Premio Racconti nella Rete 2016 “Dopo l’Aurora il crepuscolo” di Giulia Rebola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Si incontrarono per la prima volta in Rue de L’Huchette, sulla porta ancora chiusa del George’s Cafe. Aurore era lì, dritta come i paletti che seguono la strada, con una sigaretta fra le dita. Osservava il movimento della gente che entrava ed usciva nel susseguirsi dei locali, facendone cadere la cenere.
Dal lato opposto della strada, Chiara, che aveva appena lasciato le quai de la Seine, navigava in un flusso apparentemente statico, eppure in movimento. In Rue de l’Huchette, le luci effimere della notte iniziavano ad accendersi. Immobili e lampeggianti colorate e poi nere.
-Ciao ragazze io sono Chiara.
-Celine piacere.
-Diana piacere.
Con un gesto della testa ed una voce secca –Aurore.
-Come scusa, Horror?
-No. O-ro-r.
Con un’aria un po’ mortificata Diana le rispose
–Sembra una stronza, ma non morde, dalle tempo che si addolcisce.
In questa strada stretta e lunga il George’s Cafe era l’ultimo dei bar ed alle nove di sera il rituale cominciava. Il bancone si infuocava, il buttafuori gigantesco e con un’espressione paurosa, sempre vestito di nero e con in mano una Coca-Cola, arrivava, schiacciando i cuoricini di carta rossa, che Chiara, tutti i pomeriggi, soffiava sui passanti. Per ultimo e sempre con un Kebab in mano, il Dj. Posava la sua borsa a tracolla e si posizionava davanti alla console, apriva il porta cd, bloccava la cuffia fra l’orecchio e la spalla ed accendeva le sirene sparando fumo in ogni direzione. Fu bellissimo vedere il ripetersi di questa scaletta, che al culmine, scatenava la festa.
-Sciara muoviti, che a sto cocktail cade la schiuma.
-Ehi Sciara, hai dimenticato le noccioline.
Non si capiva ne vedeva molto fra candele fontana, gente che urlava e ballava sui tavoli ed ovunque intorno a Chiara, mentre lei a due mani, portava più bevande possibili, evitando di rovinare i cocktails fatti da Aurore, che nel frattempo, ballava sul bancone.
-Sciara dai che il metro di shoot sta bruciando.
Arrivò in un balzo di fronte ai suoi occhi sbarrati, sbattendo una nuova comanda sul bancone appiccicoso di sciroppi succhi ed alcool e con voce ferma le disse
– Io mi chiamo Chiara. Ki-a-ra.
Bastò la sua determinazione nel pronuncia il suo nome, per incantarla.
Le settimane a ritmo incalzante, sfumavano in un cielo sempre meno grigio, e le due, che all’inizio sembravano evitarsi, iniziarono, a sfide di ballo, a diventare sempre più complici.
Ben presto Chiara diventò la sua droga. Così decise di proporle, nel momento in cui stava cercando casa, una convivenza, per non essere più in astinenza di lei. Quando non lavoravano, uscivano sempre insieme in ristoranti nascosti nel cuore di Montmartre. l loro preferiti erano quello brasiliano dove si beve solo con il biberon ed il piano bar dai muri tappezzati di post-it.
Ogni alba, dopo aver aperto il divano letto ed aggiustato la coperta a righe colorata, prima di addormentarsi si accarezzavano i capelli e respirando il loro profumo si perdevano nel buio più intenso.
Si capivano. Nonostante lingue diverse, si capivano. Ognuna si vedeva dentro gl’occhi dell’altra. Nel verde di quelli di Aurore, Chiara si sentiva libera e forte, nei castani di Chiara, Aurore era imprigionata ed invincibile. Sognavano il viaggio in terra straniera, con il Pandino Les Bohemiennes rosso, rosso come la terra che stavano per esplorare, decorato di fiori e sul cofano, che apriva la strada, un gabbiano in volo verso il sole.
Erano libere.
I loro capelli ondulati ballavano al vento mentre le loro voci stonate sbraitavano.
Viaggiarono quattro giorni, per far affrontare a Les Bohemeiennes, che aveva già più di 250 mila chilometri, l’insolita nuova vita. Si fermarono in una cittadina; “Bienvenido a Benidorm” in un caldissimo pomeriggio di maggio, nel quale anche il volante scottava.
-Ma dove siamo finite, sembra Miami.
-Davvero, guarda quanti grattacieli. Facciamo un giro cosi vediamo se c’è movimento.
La città era allungata sul mare, come una donna sul fianco che si tiene la testa.
Dopo qualche giro fra i palazzi più alti e lontani dal mare, appoggiati alle montagne, videro un cartello con scritto affittasi. Dopo aver parlato con il portiere Dino, scelsero quello che si trovava al nono piano con vista città, piscina e mare. Un piccolo rettangolo pulito ed arredato, con un bagno talmente piccolo che piegandosi per sciacquarsi i denti, il culo andava in cucina. Non volevano nulla di più a parte posare tutto ed andare a festeggiare. Camminarono fino a tardi, studiando tutti i posti nei minimi dettagli. Fra un Agua de Valencia ed una birra, riuscirono anche a trovare lavoro nello stesso locale, Aurore come barista e Chiara come Gogo Dancer. Tutto ciò durò poco. Chiara voleva la Spagna e lì, benché in Spagna, si trovavano nel quartiere inglese, dove c’erano solo inglesi, si parlava in inglese, trovavi birre inglesi e camminavi sul vomito degli inglesi. A fine lavoro, Chiara portò Aurore a bere un bicchiere nel locale in riva al mare dove avrebbe iniziato a lavorare come cameriera.
Tutto era in equilibrio, come il vassoio pieno di bottiglie che Chiara faceva fluttuare al di sopra delle teste agitate a ritmo di musica. Avanzava fra la folla facendo scivolare il suo piede sotto quello degl’altri, e con una piccola leva e giravolta verso destra, riusciva a spostare qualsiasi corpulenza, uno di quei piedi era quello di Xavier.
Si guardarono. Nei giorni successivi le loro labbra ed i loro cuori si accarezzarono, seguiti da-scusa ma non posso. Aurora che aveva finito prima passò a prenderla. Camminando sul lungomare con un Mojito in mano Chiara le raccontò, mangiandosi le parole talmente ne aveva, di lui e di tutto ciò che provava. Aveva deciso di partire per la Svizzera a fine stagione. Sarebbe stata la loro nuova avventura, ma Aurora che aveva già la testa a Londra, dove sarebbero dovute partire insieme, rifiutò amareggiata.
Dopo aver stretto Aurore alla stazione, Chiara partì correndo. Guidando ripensava, facendo scorrere i capelli fra l’indice ed il medio in un movimento che sembrava un otto, al patto che fecero prima di partire. Dava ad entrambe un senso di continuità, allontanando il sentimento di rottura.
“Mai più di ventiquattrore senza sentirci. Neppure dopo una litigata.
-Hai la mia parola, anche se conoscendoti, dovessi sbagliare un giorno…
-Tu non sei tutti gl’altri, tu sei la mia Poupée d’Amour.”
Separate da cinque mesi, sentivano il bisogno di riappropriarsi del loro mondo colorato.
Chiara prese l’aereo ed Aurore l’aspettava. Cambiata, fredda come i primi giorni in cui si conobbero, come se le stesse nascondendo qualcosa. I giorni passarono e l’ultima sera andarono in un locale sul Tamigi.
-Ti trovo un po’ strana. Devi dirmi qualcosa?
-No. Va tutto benissimo. Vado un attimo al bagno.
Chiara decise di seguirla, ma la perse nel caos.
-Ma che cazzo fai Poupée? Cazzo fai?
-Mm… Ma, ma niente. Così, solo un attimo, poco poco.
-Cosa dici? Vieni fuori, subito.
-Ma chi ti credi di essere per dirmi quello che devo fare eh? Cos’è? Arrivi qua e sputi sentenze sulla mia vita.
-Ma cosa stai dicendo, ti fa già effetto la cocaina? O le pastiglie? visto che c’era di tutto.
-Brava brava-iniziò a battere le mani- continua così. Ti senti superiore a me? Poverina questa qua. Non mi toccare, lasciami.
-Ehi Poupée, guardami.
-Mi fai schifo. Come ti permetti, non ho bisogno di te, aggiustati, l’importante è che te ne vai. Per sempre.
– Stai calma, vestiamoci e usciamo a prendere un po’ d’aria fresca.
-Sì sì usciamo, ma vaffanculo. Sia te che Xavier se con lui sei più felice.
-Non ti fa bene sta merda, non ti riconosco più.
-Io invece ti conosco benissimo. Naif, rincoglionita, credi sempre che tutto possa realizzarsi. Così, per magia.
-Non credo nella magia, inseguo i miei sogni. Faccio mille sacrifici, forse te ne sei dimenticata. Sono sola, in un paese di stranieri, a Xavier ci sono voluti cinque mesi prima che si decidesse. Ho pianto tanto, al freddo in sto posto inculato. Ma sono sicuramente più forte di quella merda che usi tu.
-Sì sì.
-Sì. Non ci stai più con la testa.
-Io ti dico una cosa sola. Devi partire subito, ritrova casa mia, svuotala delle tue cose e vattene per sempre.
-Ma non so neppure dov’è?
-Cazzi tuoi, sei così forte.
-Grazie.
Senza meta Chiara inseguiva il ruscello che correva veloce lungo i bordi della strada. Si sentiva come i pacchetti di sigarette arruffati e fradici che interrompevano il flusso della pioggia, chiedendosi come fosse possibile tutto ciò. Dopo due temporali ritrovò l’appartamento di Aurore. Come una scheggia raccolse tutto e partì, dimenticando molto e prendendo un foglio non suo.
Di ritorno a casa, mentre disfaceva le valigie, si accorse di quel foglio. Il freddo della pioggia di Londra arrivò glaciale da lei, leggendo che Aurore aveva abortito. Prese il telefono. Emetteva dei regolari rumori a intermittenza, d’un tratto ravvicinati e poi il vuoto. Iniziò a scrivere con veemenza e inviò la lettera insieme al foglio, bagnata fra lacrime e pioggia andò a casa di Xavier, e ci restò. Non smise mai di scriverle.
Questo vuoto avrebbe avuto otto anni.
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Bellissimo racconto !
Scritto con molta passione e sicurezza . Coinvolgente : ti lascia alla fine una sensazione di commozione per i personaggi…..
Bello ! congratulazioni Giulia Rebola continua così! Vorrei leggerne altri!
Grazie mille Titta, ne farò sicuramente altri e ti farò sapere.
Wow. Bello davvero.
Certe metafore sono fantastiche.
All’inizio ho odiato quando hai scritto:”Ben presto Chiara diventò la sua droga.” mi sembrava una frase troppo banale e scontata.
Ma andando avanti nel racconto trova il suo senso.
Brava.
Ti ringrazio tanto Daniele per il tuo commento, è una storia che mi sta a cuore e sono molto felice ti sia piaciuta. In realtà è più lunga ma ho dovuto restare nelle battute. Ho messo solo l’essenza della storia.