Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Salita e Discesa” di Lorenzo Vannucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Che la missione di esplorazione fosse totalmente compromessa fu da subito fin troppo chiaro a Charlie Leduc, il “Dannazione” preoccupato che risuonò nelle cuffie collegate al centro di comando non fece altro che confermargli quella prima, catastrofica impressione.
Dopo essersi allontanato con il suo jet pack dal portellone inferiore posto sul lato sinistro del satellite Columbus-4 per un normale controllo di routine, Charlie si ritrovò a dover affrontare una situazione del tutto inaspettata. Grazie al collegamento radio sentì i suoi due colleghi che si trovavano ancora dentro Columbus iniziare l’ennesima discussione sui problemi più futili. Per evitarsi il fastidio di dover ascoltare, Charlie staccò temporaneamente la cuffia, isolandosi così per qualche minuto per godersi il meraviglioso panorama galattico che si offriva al suo sguardo. Iniziò dunque a controllare il motore esterno al quale, secondo il pannello di controllo centrale, risultava un’anomalia. Purtroppo avendo scollegato il collegamento radio con i compagni non riuscì a sentire, e di conseguenza a intervenire, nella violenta lite che stava scattando nel frattempo sul Columbus. I due colleghi infatti, non soddisfatti degli insulti che si erano fatti sempre più pesanti, esplosero in un impeto di rabbia passando alle mani. Dopo una serie di spinte e schiaffi a gravità zero Gerald, il più vecchio dei due, finì scaraventato sul pulsante che attivava il razzo destro del satellite.
Charlie incredulo si ritrovò quindi a osservare il satellite partire davanti a lui rimanendo completamente paralizzato, incapace di aggrapparsi a qualsiasi sporgenza per non rimanere abbandonato lì, nel colossale vuoto che colma lo spazio fra un pianeta e l’altro. Provò a riaccendere il collegamento con il centro di comando per chiedere aiuto ma riuscì a sentire una sola parola prima che questo si disconnettesse definitivamente: -Dannazione-. Non fece in tempo a metabolizzare quanto fosse appena accaduto che venne sballottato dall’onda d’urto proveniente dal razzo del satellite, iniziando a cadere vorticosamente nel vuoto, scaraventato nella direzione opposta a quella del Columbus. Provò inizialmente a contrastare il moto utilizzando il suo jet pack ma a causa della forza troppo elevata sprigionata del reattore si rivelò immediatamente una tattica del tutto fallimentare.
Dapprima spaventato e completamente bloccato Charlie Leduc si ritrovò a
fluttuare nel profondo spazio cosmico, perduto da qualche parte nella via lattea. La certezza di essere ormai condannato gli opprimeva lo stomaco come un macigno, si sentiva come rinchiuso in una morsa che gli impediva di respirare. Decise di riprendere il controllo e cercò di calmarsi; con la mano che tremava incessantemente dentro i guantoni della tuta spaziale controllò sul pannello da polso quanto ossigeno avesse a disposizione, ce n’era abbastanza per riuscire a sostentare alcune ore, non era spacciato, magari i suoi colleghi ce l’avrebbero fatta a recuperarlo, pensò.
Iniziò a respirare profondamente, il lento inspirare e espirare rimbombava in maniera assordante all’interno del casco della tuta, sembrava essere l’unico rumore udibile per migliaia e migliaia di chilometri. Gli venne in mente quell’indovinello che gli fece suo padre quando aveva poco più di sette anni: -Se un albero cade nel bosco e nessuno lo sente fa rumore?- Charlie pensò di non aver mai capito il senso di quella domanda. Era sempre stato troppo razionale e attaccato alla realtà per porsi certe domande di carattere filosofico, in quel momento, però, si sentì cadere il mondo addosso mentre quell’interrogativo assumeva finalmente un senso. Capiva di trovarsi in una situazione simile a quella dell’albero, e fu come se il suo corpo improvvisamente pesasse una tonnellata, come se la sua essenza non tangibile, terrorizzata, cercasse di scappare attraverso la pancia al di fuori della gabbia di pelle che la imprigionava. Lottò per non farsi prendere dal panico ma sentiva di essere sudato, percepiva il sudore freddo del terrore macchiare gradualmente la divisa termica che indossava sotto la tuta. Passò ancora qualche minuto prima che riuscisse davvero a calmarsi, abbandonandosi al suo destino con la tenue speranza di avere ancora la possibilità di essere salvato. Sprofondando nel buio universo come se fossero gli abissi dell’oceano, Charlie, come ogni uomo con la coscienza di essere giunto al capolinea, si abbandonò al pensiero di ciò che era stata la sua vita, ricostruendo sentieri che aveva scordato e esplorando con la mente luoghi fino ad allora inesplorati
Charlie Leduc era nato in un paesino rurale del Minnesota. Fin da piccolo dimostrò uno spiccato talento nella matematica che raggiunse il suo massimo potenziale al college; entrò infatti con una borsa di studio in una delle università più esclusive degli Stati Uniti e si laureò con il massimo dei voti in fisica quantistica. La passione per lo spazio e l’ingegneria aerospaziale, lo condusse a proseguire gli studi in un famoso centro di ricerca in Maryland che operava nel settore delle spedizioni interspaziali. Le sue lodevoli qualità gli permisero di affermarsi abbastanza in fretta nell’ambiente scientifico del centro dove iniziò a godere sempre più di un’ottima fama. Un pomeriggio di ottobre, un suo collega scherzò sul fatto che grazie alla sua prestanza fisica, Charlie avrebbe potuto seriamente prendere in considerazione di provare a superare i test per essere spedito nello spazio. Inizialmente Charlie era scettico, ma quell’idea buttata lì per gioco col tempo iniziò a insinuarsi nella sua testa al punto da entusiasmarlo. Un anno dopo Charlie si offrì come volontario e dopo aver brillantemente superato tutti i test necessari fu spedito nello spazio per una missione esplorativa sul Columbus-4, il fiore all’occhiello dei satelliti statunitensi.
Intanto che continuava a precipitare nello spazio Charlie si trovò a rivivere ad occhi aperti alcuni dei momenti della sua vita. Il primo che gli venne in mente fu quando la maestra delle elementari che lui adorava, si congratulò per l’eccellente compito di matematica che aveva consegnato. In un lampo si ritrovò a pensare a quando, la prima volta che arrivò nel centro di ricerca in Maryland, un gruppo di ingegneri lo guardarono dall’alto in basso facendo un commento sprezzante sul fatto che pure i ragazzini inesperti venissero assunti in quel settore. Ricordò che quel commento, che all’epoca decise di ignorare, lo aveva segnato più profondamente di quanto avrebbe mai voluto ammettere, spingendolo ulteriormente a dimostrare di essere all’altezza dei suoi colleghi. A questo punto la sua mente lo portò immediatamente a quella volta in cui, a dodici anni, insultò la madre in seguito a una lite, e quest’ultima scoppiò in lacrime dopo avergli tirato uno schiaffo. Si sentì commuovere mentre il naso si informicoliva e gli occhi si facevano lucidi portandolo sul punto di piangere. Detestava l’idea di aver fatto star male sua madre, la persona al mondo che gli voleva senza dubbio più bene. Non riusciva a ricordare cosa disse di preciso, la memoria aveva cancellato le parole rendendole ormai suoni incomprensibili pronunciati in un frammento nebbioso di ricordo. Charlie rimase confuso e tormentato da quell’immagine della madre che si allontanava di fretta con la faccia rigata dalle lacrime, come fossero gli squarci infettati di un malato. All’epoca non fu tanto lo schiaffo che ricevette, quanto l’afflizione per il pianto di sua madre che rimbombava trafiggendo le pareti dalla stanza accanto, a far divampare in lui il più intenso dei dolori. Il ricordo lo fece sentire sempre più una persona orribile, colmandolo con un sincero senso di colpa malgrado si trattasse di una cosa accaduta molti anni prima. Non riusciva a perdonarsi per aver procurato un tale dispiacere a una persona a lui tanto cara. Lo stomaco si strinse nuovamente in una morsa e la gola iniziò a chiudersi dandogli la sensazione di essere strozzato, fu come se il suo stesso corpo volesse punirlo per ciò che aveva fatto. Il riflesso nel vetro del casco delineava i tratti del volto della madre, che rimanevano stampati indelebili, nella sua mente, intanto che il riflesso si sbiadiva per le lacrime che permeavano i suoi occhi fra un conato di vomito e l’altro. Desiderava con tutto sé stesso poter avere davanti la madre per poterle parlare e chiedere scusa, per un ultima volta, prima dell’inevitabile.

*Beep
Un segnale acustico lo riportò alla realtà, il pannello da polso segnalava che una delle 3 tacche di ossigeno di cui disponeva se ne era andata. Non rimaneva molto tempo. La mente di Charlie lo portò al volto di Scarlett, la sua ragazza. Quello splendido volto un po’ a punta, con quei profondissimi occhi scuri che gli rimasero tanto impressi la prima volta che li vide, e quei capelli fra il biondo e il castano che le cadevano simmetricamente sulle spalle facendole da cornice. Non riuscì a non pensare a quanto infedele le fosse sempre stato in realtà. Per quanto non ci tenesse ad ammetterlo, per quanto si sforzasse di non ammetterlo, Charlie aveva sempre provato un sentimento molto più acceso per Margaret, una ragazza che conobbe fra le cattedre del college. Il desiderio era fermentato sempre più negli anni via che questo amore perduto non aveva mai avuto modo di manifestarsi, lasciando nella mente di Charlie una fievole e inesauribile speranza, alimentata assiduamente dal motore perpetuamente acceso della fantasia che si muoveva in realtà parallele di pura e ipotetica felicità con lei. Quell’unica ragazza riusciva a creare in un uomo così saldamente attaccato alla realtà, così pragmatico e razionale, un sentimento ardente che andava al di là di ogni logica e ragione, un sentimento così tristemente diverso da quello che provava per Scarlett.
Solo in un momento di lucidità come quello, zuppo di rassegnazione precedente alla morte, riuscì a far sentire Charlie colpevole di aver sacrificato tutto per la carriera, e di aver legato a sé una donna come Scarlett, che amava ma in un modo così incatenato all’abitudine e poco passionale, da poter essere a stento giudicato tale. Attanagliato dai sensi di colpa Charlie sentiva la sua testa esplodere in una girandola di pensieri, quelle tante voci contrastanti che gridavano dentro di lui si erano infine organizzate, come un coro, per ricordagli quanto avesse sbagliato. Lui stesso sapeva, e qui sta l’inscindibile dilemma che si stava ponendo tormentandosi, che se avesse seguito un altra via, se fosse andato a prendersi Margaret quando ne ebbe l’occasione, si sarebbe ritrovato comunque insoddisfatto. Charlie si trovò quindi a ragionare sulla natura umana, così incomprensibile e primitiva: -Che sia proprio quell’insoddisfazione e quell’incapacità di accontentarsi, la molla, il perno, che ci ha fornito lo slancio necessario per superare tutte le altre specie. Quella sete insaziabile, che sia quella?- si domandava -ad averci spinto fin qua, ad esplorare i meandri dello spazio, oltre i confini che la natura ci ha così crudelmente imposto, incatenandoci come animali da circo e limitando la nostra vita, la nostra esperienza, riducendo tutto a uno spettacolo grottesco dentro un colorato tendone, solo per divertire qualcuno, o qualcosa al di là della rete, seduto comodamente sulle poltrone a guardarci ridendo.

*Beep
Il segnale acustico indicava che pure il secondo terzo di ossigeno era andato, facendo riemergere Charlie Leduc dalla deprimente realtà in cui si era tuffato. Iniziò ad accusare un leggero giramento di testa: -Sarà la mancanza di ossigeno- pensò. L’inevitabile si avvicinava e Charlie, consapevole, non riusciva a smettere di pensare. Realizzò di trovarsi per la prima volta in vita sua, a riflettere realmente sull’essenza della vita, sul senso stesso dell’esistenza. Il sottilissimo filo dei suoi pensieri che seguiva così scrupolosamente saltando da un ricordo all’altro, rappresentava ormai per lui un salvagente che lo teneva a galla. Era l’unica cosa che lo tratteneva dall’affondare nell’abisso di orrore che lo avrebbe risucchiato se si fosse messo a pensare, anche solo per un secondo, all’irrisolvibile situazione in cui era intrappolato. La sua mente lo aveva volontariamente rinchiuso in una spirale di pensieri, in un labirinto di specchi, che lo avrebbe tenuto occupato fin tanto che sarebbe stato possibile, creando così un sistema di autodifesa dal crudele destino che lo attendeva.
Come aveva fatto, iniziò a domandarsi, a passare così tanto tempo a ridurre tutto a gravità atomi e spazio, dimenticandosi il resto. Come se la conoscenza fosse riuscita a soddisfarlo, come se una volta imparata l’impalcatura fisica della nostra realtà quella fame di nozioni si fosse placata. -A che scopo? Adesso ho capito, si, adesso ho capito il senso del tutto. Non vuol dire niente, ci siamo creati una dimensione apposta per noi, ci abbiamo messo tanto impegno per riempire le nostre vite. La società, è la società la dimensione all’interno della quale noi dobbiamo vivere… Non possiamo ridurci a pensare a noi proporzionandoci con l’universo, pure l’uomo più ingenuo si sentirebbe inutile, vuoto e privo di un significato, se confrontato con l’immensità del tutto. Allo stesso modo è inutile confrontarci con il microscopico- pensò Charlie -chiunque finirebbe col manifestare deliri di onnipotenza. No, noi abbiamo la società, quello è il posto per noi, per non sentirci smarriti, per colmare la nostra vita di cose di cui non abbiamo bisogno. Solo così riusciamo a passare il tempo. Solo così riusciamo ad illuderci di dare un significato alle cose, ed è forse proprio questo il significato stesso, il senso, che le religioni vanno così pateticamente offrendo attraverso Dio, il paradiso e la beatitudine. No. Cosa sto dicendo?- rifletté -Ho passato la mia intera vita a voler essere più dell’uomo comune, ho impiegato anima e corpo per andare oltre i limiti della conoscenza, questo da valore a tutto. Non importa quanto infelice possa essere adesso, non mi importa quanto tutto possa non avere senso. Io ho oltrepassato i limiti della conoscenza umana, io sto per ricongiungermi con lo spazio! Sono il niente che fluttua nel niente, ma è l’assenza stessa di un senso a fargliene assumere uno. La mia volontà è quella molla, quella tensione verso l’incomprensibile! Quella! Quello è Dio. Quello è ciò che da un motivo di esistere a tutto ciò che mi circonda. Che sia questo il senso della vita?- Si domandò Charlie Leduc. -Non sono ancora morto, vorrei che qualcuno potesse sentire tutto ciò che ora ho da dire. Adesso si che vedo chiaramente!- Fece una pausa riflettendo un momento. -Magari sto farneticando. Magari la carenza di ossigeno mi fa considerare accettabili conclusioni che altrimenti considererei folli. Come faccio a ottenere una risposta, ho bisogno di un giudice, un maestro, qualcuno che mi dica se ho ragione o torto-
La razionalità invase nuovamente la sua mente: -Sto solo impazzendo- Pensò rassegnato. – Tutte le mie conclusioni, altro non sono che reazioni chimiche che si svolgono nel mio cervello. Non esiste niente di reale. Sono solo percezioni, è il mio cervello a dare forma a tutto. Come abbiamo potuto diventare entità così complesse evolvendoci da un solo batterio? Straordinario, l’universo è straordinario- Come emergendo dallo stato di trance in cui si era immerso, Charlie Leduc iniziò ad osservare le luci e le costellazioni che aveva di fronte. La soluzione si poneva così chiara davanti ai suoi occhi che ormai era entrata a far parte del paesaggio cosmico. Intanto continuava nel suo moto verso l’incognito, affondando sempre di più in quell’abisso stellare; il tempo stava per scadere. Si era calmato. La rassegnazione era l’unico sentimento che riusciva a distillare consciamente da quell’oceano di sensazioni. Poi irruppe nella sua mente un pacato senso di disperazione, tutto ciò che aveva capito si era ridotto al niente, non era materia, non aveva certezze, ogni conclusione sarebbe rimasta sprecata, ridondando come un eco per tutto l’universo, un eco che nessuno sarebbe mai riuscito a sentire.
Schiacciato dal tutto, Charlie iniziò a piangere.
Le sue lacrime estinsero quella flebile fiamma di attaccamento alla vita e cominciarono a rigare il suo volto come anni prima rigarono quello di sua madre.
-Vorrei tanto che ci fosse qualcuno qui con me.-

*Beep

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3 commenti »

  1. Inquietante e coinvolgente

  2. In to the wild in versione fantascentifica. (non sto dicendo che l’hai copiato, dico solo che lo ricorda)
    Ti segnalo un refuso: (creando così un sistema di autodifesa dalla crudele destino che lo attendeva.) hai scritto “dalla” invece che “dal”
    Il racconto mi è puiaciuto, molte riflessioni sono davvero belle. Nel finale un po’ contorte, ma rendono l’idea della mancanza d’ossigeno e del leggero stato di delirio indotto dalla paura.
    Complimenti.

  3. Con un cognome così non potevo non leggerlo… E mi è piaciuto questo senso di yoga cosmico… Bello, scoppiettante, complimenti!

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