Premio Racconti nella Rete 2016 “Il merlo di Matilde” di Bruno Volpi (sezione racconti per bambini)
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016La capanna delle mille scoperte
“Nonno, nonno, guarda! Che bello, ha il becco giallo!”
Il merlo era arrivato, inaspettato, all’improvviso, mentre Matilde stava provando, con grande impegno, a far addormentare Ciccio, il suo bambolotto preferito. L’uccello si era accostato pian piano ad un cespuglio, davanti alla capanna che il nonno aveva costruito per Matilde laggiù, in fondo all’aia, dove iniziavano i campi di grano.
“Nonno, nonno, guarda!” con tutto lo stupore e l’entusiasmo che la vita regala alla nascita e giorno dopo giorno, lentamente, ma inesorabilmente, torna a riprendersi. “Che bello! Ha il becco giallo!… …Guarda, nonno! C’è anche un cuore bianco sulla coda!”. In effetti il merlo aveva, sulle penne della coda, una macchia bianca simile ad un cuore.
“Sssh! Non gridare, altrimenti lo spaventi e scappa. E’ un merlo, dovresti sentire come fischia!”
“Dai, nonno facciamolo fischiare!”. Matilde era eccitatissima per questo nuovo amico. Il merlo, però, dopo qualche saltello, tornò da dove era venuto, sparendo alla vista di entrambi.
Matilde si fiondò fuori dalla capanna: “Merlo, merletto, non andare via, aspetta!”. Tutto inutile. Il bel viso di Matilde si fece imbronciato. Il sorriso svanì, come il merlo poco prima, e nessuna merenda, né coccola di nonna Maria, fu in grado di farlo tornare.
C’è sempre una seconda volta!
Il giorno successivo, appena scesa dall’auto di mamma, che, dopo la scuola materna, era solita affidarla ai nonni, Matilde era corsa verso la capanna, con tutto il fiato che aveva nei suoi piccoli polmoni. Quell’aia non le era mai sembrata così lunga.
Giunta vicino alla capanna, aveva scrutato tutto intorno, col cuore colmo di attesa. Aveva guardato dietro, di lato, persino dentro. Aveva frugato nei cespugli, curiosato con lo sguardo tra i rami dei gelsi. Aveva provato a chiamarlo, a fischiare, anche se non ne era capace.
Il merlo, l’amico del giorno prima, quello col cuore bianco sulla coda, non era tornato.
Per tutto il pomeriggio nonno e nipote si erano guardati intorno, nel tentativo di vederlo. Quando ormai avevano riposto ogni speranza, uno strano sibilo entrò all’interno della capanna dalla finestrella laterale. Matilde fu la prima a voltarsi. Al secondo fischio lo videro. Era appollaiato sul ramo più basso del gelso, a poco più di un metro dalla finestrella.
Matilde, avvicinandosi silenziosamente, come le aveva insegnato il nonno, poté osservarlo in ogni dettaglio. Lo trovò bellissimo. Elegante, nel suo abito lungo, nero. Simpatico, per quel becco giallo come il pastello con cui aveva colorato il sole, all’asilo, quella stessa mattina. Amico, perché quel cuore bianco sulla coda era un messaggio di affetto per lei, ne era sicura. Si accostò all’orecchio del nonno: “Nonno, io gli voglio bene, al merlo! E anche a te, che l’hai fatto venire!” E, cingendogli la vita con le sue piccole braccia, gli diede un bacio sulla pancia prominente.
Nonno Luigi, attraversando l’aia con la nipotina per mano, pensò a quanto può essere contagiosa l’innocenza dei bimbi. Si sentì felice. E, soprattutto, un po’ più giovane.
L’occasione rende il merlo amico
Il merlo era tornato anche il giorno successivo. Così, via via che passavano i giorni, l’appuntamento col merlo era diventato l’evento clou del pomeriggio di Matilde. Arrivava sempre verso sera. Si faceva annunciare da due fischi, intervallati da una pausa. Gironzolava un po’ intorno alla capanna, beccando qua e là. I primi tempi Matilde rimaneva ad osservarlo immobile. Un giorno decise di provare ad avvicinarsi. Riuscì ad arrivargli vicino vicino, ma, sul più bello, il merlo, fischiando, volò via.
“Nonno, nonno, vorrei tanto prendere il merlo! Ma scappa sempre!” un velo di delusione.
“Non bisogna prendere il merlo! Altrimenti gli fai male!”
“Ma io non voglio fargli male, è mio amico! Voglio solo accarezzarlo!”
“Matilde, i merli non si lasciano accarezzare! Ascoltami, domani gli portiamo qualcosa da mangiare, così magari rimane un po’ di più!”
“Sìììì! Che bello!”
Il giorno dopo, appena fuori dall’ingresso della capanna, una ciotola d’acqua e un piattino con un po‘ di granaglie erano lì ad attendere l’arrivo del merlo. Verso sera, come sempre, il piccolo amico di Matilde avvisò con i due fischi che stava arrivando. Mangiò, bevve, scrutando sempre i movimenti della bimba. Poi, appena Matilde tentò di avvicinarsi, ancora una volta il merlo volò via.
“Uffa, nonno, ma scappa sempre!”
“Proviamo a dargli un nome. Magari se lo chiami per nome, lui rimane! Come lo chiamiamo?”
Matilde si fece seria, come per concentrarsi su quel compito di responsabilità. “Pongo, si chiama Pongo, come l’orso di peluche che dorme con me!”
Nei giorni successivi Matilde si sforzò in ogni modo di chiamarlo, ma Pongo sembrava non capire: beccava i semi, beveva un po’, poi un fischio e via. Il nonno aveva fatto una targhetta di cuoio, simile ad un piccolo collare, con scritto il nome del merlo e Matilde l’aveva sistemata vicino alla ciotola dell’acqua.
Un pomeriggio di fine agosto, il rumore della pioggia sul tetto della capanna annunciò un imminente temporale. Visto che il nonno era lontano, Matilde corse a ritirare il piatto con il cibo per Pongo. Mentre osservava dalla finestrella il nonno che si avvicinava a rapidi passi, avvertì un fruscio alle sue spalle. Si voltò e rimase a bocca aperta: il merlo era lì, dentro la tenda, vicino al piattino con le granaglie.
Quando nonno Luigi arrivò alla tenda dovette strabuzzare gli occhi più volte per la scena che aveva di fronte: Matilde, chinata vicino al piattino coi semi, teneva tra le mani il piccolo merlo, accarezzandolo come fosse un gattino. Al collo il merlo portava la targhetta di cuoio col nome Pongo, quella che lui stesso aveva fatto per la sua amata nipote.
La scomparsa di Pongo
Pongo e Matilde erano ormai diventati inseparabili. Il piattino col cibo dimorava stabilmente all’interno della tenda. Pongo arrivava, preceduto dalla coppia di fischi, e Matilde se lo accarezzava a lungo. Ogni tanto avvicinava il viso al suo lucido manto di piume e faceva come per baciarlo. Nonno Luigi aveva preparato una piccola cesta con un po’ di paglia dentro. Appena il merlo si affacciava all’ingresso della tenda, Matilde lo prendeva con cura e lo depositava in questa specie di nido. Poi iniziava a raccontargli le favole che papà e mamma le leggevano per farla addormentare. Parlava a raffica, gesticolava, si avvicinava e si allontanava, entrava ed usciva dalla tenda, ogni tanto gli faceva una carezza. E lui, Pongo, stava sempre lì, fermo, nel suo nido improvvisato. Seguiva l’affannarsi della sua giovane amica con piccoli movimenti del capo. Talvolta emetteva un fischio. Allora Matilde se lo prendeva in braccio e lo coccolava.
Un giorno di ottobre, senza apparente motivo, l’incantesimo si ruppe. Era tutto pronto, come nei giorni precedenti. Il piatto era lì, al solito posto. La cesta con la paglia anche.
Pongo, però, non venne. E non venne neppure nei giorni seguenti.
Matilde era disperata. Nonno Luigi le aveva provate tutte. Si era persino procurato da un cacciatore un richiamo per uccelli. Nulla. Avevano provato a cercarlo nei dintorni, fino al limitare del bosco. Del merlo nessuna traccia.
Natale era ormai dietro l’angolo e le maestre a scuola avevano proposto ad ogni bambino di scrivere, con l’aiuto di qualche adulto, una lettera a Babbo Natale. Matilde pensò che poteva essere l’ultima speranza. Convinse i nonni ad aiutarla a scrivere la lettera. Si sa che i nonni si comprano anche solo con un sorriso o una lacrimuccia.
Ne scaturì quasi un romanzo. Matilde voleva che Babbo Natale conoscesse tutti i risvolti della sua amicizia con Pongo. Così, pensò, capirà quanto ci tengo. Il colloquio con l’improvvisato Babbo Natale della scuola materna durò quasi dieci minuti. Matilde gli raccontò tutto nei minimi dettagli. Prima di allontanarsi, guardò dritto negli occhi il vecchio con la barba bianca: “…e non sbagliarti! Il mio merlo è quello col cuore bianco sulla coda!”
Un mattino speciale
La mattina di Natale Matilde si svegliò prestissimo. A dire il vero, non aveva chiuso occhio per l’agitazione. Al Babbo Natale, quello che passa a casa, aveva chiesto la solita bambola. Era stato quasi un pro-forma, per non allarmare mamma e papà. Tutta la sua attenzione l’aveva dedicata all’altro Babbo Natale, quello che sarebbe passato alla cascina dei nonni, là, in fondo all’aia, dove c’era la capanna. Aveva preparato la tazza con il latte e i biscotti, quelli al cioccolato, i suoi preferiti. E anche alcune carote per le renne.
Aprì i regali di casa fingendo eccitazione, ringrazio papà e mamma, che avevano aiutato Babbo, raccontò a tutti coloro che telefonavano per gli auguri che aveva ricevuto una bambola bellissima. Poi, finalmente, venne l’ora di andare dai nonni. Appena giunti alla cascina, Matilde bacio nonna Maria e nonno Luigi, poi si avviò di corsa verso la capanna. Osservò sulla neve fresca tre paia di impronte di scarpe che creavano un lungo serpentone verso la capanna. “Sono Babbo e le renne, con le scarpe per non aver freddo alle zampe” pensò.
Arrivata davanti alla capanna, li vide. Là, dove si arrestavano le impronte di scarpe, sulla neve fresca si vedevano solo dei piccoli segni, che il suo sguardo seguì fino all’ingresso della capanna. Avevano la forma delle zampine di Pongo. Matilde senti il cuore scoppiare di gioia. Si lanciò dentro la tenda. Pongo era lì, nella sua cesta con la paglia. La stava aspettando.
“Pongo, Pongo, che bello sei tornato! Non andare via mai più, ero così triste, sai!”
La scena che si mostrò a nonno Luigi, al suo arrivo alla capanna, fu di quelle davanti alle quali è difficile trattenere le lacrime: Matilde stringeva forte il suo piccolo merlo dal cuore bianco sulla coda, lo riempiva di baci, e rideva e piangeva nel medesimo tempo. E nonno Luigi, le lacrime, non riuscì proprio a trattenerle.
Epilogo: tra favola e realtà
Ivana, insegnante di scuola materna, aveva appena brindato al nuovo anno con gli amici Fausto e Gloria, che lavoravano presso il Parco Fluviale del Po. Gloria si occupava della didattica con le scuole e i visitatori. Fausto era veterinario nella clinica di recupero volatili, dove venivano curati uccelli malati o feriti, per poi rimetterli in libertà.
Era accaduto che, una sera di ottobre, nel cortile della cascina dove abitavano alcuni parenti, appena fuori paese, Ivana avesse sentito un gemito insistente provenire dalla zona del fienile. Intrappolato in una tagliola per topi, con un’ala ed una zampa spezzate, vi era un piccolo merlo, con un bellissimo piumaggio nero lucente, una macchia bianca sulla coda e al collo una specie di piccolo collare con la scritta “Pongo”. Ivana aveva chiamato Fausto al cellulare. Giunto alla cascina in un batter d’occhio, Fausto aveva subito liberato il merlo dalla tagliola. “Lo salveremo!” aveva esclamato dopo averne controllato le condizioni generali.
Quando, poco prima di Natale, le maestre dell’asilo avevano iniziato a leggere le richieste a Babbo Natale, arrivata alla letterina di Matilde, Ivana era quasi saltata sulla sedia. Non c’erano dubbi. Quello ferito era proprio il merlo di Matilde. Aveva subito telefonato a Fausto, pregando in cuor suo che il merlo fosse guarito, e che fosse ancora lì, nella clinica del parco. Saputo che Pongo aveva recuperato un ottimo stato di forma e poteva essere “dimesso”, Ivana aveva contattato il signor Luigi, il nonno di Matilde, con l’idea pazza di tentare di assecondare la richiesta della bimba.
Così, la mattina di Natale, lei, Fausto e nonno Luigi, con il merlo all’interno di una gabbietta protettiva, avevano attraversato l’aia ricoperta da un leggero strato di neve. Arrivati in prossimità della capanna, avevano liberato il merlo, che, dopo qualche tentennamento, con loro grande stupore, si era avviato spedito verso piccola cesta di paglia, come aveva fatto decine di volte, prima dell’incidente. E lì aveva atteso, fiducioso, la sua piccola amica, certo che, prima o poi, Matilde sarebbe arrivata.
![]()