Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “La fame del gabbiano” di Eleonora Serafino

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Che cavolo avete da guardare, malati cattivi!?! Sì, mentre voi aspettavate, esausti orfani di pazienza, pieni di ansia e di noia, io mi sono scopata il dottore. Sì, quel bell’uomo che a voi sembra San Pellegrino il guaritore, con il bisturi al posto del crocefisso, quello di cui parlate come un Dio salvifico, nei pomeriggi umidi trascorsi a respirare l’aria viziata della sala d’attesa. Proprio quello. Che poi non è un Dio, lascia i calzini sporchi sul pavimento per giorni, proprio come il più pigro dei mariti. Fa finta di saper fumare per darsi un tono, perché quando i suoi coetanei imparavano, lui era troppo sfigato per entrare nel gruppo dei belli e inaffidabili coi jeans strappati e tanti due in pagella. E prima di baciarmi, la prima volta, ha accozzato parole improbabili, frasi inopportune e gesti goffi, perché l’occhio verde che non perdona è solo un immeritato dono di natura. Del bel medico di E.R. non ha nulla. Bello sì, ma finto spavaldo. Sappiatelo, malati cattivi.

Elena attraversa stropicciata il corridoio stretto che conduce alla sala d’attesa. La giacca sgualcita come quando ai tempi dell’università, ubriaca come un marinaio inglese, si addormentava vestita e la mattina servivano solo la lavatrice col doppio risciacquo e due aspirine. Passa entrambe le mani sulla gonna, tira in giù gli orli, strappa via dal polso un elastico e lega i capelli in una coda alta. Arriva alla stanza del caos che si sente quasi presentabile. Passa fulminea tra le persone in attesa del proprio turno di visita. Volti pallidi, occhi liquidi, camminate sbilenche, teste lisce come lumache o inguainate in foulard di cattivo gusto, bocche che sbuffano, bocche che mangiano, bocche che parlano. E parlano. E parlano.

Negli anni aveva imparato che per sopravvivere al purgatorio, a quella stanza grande ma così affollata da sembrare più piccola e fredda di un frigo da campeggio, era necessario armarsi di giornali, libri e silenzio. Le prime volte aveva pianto dentro. Di quei pianti che fanno più male, che bruciano di più, perché spinti a fatica giù, in un luogo che immaginava tra lo stomaco e il cuore, un nuovo organo preposto al raccoglimento delle lacrime trattenute e che prima o poi -lei lo sapeva- sarebbero straripate. La prima volta che aveva pianto dentro era stata al racconto della signora con la quinta recidiva, poi a quello del ragazzo con la metastasi al fegato, poi del signore salvo al costo di una gamba. Perché in quel reparto spesso funzionava così: “O la vita o la gamba”. E chi aveva scelto la prima si riteneva fortunato. Elena si era chiesta spesso come fosse possibile ritenersi fortunati con una gamba o un braccio soli. Dopo un po’ aveva imparato la regola fondamentale per la sopravvivenza in una sala d’attesa di un reparto oncologico: mostrarsi impegnata, impegnatissima. La testa china sulle pagine di un libro, lo sguardo ficcato nello schermo di un pc o di un cellulare, la schiena dritta, le gambe accavallate. Non sembrare malata. Non sembrare meritevole di pietà. Più sembri meritevole di pietà, più la gente chiede. Più la gente chiede, più devi smuovere i piatti riposti nella credenza, anche quelli pieni di crepe, anche quelli che hai riparato da poco. E non sai se la colla tiene. E non sai se spostandoli, poi saprai rimetterli di nuovo a posto. In quell’ordine lì, così precario, che però è un ordine, il tuo. Semmai cascano tutti. Semmai poi casca la credenza.

Con questa strategia pensava di essersi salvata dall’esplosione verbale del malato oncologico. Una diarrea di parole così intrise di solennità da sembrare biografie postume, a volte veri e propri necrologi pronunciati dal morto parlante. Il malato oncologico vuole sapere, ha bisogno di sapere che non è l’unico. Ha bisogno non solo di conoscere il dolore altrui, ma spera che superi il suo anche di poco, per sentirsi un po’ più fortunato, a tratti miracolato. Ma oltre ogni cosa, il malato oncologico, o, caso ancora meno auspicabile, sua madre suo padre suo fratello sua sorella suo figlio sua figlia suo nipote, vuole raccontare. Quando lo ha scoperto. Quando è stato operato. Chi l’ha operato (giubilo se il chirurgo è lo stesso, condividiamo carnefice e salvatore!, pensa). Il decorso post operatorio. Ogni terapia, ogni ricovero, ogni sintomo, ogni ferita, ogni cicatrice.

Così Elena, dopo un po’, aveva capito che la sua strategia necessitava di aggiustamenti: ok l’aria impegnata, ma l’aria “sono figa”, quella no. Perché semmai, malauguratamente, fosse trapelato che la paziente era proprio lei, con le sue cosce sode in equilibrio stabile sui tacchi alti, viste in un reparto oncologico ed ortopedico come un quarto di manzo in un ristorante vegano, la curiosità sarebbe cresciuta più del debito pubblico in Grecia. E insieme alla curiosità, la cattiveria. Molti malati oncologici diventano cattivi. La malattia, in certe persone, succhia ogni ottimismo. Ogni dolore aggiunge una pennellata di cinismo ad una facciata sempre più sgretolata, su cui spesso non c’è intonaco che tenga, parola di conforto o gesto inaspettato a impedire perdite ed infiltrazioni. Muffa. Muffa ovunque. Perfino negli occhi. Ed Elena questo lo sapeva bene. Come sapeva bene che non tutti diventano cattivi. Ci sono anche malati che ad ogni colpo hanno gettato via dall’anima, come bagagli superflui da una scialuppa di salvataggio, pesi inutili. Fino a diventare leggeri, così leggeri da volare sulla vita, sulle sue brutture ed inutilità terrene, con una grazia da far invidia al più superficiale degli uomini, altrettanto capace di planare sul mondo, ma senza l’inconsapevole saggezza di un sopravvissuto, che sa su quali fiori fermarsi per trarne linfa vitale e su quali no. Elena spesso aveva scorto tanta sapiente leggerezza, in tanti sguardi. Ma aveva conosciuto anche chi con ogni muscolo del volto, seppur immobile, seppur silente, le aveva detto: “Ti odio perché sei giovane, ti odio perché puoi ancora farti lo shampoo e le trecce, ti odio perché cammini su due gambe, ti odio perché la malattia non ti ha ancora incrinato verso il basso, in maniera perenne, gli angoli della bocca, ti odio perché non ti ha sottratto ancora la bellezza, ti odio perché stai sopravvivendo meglio di me”. Frasi mai pronunciate, ma lei le aveva sentite, una dopo l’altra, più volte, in ordine sparso. Ora stava uscendo da quella stanza e stava odiando tutte quelle facce sparute, quelle palpebre spalancate sul mondo solo dalla paura o dalla disperazione, quei corpi legati all’esistenza da fili troppo sottili che chiamano fede o speranza. Li odiava tutti. Indistintamente. Li odiava perché esemplari imperfetti della razza umana, prodotti fallati, come borse che escono da grandi fabbriche già col difetto e a cui per questo non verrà mai affissa l’etichetta della griffe. Fosse il loro anche solo un minimo difetto, ma sufficiente a farle finire non al braccio di una signora elegante che viaggia per il mondo con le narici al cielo e il suo barboncino rinsecchito ma in un mercato di second’ordine. Odiava quelle borse malmesse e al contempo si rifiutava di finire nello scaffale degli articoli difettati insieme a loro. Con la testa lucida, la pelle che suda medicinali, il colorito di una creme brulè al latte di soia. Non voleva, ma dal momento che era lì, forse stava già condividendo quello scaffale. Poco importava se gli altri su quel lettino ci erano saliti per una visita e lei per giocare al dottore. Particolari che non scagionano, che non regalano la perfezione. Odiava loro per non odiare se stessa, stava diventando una malata cattiva. Lei che avrebbe voluto salvare tutti i cani randagi, i senzatetto. i senegalesi ai semafori e i bambini del tg con gli occhi acquosi e le pance gonfie di fame, stava iniziando ad odiare gli imperfetti. E ad invidiare i perfetti, quelli che possono programmare la vacanza un anno prima, che ogni due mesi devono ricordarsi al massimo di pagare corrente e telefono e non di entrare in tubi rumorosi per farsi scansionare ogni parte del corpo, quelli che si disperano, sinceramente, incondizionatamente, senza freni, né ritegno, per amore. Ricordava bene l’ultima volta che aveva visto piangere una persona per amore. Aveva amato quelle lacrime. Avrebbe voluto leccarle tutte, bagnarsi la lingua di quell’acqua salata come di una pozione magica per ritornare all’antica purezza dell’ingenuo. Di quello che crede sempre che le malattie impronunciabili colpiscano solo gli altri, che non pensa alla morte come ad una vicina di casa prossima ed inevitabile, che riesce ancora ad innamorarsi come fosse la prima volta. Di quell’amore incondizionato, di quell’amore che “senza di te, io non vivo”. Elena, invece, aveva imparato che senza Elena non era possibile vivere. Si era persa, più volte. Ad ogni impatto inaspettato col cancro, un incidente impietoso, uno scontro in pieno volto con un treno in corsa. Pezzi sparsi ovunque, il cervello al posto del cuore, il cuore al posto delle corde vocali. Aveva preso ogni pezzo, raccolto anche i brandelli di sé che sembravano irrecuperabili, catapultati lontani in un lungo urlo di dolore senza voce, e li aveva riposti dove necessario. Aveva ricomposto il puzzle. Si era persa e ritrovata. Tante volte in quegli ultimi dieci anni, ad ogni diagnosi crudele, ad ogni pericolo ritornato dopo un pericolo scampato. Ogni volta che sembrava fatta, che sembrava l’ultima ricostruzione faticosa, dopo la quale avrebbe potuto andarsene su e giù per la vita con tutti quei tasselli del Lego un po’ smaccati ma che in qualche modo miracoloso stavano insieme. Ed invece era arrivato qualcuno in camice bianco a dirle che neanche quella era la volta giusta, che il nemico li aveva presi tutti in giro, travestendo da resa un momentaneo riposo. Apri e cuci, apri di nuovo, togli una losanga di muscolo, cattura il mostro, apri e richiudi, taglia e ricuci. E poi armati di pazienza e riprova a camminare come se il corpo non fosse stato un tempio saccheggiato. La riabilitazione, cinque volte in dieci anni. I ricoveri, cinque volte in dieci anni.

Ora qualcuno, ancora una volta vestito di un bianco pesante, era venuto a dirle che non c’è cinque senza sei.  Forse. Una volta si sarebbe aggrappata con le braccia tese e le unghie sanguinanti, a quel “forse”. E avrebbe sperato, fino al responso sibillino dell’ago aspirato. Ora no. Stava pattinando sul ghiaccio, non stava semplicemente passeggiando. Dopo l’ultimo intervento, aveva ripreso a camminare, poi a correre. Infine, non paga, era salita su dei favolosi pattini d’argento e stava volteggiando sul mondo, anche sui terreni più duri e scivolosi, in perfetto equilibrio su lame sottili.

 

 

 

<<Buongiorno, dottore>>

<<Buongiorno a lei. Ho parlato con la dottoressa Chirico, dice che cercherà di affrettare il più possibile la consegna dell’esame istologico, perché…>>.

<<È sicuro, dottore, di voler parlare di questo?>>, lo interrompe Elena, che seduta dall’altro lato della scrivania con espressione severa punta dritto ai suo occhi come a volerglieli strappare, mentre già da qualche secondo si è lasciata scivolare dal piede, silenziosa come una biscia, una scarpa.

Giacomo incalza, cercando di conservare nella voce e nei gesti il distacco che si confà al luogo, mentre il suo corpo, schiacciato contro lo schienale della sedia, immobile, quasi ieratico, nella sua mente è già sgusciato via dal camice per seguire le vie scomode del desiderio.

<< Se siamo tempestivi… >>, continua come se non fosse stato mai interrotto.

<<Sicuro di voler parlare, dottore?>>. Il suo piede ora si muove contro la coscia di Giacomo. Lui fa un lungo sospiro nel tentativo di raschiare dal fondo l’ultima briciola di professionalità. Tentativo fallito. Miseramente. Scuote la testa, più volte, si alza, facendo leva con entrambe le mani sul tavolo, si piega verso di lei e la bacia. Quasi a volerla mangiare, quasi a volerla zittire, a sua volta da lei zittito.

 

<<Non può sempre finire così tra me e te, Elena. Dovremmo…>>.

<<Dovremmo, dovremmo, dovremmo… Dovremmo lanciarci da questa finestra e volare via come gabbiani>>.

<<Non ci sono gabbiani a Napoli, c’è troppo inquinamento perché sopravvivano>>.

<<Ed invece sì. I gabbiani vivono di inquinamento. Si cibano dei rifiuti prodotti dall’uomo, un po’ come te>>.

<<Sono un chirurgo, Elena. Un chirurgo. Un ortopedico.  Non una gabbianella. E poi perché sai così tanto di gabbiani tu?>>.

<<Sono una giornalista. I giornalisti campano di informazioni prese qua e là, fingendo di saperne più degli altri>>.

<<Quando ci vediamo per parlare di cose serie?>>.

<<Chi decide cosa è serio e cosa no? I gabbiani napoletani per me sono cose serissime. Lo sai che per colpa dell’inurbamento selvaggio sono diventati super aggressivi e spesso attaccano piccioni, cani, gatti… Perfino esseri umani. Potresti finire cibo per gabbiani, una lauta cena per loro: carne e clorexidina>>.

<<Riesci sempre ad essere così…>>.

<<Vomitevole?>>

<<Cinica, stavo per dire cinica>>.

<<Non sono cinica, sono realista. Quello dei gabbiani è un problema serio. Come è un problema serio che fuori c’è una giornata meravigliosa e un sole che scioglierebbe tutti i ghiacciai dell’Antartide e noi siamo qui a scopare su ecografie e risonanze.>>

<<Da queste ecografie e risonanze dipendono vita e morte di molte persone. Queste sono cose serie, per cui è serio ed importante che io sia qui>>.

<<Non te ne accorgi, ma per te sono seri ed importanti solo i mostri che abitano i tuoi pazienti. È diventata un’ossessione la tua. Quando inizi a vivere?>>.

<<Quando ci vediamo?>>.

<<A inizio settimana parto, vado a Cannes, c’è il  Festival. Torno a fine mese>>.

<<Un festival del cinema che dura un mese? Non si è mai visto!>>

<<Penso mi fermerò qualche giorno in Puglia, ho voglia del mare salato del Salento. O a Venezia, voglio andare in gondola>>.

<<Anche in costiera amalfitana il mare è salato, perché andare fin in Puglia? Nella vita ci sono delle priorità!>>.

<<Giusto, le orecchiette con le cime di rapa sono la mia priorità in questo momento>>.

<<Sei un’irresponsabile>>.

<<Buon lavoro, dottore>>.

Elena si chiude la porta alle spalle, lasciando annegare Giacomo in un mare di domande, imprecazioni taciute e gesti trattenuti.

 

 

 

Fa le scale. Di corsa. Niente ascensore, sono piccoli. Piccoli e lenti gli ascensori dell’ospedale, devi sostenere lo sguardo di qualcuno in mezzo metro, non puoi sfuggire, in mezzo metro. Devi abbozzare semmai anche un sorriso di circostanza. Se no sembri stronza, se no sembri scortese, se no che fai? Ma Elena non aveva nessuna voglia di sorridere.

Percorre tutte le trentacinque mattonelle blu notte, lucide e splendenti, tempestate di stelle argentate. Le uniche cose belle e luminose in una struttura fatiscente, un fiocco di seta su una testa canuta e mal acconciata. Mattonelle arroganti. Ogni volta che le calpestava prima di raggiungere, finalmente, contenta, la porta d’uscita, lo pensava. “Mattonelle arroganti! Stonano col resto, eppure se ne stanno lì, a risplendere incuranti, confinando con ascensori piccoli come lattine e distributori di snack che necessitano di calci e colpi d’anca per fare il loro dovere. Mattonelle arroganti!”.

La porta che conduce all’esterno è di quelle a cui dai mezza spinta e si aprono all’istante per poi tornare al loro posto. Elena ogni volta ci si gettava come quei pipistrelli che non vedono il vetro e in picchiata contro una finestra chiusa, con tutta la forza vitale che hanno in corpo, nello schianto trovano la morte. Ogni volta ci si gettava così, contro quella porta, ma vi ci trovava la vita. Usciva da quel posto e  se ne riappropriava, l’aria entrava di nuovo nei polmoni, dentro l’ossigeno, fuori l’anidride carbonica. Uno due tre, battito del cuore, uno due e tre, circolazione venosa e circolazione arteriosa. Uno due e tre, le gambe che si muovono, i capelli agitati dal vento o bagnati dalla pioggia. Uno due e tre, la vita. Perché lì dentro si fermava tutto. E lì fuori tutto riprendeva. “Furba lei!”, avrebbe detto qualcuno. Le strade per la sopravvivenza le aveva imparate tutte. Aveva trovato un altro escamotage: quel che accade fra quelle mura muore fra quelle mura, dopo la porta ci si spoglia della pelle malata, dopo la porta il ricambio epidermico e salvifico.

Anche quel giorno come un pipistrello. Un rapido colpo ed è di nuovo luce. È maggio ed il sole è cocente. Che bello sentirlo in volto!

 

 

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34 commenti »

  1. Il tuo stile spigliato e colmo di immagini evocative è riuscito a farmi attraversare piacevolmente una storia intrisa di dolore, ma con un retrogusto incomprensibilmente allegro. Complimenti.

  2. È stupefacente come un lettore possa trovare in ciò che tu stessa hai scritto aspetti che non avevi considerato (come l’allegria), almeno non in maniera conscia. Grazie di cuore, Roberto.

  3. Accidenti che racconto. Una sventagliata di emozioni forti e di dolore in salsa agrodolce. Riesce a colpire duro (” il nemico li aveva presi tutti in giro, travestendo da resa un momentaneo riposo”), e nel contempo è dotato dell’ ironia giusta, equilibrata, quella che, nonostante tutto, ti strappa più di un sorriso. Davvero brava

  4. Davvero grazie, Ottavio. Sono contenta sia trapelato qualcosa che fa parte di me, che mi accompagna sempre: l’ironia. Perché, così armàti, la vita è più lieve.

  5. Molto coinvolgente, ben scritto e con un tanto di politicamente scorretto che impreziosisce il personaggio e lo rende più realistico.

  6. Grazie, Eleonora. Rinnovo i complimenti per il tuo dolcissimo “Agata”.

  7. per ora ne ho letti forse una decina, ma questo è in assoluto il più bello. complimenti davvero. Bel personaggio, belle le riflessioni della prima parte e certe metafore sono azzeccatissime. Il dialogo col dottore poi mi è piaciuto particolarmente. complimenti ancora

  8. “Il più bello in assoluto”, caspita! Dai tuoi commenti lasciati ad altri racconti, evinco che sei un lettore attento e scripoloso, non posso che essere doppiamente lusingata. Grazie, Daniele!

  9. Complimenti, è un bellissimo racconto.

  10. Grazie mille.

  11. Un’esplosione di emozioni diverse che non ti lasciano scampo, come uno specchio che riflette la verità.

  12. Quando leggo, la veridicità è qualcosa che apprezzo in particolar modo, perché trovo sia la via più diretta per l’immedesimazione. Dunque prendo e porto a casa il tuo commento contenta. Grazie, Barbara.

  13. Un racconto che trasmette forti emozioni.Complimenti

  14. Grazie mille, Gaetano!

  15. Ho letto il racconto tutto d’un fiato.Bellissima descrizione degli eventi ,dolore,commozione ma anche tanta forza e vitalità.Complimenti alla scrittrice

  16. “Forza e vitalità”, proprio ció che volevo arrivasse, quella forza e vitalità che spesso, inspiegabilmente, si scatenano quando il buio “sembra” non lasciare spazio alla luce. Grazie di cuore, Maria Rosaria.

  17. Una storia raccontata benissimo,talmente bene che quasi mi sembra di conoscere Elena. Bello il ritmo, belle le immagini, brava davvero.

  18. Ed allora, cara Lidia, hai conosciuto un po’ anche di Eleonora, perché in Elena c’è una parte di me. Grazie di cuore per i complimenti!

  19. Complimenti. Sei riuscita in poche pagine a delineare perfettamente emozioni con quel velo d’ironia sottile che come una calza riesce ad affusolarsi perfettamente intorno al racconto.

  20. Felice di averti emozionato. Grazie mille, Elena!

  21. Oggettivamente di un altro livello.
    Riletto più volte ed ogni volta ho provato forti sensazioni. I dettagli fanno la differenza.
    In poche parole : intenso, accattivante, acutamente costruito ,energico, coinvolgente!
    Complimenti.

  22. Spero tu non lo abbia letto più volte perché alla prima non risultava comprensibile! 🙂 Scherzi a parte, grazie davvero per i complimenti.

  23. Chi scrive di se e delle sue emozioni coinvolge e tocca i tasti del cuore con una profondità che non ha eguali

  24. Veramente il cancro rende le persone cattive? Non credo. Il cancro le spaventa.
    Possibile che chi cade nelle grinfie di questo male trova il tempo di confrontarsi con chi sta peggio per costruirsi un’identità-contro? No, non penso. E se parla, parla, lo fa perché ha bisogno di dirlo innanzi tutto a se stesso che ha il cancro. Per capire come deve lottare, per sopravvivere.
    In questo racconto agghiacciante, graffiante, il ritmo descrittivo della condizione dei malati oncologici lascia senza fiato. Le descrizioni sono forti, impietose. Soprattutto, la lettura cinica che l’autrice fa del comportamento “degli altri, gli imperfetti”, attraverso il personaggio di Elena, è egregia. Del resto, svariate sono le reazioni dell’animo umano davanti alla malattia. E anche Elena, barricata dietro un’arrogante baldanza, con la sua chirurgica descrizione della tara che la malattia rappresenta, forse, è quella che ha più paura.

  25. Chi vive la malattia è attraversato da una miriade di sensazioni, sempre diverse, sempre mutevoli. La cattiveria è solo una delle mille, purtroppo possibili, ma fortunatamente non obbligate, tappe. Tanto che ad un certo punto del racconto si legge: “… sapeva bene che NON TUTTI diventano cattivi. Ci sono anche malati che ad ogni colpo hanno gettato via dall’anima, come bagagli superflui da una scialuppa di salvataggio, pesi inutili. Fino a diventare leggeri, così leggeri da volare sulla vita, sulle sue brutture ed inutilità terrene, con una grazia da far invidia al più superficiale degli uomini… “. Quanto alla paura, certo che Elena è spaventata, certo che sì, è proprio quello che volevo passasse. È spaventata, stanca di essere un’imperfetta (gli imperfetti non sono SOLO gli altri) ed affamata di Vita. Definirei la sua un’incavolata fame di vita, piuttosto che “arrogante baldanza”, ma c’è un momento in cui -si sa- ogni racconto smette di essere di chi lo ha scritto e diventa di chi lo legge, che ci vede quel che vuole. È questo il bello! Ti ringrazio molto del commento, ogni punto di vista è sempre un arricchimento.

  26. Questo racconto mi ha tenuta incollata allo schermo del pc come un film di Woody Allen. Ho trovato, nelle tue parole, un’amara leggerezza particolarmente struggente. Complimenti e grazie per avermi regalato i 5 minuti più “belli” della giornata.

  27. Non so se il mio racconto possa davvero avere la forza di una pellicola di Woody Allen (magari!), ma una cosa è certa: è uno dei registi che più amo. Quindi -chi sa- negli anni qualche lontana e inconsapevole influenza… Grazie, Lucia!

  28. Ognuno reagisce come può alla malattia. Ma la malattia fa a tutti lo stesso regalo: un tempo sospeso. In questo tempo sospeso tra l’essere in questo mondo e non essere di questo mondo, ognuno trova una modalità di sopravvivenza. A me sembra che l’autrice abbia colto proprio questa dimensione che fa diversi chi un attimo prima non lo era; che sovverte le priorità; che azzera i riferimenti.
    È una descrizione cruda, impietosa e per questo semplicemente vera. Grazie.

  29. “Essere in questo mondo e non essere di questo mondo”, meravigliose le tue parole, perfette per descrivere il senso di alterità, da se stessi e da ciò che sta intorno, che spesso può attanagliare chi soffre. Grazie a te, per aver dedicato del tempo alla lettura del mio racconto e per averlo commentato con acume.

  30. Uno straordinario e coinvolgente racconto che insegna ,con “struggente allegria”,la ricerca costante della felicità nonostante gli eventi dolorosi.Complimenti

  31. una scrittura che non teme di scavare in tutte le direzioni nell’animo umano. E le guarda dritte negli occhi!!!

  32. Un meraviglioso pugno allo stomaco…Apri un varco di un luogo non luogo…una stanza di attesa di un medico che si trasforma in una sorta di oblio dantesco, in cui non trascorre il tempo e lo spazio si annulla…. Un varco che conduce in Una dimensione parallela, unica scappatoia per sopravvivere, unica ancora di salvezza per sfuggire al dolore della malattia …Complimenti, mi hai emozionato…

  33. Io pensavo sinceramente di avere buone possibilità, non che fossi sicuro di vincere, ma pensavo di giocarmela bene. Non ho letto tutti i racconti, ne ho letti molti. Per i miei (personalissimi) gusti erano pochi quelli originali, che non cadevano nella retorica, alcuni erano simpatici, quasi tutti ben scritti, ma tra tutti “La fame del gabbiano” era quello che piu mi aveva colpito. Ero quasi certo di vederlo tra i venti vincitori. Quando non ho letto i mio nome mi è dispiaciuto, ma quando non ho letto il titolo del tuo racconto mi sono stupito.
    Complimenti ancora.
    Per me hai vinto.

  34. Scrivere per me è un qualcosa di così intenso, e meraviglioso, e appagante, e vitale, che il primo piacere, credimi, mi deriva dal farlo. Certo non sono ipocrita: anche il riconoscimento altrui fa piacere, forse narcisisticamente, forse per una catartica volontà di condivisione. Altrimenti neanche si parteciperebbe ad un concorso! Ma “La fame del gabbiano” è stato fortemente visualizzato, molto più di quanto mi aspettassi e, soprattutto, molto commentato, qui e
    altrove, anche da penne per me argute, a cui, da quanto detto, il racconto è arrivato. E che cosa bella quando vedi che qualcosa di tuo arriva, colpisce, s m u o v e! Dunque, Daniele, va bene così, anche per me ho un po’ vinto!!! Ancora una volta lusingata dalle tue parole, ancora una volta grazie. Buona giornata e buona scrittura, io continuo a scrivere e… sono certa anche tu! 🙂

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