. Gli sorride tra le lacrime. “Amore mio.”
Guido le barcolla incontro e la abbraccia. Se la stringe contro il petto come se potesse attraversarla, entrare dentro di lei e divenire un tutt’uno con la sua pelle, col suo sangue. Sente l’odore acre dei suoi capelli biondi e di un rosa scolorito. Sente la pelle fredda del suo viso contro la barba, la sua pelle che profuma di casa loro, del loro letto. È Emma. È la sua Emma. È sua madre, sua figlia, la sua unica amante.
Non importa che cosa accadrà adesso. Non importa se ci sarà ancora un mondo, dopo quell’abbraccio. Certi amori sono come i giorni, non smettono di sorgere, e ogni tramonto è un’alba, da qualche parte.
Emma ha ragione: stanotte è tutta la vita.
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L’amore (quello vero) è: affetto, passione, sofferenza, forza, sacrificio, pazienza. A volte lo vogliamo confezionare di perfezione, con il rischio di perderlo di vista.
Da inguaribile romantica ti dico: W l’Amore!
Mi piace!!
Per Barbara Cutrupi: è proprio vero! I sentimenti hanno tante sfumature imperfette che a volte ci imponiamo di rifiutare, ma poi sono esattamente quelle che vengono a mancarci.
Grazie del tuo commento!
Siamo così sbagliati nella vita…ma esiste quell’amore che ci rende giusti!
Bello, bello, bello!
Complimenti!
Se ti fa piacere, il mio piccolo racconto è Sofiann. Gradirei davvero il tuo parere.
Un racconto sull’amore, quello vero, che valica i confini del tempo. Non bastano una bella casa, una bella moglie, una posizione stabile per fare la felicità… Ci sono persone nella nostra vita che ‘restano’ anche quando la vita ci ha portato in una direzione completamente diversa… Brava Elena. Se ti va passa da me per un commento, anche se il mio è solo un racconto per bambini (Eghus).
Molto bello!
Sara e Eghus, vi leggerò sicuramente più che volentieri! Grazie mille! Grazie anche a te, Maria Laura!
La storia mi piace. Meno lo stile. Dovessi descriverlo in una parola: ridondante. Troppi aggettivi, troppe spiegazioni, troppi dettagli. Io avrei lavorato per sottrazione. In ogni caso complimenti.
Grazie comunque, Costantino, per aver letto il racconto!