Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Senza tregua” di Mattia Giangrande

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Rumori per la strada. Spari.

Sta accadendo qualcosa. Sento il motore di un veicolo che ruggisce sotto la finestra della mia camera. Al piano terra, dove si trovano la sala da pranzo e la cucina, qualcuno sta urlando; passi di uomini con stivali pesanti riecheggiano arroganti.

E ancora, spari.

Mi sveglio di soprassalto, la fronte madida di sudore. Cos’è stato: forse era solo un brutto sogno o forse un ricordo antico, di tanto tempo fa. Non so, non capisco.

C’è un uomo qui con me. Il suo viso è avvolto nella penombra della stanza e, per quanto possa sforzarmi, non riesco a distinguerne i lineamenti in modo nitido; lui si muove svelto intorno a me, infliggendomi con grande perizia torture di ogni genere.

Non capisco per quale motivo non mi leghi. I miei polsi sono liberi così come le mie caviglie, potrei alzarmi dalla sedia in qualsiasi momento e fuggire. Ma non riesco a muovermi. Ogni centimetro del mio corpo resta immobile, rigido, completamente e spontaneamente alla sua mercé.

Mi stupisco del tempo che passa qui con me, come se non avesse un’esistenza al di fuori di questa stanza; non fa’ domande, non parla. Da un momento all’altro mi aspetto l’arrivo di un suo superiore, un socio, per interrogarmi. Riguardo a cosa poi?– mi chiedo.

Le sue mani sono grandi e callose, con vene gonfie e verdi che emergono sulla superficie della pelle secca. Non ha alcun odore, non puzza né profuma, ed è vestito sempre allo stesso modo.

Non saprei dire da quanto tempo io sia qui, accasciato su questa sedia; il mio corpo è ormai un fascio di dolori, la mia pelle è tumefatta e gonfia in qualsiasi punto riesca a tastare, a causa di una delle molteplici percosse che mi sono state inflitte. In bocca assaporo il gusto dolciastro del mio stesso sangue e ormai ho l’impressione di non avere più il naso, gonfio e inadatto a respirare. È come se al suo posto avessero posizionato una grossa patata bollente, morbida, quasi in putrefazione.

La testa mi esplode ma riesco ancora a pensare lucidamente: “cosa ho fatto perché qualcuno voglia torturarmi? Non sono ricco e la mia famiglia non possiede nulla per cui valga la pena rapirmi, e allora perché sono qui? Cosa vogliono da me?”.

Le domande si affollano e si sovrappongono ossessivamente nella mente.

Le emozioni si intrecciano confuse in un dedalo di paura, ansia e scoramento; tuttavia in alcuni istanti uno strano calore risale dallo stomaco verso il petto e poi su per il collo che, se non fossi qui, non stenterei a definire come una sensazione di gioia immensa, seppur inspiegabile.

Continuo ad interrogarmi sul motivo della mia presenza in questo luogo, forse è per qualcosa che ho fatto, si ma cosa? Cosa ho potuto fare di tanto terribile?

Le domande mi si materializzano davanti agli occhi in caratteri cubitali, di colore blu, intenso come quello dell’oceano, e l’immagine è talmente fulgida da farmi temere che anche il mio aguzzino possa vederla.

Con una mossa violenta e fulminea afferra la sedia su cui sono seduto e la volge verso un grande tavolo di legno, che mi ricorda tanto quei grandi tavolacci utilizzati nelle botteghe degli artigiani; mi afferra un braccio, sento i suoi occhi scuri fissi su di me ma non li vedo; tiene stretta in mano una bottiglia di plastica, il tappo è già stato svitato. Lentamente reclina la bottiglia; ne esce uno strano liquido schiumoso che inizia a scorrere inclemente sul dorso della mia mano.

Brucia come le fiamme dell’inferno, come se avessi infilato la mano nelle braci ardenti; piccole e incessanti gocce di sudore si riversano sfacciate lungo la fronte; urlo, mi dimeno come un animale in gabbia. Gli occhi mi escono fuori dalle orbite. Lo sguardo fisso sulla mia mano mentre la schiuma corrode lentamente l’epidermide, poi il derma fino allo strato più profondo della pelle. Nella testa un’esplosione di silenziosa urla impazzite, che riecheggiano all’infinito, senza forma né significato.

All’improvviso tutto finisce. Lui ha versato un altro liquido sulla mia mano, il bruciore comincia ad affievolirsi ma il dolore resta, implacabile ed atroce.

Sento l’odio crescere dentro di me, ma non nei suoi confronti, no. Crollo per terra, mi raggomitolo su me stesso stringendo la mia mano al petto, come per difenderla dal mondo esterno. Per un tempo che mi sembra infinito, rimango sul pavimento in posizione fetale, senza parlare, senza pensare. È come se avessi le allucinazioni, le ombre intorno a me si allungano e i suoni si acutizzano, diventano insopportabili.

Sono di nuovo vigile, seduto sulla sedia; sul dorso della mano sinistra osservo l’enorme cicatrice da bruciatura chimica, non fa quasi più male, è mostruoso non sentire più niente.

“Perché sono qui?” – mi domando ancora una volta – “Forse è per qualcosa che ho pensato? Ma cosa?”.

La stanza è immersa in una semi oscurità, c’è un’unica lampada, dalla luce gialla tremolante, che illumina a tratti il mio corpo; un odore salmastro mi pervade le narici, credo di essere in una cantina. L’unico rumore che riesco a cogliere è una sorta di ronzio, continuo, petulante, che scandisce ogni secondo della mia vita trascorsa qui dentro.

Ogni tanto Lui esce dalla stanza da una porta di ferro, sembra molto pesante; ho come la sensazione che non venga chiusa a chiave ma solo accostata.

“Perché sono qui? Possibile che vogliano punirmi?”.

Continuo a scervellarmi ma continuo a non capire.

Il mio aguzzino mi concede due pasti al giorno: il primo è una brodaglia calda, che mi riscalda il corpo tutto. Non appena la deglutisco qualcosa dentro di me è come se esplodesse, mi sento pieno di energie, potrei anche sollevarmi dalla sedia e correre, via da qui; il secondo pasto consiste in del semplice pane accompagnato da due o tre pillole dall’involucro trasparente e piene di piccole briciole marroni. Non so perché ma ogni volta che le vedo mi viene in mente la parola “p – r – o – t – e – i – n – e”.

L’acqua che bevo è calda ed ha un sapore dolciastro, oserei dire che è piacevole.

Di quando in quando scivolo in un tormentato dormiveglia, ma mi sforzo per rimanere sveglio, ho paura dell’ignoto, ho paura del dolore, ho paura di morire.

I sogni si mescolano ai ricordi del passato: languide figure scure, come spiriti, si muovono intorno a me, posso quasi sentirne le voci ma le parole sono indecifrabili, meri suoni mescolati fra di loro; in sottofondo il suono cupo dei tamburi.

Alle volte sogno prati verdi, la luce fioca del sole mi colpisce il viso e una dolce brezza lo accarezza, il mio sguardo volge all’orizzonte, dove grandi montagne verdi si stagliano con le loro punte innevate; sono felice, così felice che quando mi sveglio gli occhi sono gonfi di lacrime.

Mi sforzo nel tentativo di tenere la mente occupata, per non impazzire: faccio calcoli, creo degli indovinelli, invento storie; ma perlopiù ripercorro ogni istante della mia vita, alla ricerca della ragione per cui ora mi trovo qui.

Con la mente risalgo al primo ricordo che ho: il latrare lontano di un cane, i corpi caldi dei miei genitori che dormivano al mio fianco, il battito accelerato del mio cuore e la consapevolezza che da quel momento esistevo. Arrivo velocemente al mio ricordo più recente, quello prima della sedia, prima delle percosse, prima delle torture: il grande schermo, le immagini che scorrevano, la voce che rimbombava dalle casse, gli occhi fissi sullo schermo, i pensieri cristallizzati e poi, l’oblio.

I ricordi mi si offuscano e si amalgamano: il lavoro interminabile seduto ad una scrivania, la schermata gelida e distaccata, le ore trascorse chiuso in casa, il coprifuoco.

Mangio, consumo, bevo, consumo, dormo, consumo.

Una sequenza interminabile di operazioni semplici come avvitare bulloni sul nastro rotante della fabbrica.

“Perché sono qui?”.

Con un ceffone mi riporta alla realtà. Lui è in piedi davanti a me. Sono confuso. Ha in mano un cacciavite, lo vibra in aria e lo fa ricadere nella mia coscia, in profondità. Mi sembra quasi di non sentire alcun dolore.

Osservo quell’oggetto conficcato nella mia carne e mi viene quasi da ridere pensando che alcuni anni prima, quando ero ragazzo, l’immagine di me seduto su una sedia, nella semioscurità di una stanza, con un cacciavite nella coscia sarebbe potuta essere un’opera d’arte.

Perdo i sensi.

Quando mi sveglio ho un forte mal di testa; sono sempre nella stessa stanza, sulla stessa sedia. Ho una coscia fasciata e la benda è puntellata dalle macchie rosse del mio sangue. Ho una strana sensazione.

Un silenzio rumoroso si diffonde, come se fosse stata annunciata la fine di qualcosa. Avverto un fiato sul collo, una sorta di alito caldo senza odore; il cuore mi esplode nel torace. Lo stomaco mi si chiude e le viscere si distendono, mi piscio addosso.

Un fischio acuto mi spacca i timpani.

Sento un odore stantio salire dalle narici fino alle cavità più nascoste del mio cranio.

Lui è davanti a me, in silenzio, seguo i suoi movimenti con la coda dell’occhio.

La scena è surreale, ho la sensazione di vivere in una moviola: la lama si avvicina, lenta e inesorabile, ed io la guardo avvicinarsi, immobile. Incapace di muovermi, di pensare.

La lama entra nel mio stomaco, morbida, come un cucchiaino che affonda nel burro. Scorre sempre di più, sempre più dentro finché non resta fuori solo il manico in legno. Ho un coltello conficcato nel mio addome, vedo il suo manico che sporge dal mio corpo e non sento nulla. Sono fatto di gomma.

E in quel momento, un istante prima che la lama esca dal mio stomaco, mi accorgo che non c’è nessuno qui con me, né davanti, né dietro, né ai lati. Nessun aguzzino, nessun uomo. Sono assolutamente solo io.

Il coltello dalla mia mano insanguinata cade rumorosamente sul pavimento, le braccia mi cascano sui fianchi, distendo le gambe e lentamente scivolo via dalla sedia, giù sul pavimento freddo. Mi ritrovo supino, lo sguardo fisso sul tetto della mia cantina, non ho più forza dentro di me.

L’aria entra ed esce faticosamente dai polmoni. La mente offuscata da un fumo azzurrino, come la brina invernale.

Davanti agli occhi scorrono immagini di automi che percorrono una lunga strada come pecore destinate al macello.

È giorno e non c’è alcun rumore.

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2 commenti »

  1. L’idea è buona, ho qualche dubbio stilistico e ci sono un paio di punti in cui trovo che ti sei dilungato troppo. È originale e spaventoso, se questo era ciò che ti eri prefisso, hai ottenuto il risultato.

  2. Kafkiano come il “Processo”!

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