Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Racconto di Natale” di Cirino Crisci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

In quella grande e vecchia casa, nel cuore del Centro Storico di Napoli, il Natale si avvertiva presto.

Non stava nelle cose, non veniva da fuori, non occorreva annunciarlo, erano le persone che lo rivelavano.

Mio padre, siciliano nell’anima, dall’aspetto un po’ burbero e severo, retaggio della sua vita militare, ma in realtà di mitezza indicibile, diveniva più aperto, più incline al sorriso e alla disponibilità.

Mia madre, napoletana verace, che definire casalinga sarebbe irriverente e riduttivo, abbandonava la sua dichiarata e denunciata “fatica nel portare avanti la casa” ed improvvisamente, quello che quotidianamente la opprimeva, diveniva fonte di gioia.

Mia sorella, sempre pungente e provocatoria, interpretava il suo ruolo con insolita simpatia, facendo chiaramente intendere che il suo essere petulante e il suo indispettire, erano una volta tanto solo frutto di goliardia.

Mia nonna, donna schiva e riservata, sempre china sul suo rosario ma presente ed attenta. I fatti di casa le appartenevano ma da essi manteneva un rispettoso distacco. Anche in questo periodo, non si smentiva, ma tuttavia il suo viso era aperto e gioviale più del solito.

Con noi viveva anche uno zio celibe, fratello di mia madre, e prediletto della nonna.

Era un uomo fine e ricercato, un intellettuale. Viveva la nostra famiglia come la sua famiglia, ma consapevole del suo ruolo, per così dire “ibrido”.

Anche lui dava il suo contributo, partecipando con maggiore presenza al tempo che ci avvicinava al Natale, dispensando i suoi preziosi consigli per la gestione familiare, il cui timone restava, comunque, saldamente nelle mani di mia madre.

 

 

Si stava tanto insieme, si viveva caldamente la casa.

Dalle soffitte e dai cassetti, venivano fuori i simboli serbati della festa.

Cose semplici, a volte segnate dal tempo, testimoni di Natali passati e carichi di gioia. Dicevano con la loro modestia quanto facile fosse essere sereni vivendo di quello che si è e si ha.

Un vecchio portacandele con l’anima d’acciaio, con intorno del filo argentato avvolto in modo impossibile e cascante, ancora tempestato di gocce di cera delle tante candele che aveva sorretto.

Una bottiglia verniciata  e disegnata con i simboli della festa, consumata dagli anni, ma orgogliosamente esposta sulla vecchia credenza.

Un centrotavola bianco di porcellana, a forma di stella, in qualche punto scalfito, fiera sentinella di un tavolo votato a trasformarsi improvvisamente in un luogo di gioco e accoglienza.

Era pronto a farsi da parte per consentire di srotolare le tovaglie rosse e gioiose che mia madre, con devota accuratezza, riesumava dai più nascosti angoli del comò.

Si c’era anche una piccola capanna, ed un esile albero, ma non erano i protagonisti. Rimanevano ai margini di quel calore, consapevoli che la loro simbologia, pur necessaria, non era però determinante.

Ciò che creava la festa erano le persone, i caratteri, gli entusiasmi, la voglia sana e sincera di stare insieme.

Era questo connotato che impregnava tutte le suppellettili della casa e che come una polvere magica, le avvolgeva sprigionando da esse una fantastica atmosfera.

Non serviva la luce, non occorreva la musica, nessuno ci doveva intrattenere o ci doveva far divertire. Bastavamo a noi stessi e senza dircelo, né proporcelo, naturalmente, vivevamo questo tempo trasmettendoci il dono dell’amore.

 

 

Che il Natale era prossimo lo capivo dai gesti di mia madre.

Quasi inconsapevolmente, spinta dal “fuoco” dell’innata vocazione domestica, cominciava i suoi riti colmi di affetto e premure.

Apriva il cassetto centrale del mobile del soggiorno, che era grande, con uno sportello a ribalta verso il basso tenuto da una catenella dorata. Sul fondo, mi pare di ricordare che avesse uno specchio che ne aumentava virtualmente la profondità.

Era il “cassetto degli odori del Natale”.

Da esso si sprigionavano mille profumi che ben presto mia madre avrebbe materializzato realizzando i suoi dolci.

Si avvertiva netto l’aroma del liquore Strega, a tratti confuso con l’essenza di acqua di millefiori, riposta in chissà quale di quei tanti barattoli. E poi ancora l’odore dello zucchero del finto carbone, residuato di remote Epifanie, riposto in disparte in un sacchetto di velo rosso. Il lievito “paneangeli”, delicato ma fiero nel confrontarsi con gli altri profumi per rivendicare il suo giusto ruolo.

Inoltre effluvi di rhum, anice e brandy del “cavallino rosso”, col suo penzolante simbolo equestre, quest’ultimo da guardare e assolutamente non toccare.

C’erano anche altri oggetti del tutto fuori luogo, che però visti da sempre in quel cassetto, erano diventati parte della coreografia e davano con la loro rassicurante presenza, un contributo fondamentale alla familiare immutabilità di quel luogo di sacre memorie olfattive.

 

 

Il gioco, prevalentemente quello delle carte, era un catalizzatore di entusiasmo e convivialità.

Si giocava spesso in quel periodo  ed erano sufficienti anche solo due membri della famiglia a rendere una partitella un favoloso momento.

Mia madre ne rimaneva fuori, a lei non interessava minimamente, tutta intenta a preparare per la buona riuscita della festa.

Le bastava questo e si compiaceva della totale indifferenza dei futuri commensali, che incuranti si intrattenevano in ripetute e instancabili tenzoni.

Era quella la sua bella famiglia, riunita intorno ad un tavolo, che lei poteva godere di tanto in tanto, facendo capolino dall’infima cucina, dove creava i suoi memorabili capolavori.

Anche noi, ci sentivamo tranquilli, senza sensi di colpa, intenti ad assaporare intensamente quel divertimento, che la escludeva.

Eravamo convinti che quella nostra aggregazione era la sua gioia, era la sua felicità, era il suo Natale.

Ed ecco accusarci, apostrofarci, stuzzicarci. Maledire la fortuna dell’uno, canzonare l’incapacità dell’altro, tacciare d’imbroglio tal’altro.

Tutti insieme, pochi, ma sembravano tanti. Bastavano.

Mia madre, con la sua capigliatura un po’ in disordine e il  grembiule vistosamente “vissuto”, faceva una breve apparizione, ci rimproverava bonariamente e poi tornava alle sue amate fatiche, senza che a noi sfuggisse l’amabile carezza che traspariva da quell’affettuoso rimbrotto.

 

 

Avvicinandosi la “Vigilia”, che mia madre definiva la più bella delle feste natalizie, se non l’unica che valesse veramente la pena di vivere, aumentavano gli entusiasmi e le aspettative.

La nostra famiglia, già da sola armoniosa e festosa, poteva arricchirsi di due nuovi elementi, che davano con la loro significativa presenza il giusto completamento al momento cruciale della “Vigilia”.

Erano  l’altro fratello di mia madre con sua moglie, che non avevano avuto figli.

Due persone straordinarie che per me erano la “certezza” affinchè il periodo natalizio da festa si trasformasse in “evento”.

Mio zio era un uomo esuberante, sempre allegro, dalla battuta pronta ed arguta, un vero “mastro di festa”. Sua moglie la sua perfetta “spalla”.

Quando si esibivano, i loro gustosi battibecchi coniugali suscitavano l’esilarante divertimento degli astanti.

Inoltre, questo zio, pur non vivendo con noi, lo sentivo molto vicino a me, sia perché mi voleva sfacciatamente bene, sia perché sentivo particolarmente vicini alcuni lati del suo pirotecnico carattere.

Era un artista versatile e di doti straordinarie, che ne aumentavano il fascino ai miei occhi.

La loro presenza era l’incognita di ogni Natale.

Tutti erano sicuri che alla fine ci sarebbero stati, ma quella suspance si scioglieva solo a ridosso della festa e quando ciò accadeva era come un’esplosione.

Adesso eravamo veramente pronti a tuffarci nel momento più bello dell’anno.

 

 

Mio padre si preoccupava della spesa. Non certo lasciata alla sua libera iniziativa, ma attentamente condotta dalle meticolose direttive di mia madre.

Tuttavia lui era pieno di soddisfazione nell’eseguire con puntualità le indicazioni.

Le sue sortite in macelleria erano foriere di prede che, al rientro a casa, ostentava con l’orgoglio e la fierezza di un cacciatore reduce da una fortunata battuta di caccia.

Il mezzo capretto che avremmo consumato il giorno di Natale, il cappone ripulito delle interiora, che mostrava il vigoroso petto rigonfio e faceva presagire la succulenza delle sue carni magistralmente cucinate da mia madre.

Le costolette di maiale pronte ad accoppiarsi alla minestra preparata da mia madre con una personale ricetta che era un misto di sapori del Regno delle due Sicilie. E variazioni sul tema, che ogni anno si affiancavano alla tradizione, frutto di graditi quanto inaspettati oboli, che in quel tempo si concretavano prevalentemente in doni culinari.

Non da meno il pesce, che mio padre, da buon siciliano, amava particolarmente, contrariamente al ritroso atteggiamento di mia madre, colpevole quest’ultimo di condizionarne pesantemente i menù.

Pertanto ogni anno, a parte le immancabili vongole, il pesce da mettere al forno era incerto, così come le ricette per cuocerlo.

Ovviamente non mancavano le anguille,”i capitoni”, che mio padre acquistava vive con un giorno di anticipo, mettendole in una bacinella, anticamera della loro esecuzione.

A questo rito assistevo sempre ammaliato poiché la crudezza di quei gesti, che vedevano mio padre nell’improbabile e scomodo ruolo di giustiziere, ne davano una connotazione di quasi liturgico cerimoniale.

E ciò, tanto più, ove si consideri che la vittima di quell’olocausto avrebbe incontrato solo il gusto di un esiguo numero di commensali.

Poi un trionfo di ortaggi, frutta fresca e secca e verdure tutte pronte ad essere pazientemente mondate prima di essere consumate.

Tutto veniva stipato, qualche giorno prima, in un ripostiglio prossimo alla piccola cucina, che i miei chiamavano, con una punta di affettuosa ironia, il loro “frigorifero naturale”.

E’ ancora nel mio cuore il momento mistico, quando mio padre, con complicità e bonomia, mi accompagnava davanti al “frigorifero naturale” e, dopo un attimo di esitazione, ne apriva la porta, rivelandomi le “ricchezze” del suo contenuto.

Condivideva con me l’infantile incredulità che traspariva dai suoi grandi occhi verdi.

 

 

Intorno al venti di dicembre, mia madre compilava la nota degli ingredienti occorrenti per i  suoi leggendari manufatti dolciari.

Puntualmente mi fiondavo in un laboratorio di pasticceria che era in uno dei vicini vicoli che intersecano i decumani.

Con somma gioia depositavo l’ordine e di lì a poco, sotto i miei occhi, veniva riempito il vassoio: naspro di zucchero, cedro, cocozzata, ciliegine candite, gocce di cioccolato, miele…………

Quel vassoio lo riportavo a casa pieno di gioia e ogni volta si accresceva nelle quantità. Mia madre, infatti, riscuoteva sempre nuovi consensi, che la inducevano di anno in anno, a premiare i novelli estimatori con le sue leccornie.

Così la notte precedente l’antivigilia di Natale, preparava i  numerosi pan di Spagna, che mano a mano che tirava fuori dal forno, allineava sul marmo della vecchia credenza. Erano soffici come le guance di una mamma, orgogliosi e coscienti di quello che sarebbero diventati.

Tutto accadeva a notte fonda, tra il silenzio e l’assenza degli altri membri della famiglia da tempo a letto.

Solo io rimanevo a far compagnia a mia madre, pronto a dare il mio giudizio sulle sue creme e sui suoi deliziosi intingoli.

Alle tre del mattino tutti i dolci erano finalmente pronti, non restava che decorarli.

Ma tale adempimento era considerato un appendice e veniva rinviato al giorno dopo, quando i sapori e le forme di quelle prelibatezze si sarebbero assestati.

Potevamo finalmente guadagnare il meritato riposo.

Dietro di noi, in quella stanza, un paradiso di ghiottonerie pasticciere che avrebbero, come sempre, riempito di riconoscente meraviglia il risveglio di tutta la famiglia.

 

 

La piccola cucina straripava di cibi, alcuni già pronti, altri ancora da preparare.

I fuochi erano costantemente accesi e su di essi le pentole e le padelle si alternavano con operosa frenesia.

Io e mia sorella indugiavamo in cucina, riducendo ulteriormente i pochi metri quadri di questo vano.

I vetri della grande finestra,di dimensioni non coerenti alla cubatura dell’ambiente, ben presto divenivano opachi per il vapore acqueo prodotto da quella promettente fucina. Accrescevano la singolare suggestione che si viveva in questo spazio realmente angusto, ma, ciò nonostante, territorio infinito di sensazioni e percezioni che solleticavano tutti i sensi.

Io e mia sorella con l’indice teso, cominciavamo a “pattinare” su quei vetri, solcando il vapore acqueo per disegnare forme e parole.

Ora una faccia, ora un W, ora un pupazzo di neve, ora un ?, ora un cuore trafitto, ora un fiore.

Mia madre,appariva irritata da questa pratica vacua e del tutto inopportuna, lontana dalla sua fattiva alacrità.

Nello stesso tempo felice di tenerci vicini.

Intuiva  che la nostra presenza e quel puerile esercizio, rivelavano tutta la nostra interiore serenità.

Allora mi guardava con gli occhi colmi di gioia e il sorriso appena abbozzato.

Io godevo di questa rassicurante disposizione espressiva.

Fissavo mia sorella, altrettanto serena, ma per  sua natura  restia a far trasparire la condivisione di quei sentimenti.

Con un complice cenno di intesa velocemente, di soppiatto, facevamo nostra una polpetta “messa in cassaforte” in attesa di farcire chissà quale delle tante pietanze.

Ma il furto non incontrava granchè disapprovazione da parte di mia madre, che anzi si compiaceva del reato perpetrato, frutto di insopprimibile apprezzamento per la sua sublime arte culinaria.

 

 

Mio zio, quello che viveva con noi, la mattina della Vigilia, talvolta mi   invitava a disertare l’atmosfera domestica.

Proponeva una veloce capatina sul lungomare per andare a visitare le pittoresche bancarelle dei pescivendoli che allettavano, con la loro “preziosa” mercanzia, i numerosi avventori.

Erano i nostri “Mercatini di Natale”.

Acconsentivo, un po’ a malincuore, un po’ lusingato, poiché quando lo zio proponeva, normalmente valeva sempre la pena di accettare.

Inoltre lo zio “guidava” e aveva l’auto, circostanza non comune per l’epoca. Dunque vi sarebbe stato il valore aggiunto di una irrinunciabile scarrozzata in auto.

Giunti sul posto,ci trascinavamo lentamente sotto le tende e gli spazi di quell’improvvisato mercato, precariamente e frettolosamente allestito che malcelava la propria occasionalità.

Ammiravamo la freschezza di quella pregiata merce.

Non dovevamo comprare nulla, la nostra spesa era già nelle sapienti mani di mia madre.

Ciò accresceva il piacere di guardare e curiosare.

A volte lo zio, infidamente, mercanteggiava sul prezzo per qualcosa che non aveva alcuna intenzione di acquistare. Così, per diletto.

Godeva della sensazione di chi già appagato, vuol correre il rischio di avere di più.

Io assistevo piacevolmente coinvolto, complice di quella farsa, immerso nelle stesse sensazioni.

Nel contempo non riuscivo a reprimere un senso di ammirazione per quei “coraggiosi” che ritiravano enormi cartocci sgocciolanti a fronte dei quali versavano, con disarmante disinvoltura, ingenti somme di danaro.

Paghi e divertiti tornavamo alla macchina per fare ritorno a casa dove intanto la festa “montava”.

Avremmo magari raccontato  la nostra esperienza durante la cena, ma solo se ne avessimo avuto il tempo.

In un momento di stanca, se mai ci fosse stato.

 

 

Rientrando in casa, appena varcata la soglia, venivo investito con veemenza dall’insieme di profumi che si sprigionavano prepotenti dalla cucina.

L’olfatto, galeottamente ammaliato, mi suggeriva che ancor più si approssimava il momento topico della festa.

Man mano che mi addentravo giungeva all’orecchio  lo scroscio delle “pizzette” che venivano delicatamente adagiate nell’olio bollente.

Tale “sonorità” mi dava la rassicurante conferma che mia madre era ancora una volta all’opera.

Era in corso un altro dei nostri rituali.

Non paga di tutte le fatiche già accumulate, intorno alle 14.00 del giorno della Vigilia, preparava i mitici calzoncini ripieni di scaròla o di mozzarella.

Erano fritti al momento e venivano voracemente gustati caldi, dorati e fumanti via via che sollevati dall’olio bollente erano poggiati su un attiguo vassoio ricoperto di carta assorbente.

Sovente mia sorella era la prima a “gradire” e addentandone uno mi guardava beffardamente, con gli occhi divertiti per l’impertinente anticipo.

Di li a poco avrei fatto lo stesso, e così mio padre, mio zio, mia nonna.

Godevamo con un profondo e condiviso sentimento di soddisfazione di quell’ennesimo atto d’amore, che, ancora una volta, ci teneva uniti in un cerimoniale che riconoscevamo solo nostro, facendoci sentire speciali.

 

 

Intorno alle 18.00 ci raggiungevano finalmente anche l’altro mio zio e la moglie.

Lo scorgevo dal balcone dal quale mi ero ripetutamente affacciato al fine di coglierne per  primo l’arrivo e diffondere entusiasta la lieta notizia.

Correvo all’ingresso per accoglierli e già al primo impatto era un tripudio di abbracci e amenità.

Ci scambiavamo gli auguri con sincero affetto e partecipazione.

Poi qualche commento per gli addobbi della casa, qualche irriverente epiteto per commentare l’abbondanza che tracimava da ogni ripiano, qualche fugace racconto che vedeva protagonisti parenti e conoscenti più o meno vicini.

Mia madre si allontanava momentaneamente dal focolare, per partecipare anch’essa all’accoglienza, ma poi vi tornava repentina e con ancora più impegno.

A questo punto si “lanciavano guanti di sfida” per riprendere vecchi duelli lasciati in sospeso.

Un assaggio di pokerino, o una veloce partita a tresette, giusto per affilare le lame, preludio di più accanite disfide.

Il tutto per scaldarci e per avvicinarci ancor più affiatati e compatti alla “Cena della Vigilia”.

 

 

Il momento era giunto.

Ciascuno abbandonava senza rimpianto ciò a cui era intento, per accomodarsi, pregno di contentezza, alla tavola sapientemente imbandita con sfarzo e sontuosità.

Si prendeva posto.

Mia nonna, come sempre, aveva alla sua sinistra lo zio celibe, mentre alla destra sedeva l’altro zio e a seguire la moglie.

Poi mia sorella, poi io e alla mia destra mio padre. Dopo di lui il posto di mia madre.

Era, quest’ultima, una postazione occupata precariamente, a mezzo di brevi ma intense apparizioni.

Mia madre neanche adesso riusciva a placare il suo frenetico andirivieni dalla cucina.

Solo a mio padre era consentito un qualche ausilio, ma in punta di piedi e con la massima circospezione.

Si avvicendavano le succulente portate in un vulcanico crescendo di risate, invocazioni, burle, sbigottito stupore per tanta opulenza.

Mio zio, quello ammogliato, dispensava le sue perle di saggezza minimalista:

“Per me Natale non è tale senza il baccalà fritto”.

“ Il pane è il migliore di tutti i panettoni”.

“Per digerire nulla è meglio di un po’ d’acqua e limone con una punta di bicarbonato”.

Il tutto condito da gustose gag con la moglie.

Mia sorella, provocatoria come sempre, pungolava mia madre, denigrando irriverente una qualche pietanza.

La reazione era scomposta e rabbiosa suscitando l’ilarità dei commensali che non tardavano a solidarizzare con lei nell’inveire contro mia sorella.

Quest’ultima, come consuetudine, trovava quale difensore d’ufficio lo zio celibe, che da sempre ne apprezzava lo spirito ribelle e controcorrente.

Mia nonna fingeva turbamento per le colorite espressioni di mio zio, quello sposato, ma nel contempo ne rideva grassamente, insolitamente coinvolta.

Così come l’altro zio, che comunque non si asteneva dal far trapelare una fraterna disapprovazione per tanta trivialità.

Anche mio padre era trascinato in questa euforia e vi partecipava felice.

Si sentiva un privilegiato, lui ormai lontano da sempre dalla sua terra natia e dai suoi cari, aveva avuto in ogni caso la ventura di poter vivere questi momenti esaltanti con una famiglia “allargata” che sentiva profondamente sua.

Mia madre gli si rivolgeva con affettuoso sussieguo, quasi a voler rivendicare il merito di avergli consentito, con la loro unione, la partecipazione a tale ambito consesso.

Mio padre, a fronte della  sua benevola indulgenza, lungi dall’indispettirsi per tale atteggiamento, lo condivideva divertito e ne rideva.

L’allegria, corroborata dal cibo e dal vino, si accresceva di minuto in minuto, e rinvigoriva i nostri cuori straripanti di felicità.

Il mondo fuori da quella casa era come se non esistesse, eravamo totalmente coinvolti in questa eruzione di esaltanti sensazioni, del tutto lontani da ogni affanno o preoccupazione.

La famiglia metteva in scena il suo spettacolo più autentico e sano.

Ciascuno aveva il proprio ruolo e lo interpretava con impegno, senza rubare la scena, in un gioco di equilibri che rendeva la rappresentazione perfetta.

A fine cena, finalmente anche mia madre si accomodava e occupava stabilmente il suo posto.

Raccoglieva, stanca ma radiosa, i consensi e gli encomi per tutto il lavoro realizzato.

Era tanto appagata quanto pronta a ricominciare.

Il suo sguardo, tenero e semplice, raggiungeva ognuno di noi e svelava la sua gratitudine per la felicità che le procuravamo con i nostri apprezzamenti e con la pace che regnava tra di noi.

Mai come in quell’occasione sentivo il calore della casa e della mia famiglia.

Avevo la certezza che in quel preciso istante non sarei voluto essere in nessuna altra parte se non li.

Sotto l’albero esile non vi erano doni, non un pacco da scartare, non una busta da aprire.

Non ve n’era alcuna necessità.

 

 

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3 commenti »

  1. Meticoloso ritratto di momenti vissuti anche da me. La vera “magia” del Natale, quella che trasforma l’anima e lascia un solco indelebile.
    Malinconico ma necessario!

  2. Grazie per il gradito commento che in poche pregnanti parole restituisce il senso del racconto.

  3. Prego, mi è piaciuto molto! In bocca al lupo!

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