Premio Racconti nella Rete 2016 “L’uomo dai mille nomi” di Luca Olivares
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016“ Smisi di ricordare com’ero. Non sono niente. Non riesco a
immaginare come sarò”. P.
Sbuffando lasciava correre le dita sui solchi del tavolo. Troppo stanco
forse. Sicuramente stufo di entrare a far parte dello spettacolo della sua mente. Le sue giornate passavano lente, a rincorrere personaggi che lui aveva creato. La colpa era sua. Delle sue aspettative. Non conosceva le persone, le creava. Addossava agli altri pretese che si rivelavano ogni volta inevitabilmente deluse. Non era un cattivo uomo. Cinquant’anni. Un viso solcato dai segni del tempo. Tempo sprecato secondo lui. Aveva imparato a coltivare odio, convinto che se un uomo non sa odiare, amare può risultare impossibile. Vendicativo, con se stesso soprattutto.
Fuori una giornata dalle tinte grigie e scure. La pioggia batteva incessantemente sull’ampia finestra che occupava gran parte della parete del salotto. Una casa vuota. Essenziale.
Colpito da una grave malattia all’età di tredici anni, la sua mente zoppicava. In viaggio continuo tra realtà e fantasia. Un giorno si era alzato e senza alcun motivo apparente non riusciva più a distinguerle. Si portava dietro questo fardello da quarant’anni. Ma aveva imparato a conviverci. Provate a immaginare cosa voglia dire non sapere se si è svegli o si sta ancora sognando. Provate per un attimo a immaginare un evento, una situazione e che questo si tramuti in un ricordo. Lui viveva così. Tra realtà e fantasia. Tra reale e irreale. Ma ne aveva fatto il suo punto di forza. Non aveva un nome. Ne aveva molti. Ogni giorno si sentiva una persona diversa con un passato diverso. Una storia diversa da raccontare. Nessun parente o amico. Solo.
Si alzò con fatica dalla sedia che scricchiolo sotto il peso dei suoi pensieri. Era iniziata un’altra giornata ma qualcosa stava per cambiare. Le peggiori paure avevano invaso la sua mente per anni. Fantasie che diventavano realtà. Tutte le sue più grandi passioni e sogni erano diventati incubi.
Sam. Tre lettere incise in gotico sul polso sinistro, quasi per non dimenticare il suo nome. Uno dei tanti che si era dato. Uno dei pochi che ricordava.
II
Scese le scale dell’appartamento situato al quinto piano di quella che una volta era una bella palazzina. Ora i muri cadevano a pezzi sotto il pesante e incessante battere del tempo. “Sto bene”. Ripeteva in continuazione queste parole dentro se stesso. In tasca un foglio di carta strappato in due pezzi perfettamente simmetrici. Sopra una scritta sbiadita e sbavata: “Ora et Labora.” Sam aveva smesso di pregare anni prima. Aveva affrontato il primo periodo sella sua malattia rivolgendosi a Dio. Un Dio sordo e troppo occupato per lui.
“Sono sveglio e tutto questo è reale”. Un altro ritornello che si ripeteva ogni mattina. Le prime ore del giorno erano le peggiori. Anche se non dormiva molto, i pochi sogni invadevano la sua giornata come spettri. Spettri non molto diversi dalle persone che lo avevano circondato per anni. Spacciatori d’illusioni di cui lui non aveva bisogno. “Buongiorno! Come stiamo oggi?” La signora Peterson, la portinaia. Un
donnone sulla sessantina sempre indaffarata, con una passione per i cani
di ceramica. Sam interruppe il suo ritornello mentale e dalla sua bocca
uscirono due parole soffocate dalla raucedine della notte passata: ” bene
grazie.”
Bene grazie. Aveva imparato ad affrontare così le persone. Tenendo
nascosto il suo male, inventandosi tra tutto, anche di stare bene. Un
mondo che non lo avrebbe compreso e bollato come pazzo. Uno dei
peggiori. Preso dai sui pensieri arrancò alla macchina. Una bella
macchina sportiva, nera. Tutto come ogni mattina. Una routine che lo
aiutava a mantenere un minimo contatto con la realtà. Ma qualcosa era
diverso. Infilata sotto il tergicristallo, una busta. Sigillata. Le sue iniziali,
quelle vere, scritte a mano sul fronte.
A Peter P. junior. Un brivido gli percorse la schiena mentre con le mani
gelate dal freddo invernale tentava di aprire la busta. Dentro un biglietto
scritto a mano. Bella calligrafia: “NON è REALE”. Crollò. Ginocchia a
terra mani sul volto. Il cuore batteva cosi forte che sembrava esplodere.
La pioggia gli attraversava le ossa. Nessuno sapeva della sua malattia.
Nessuno conosceva la sua costante battaglia tra reale e irreale. Chi aveva
scritto quel biglietto? Cosa voleva? Un flusso costate di pensieri gli
attraversava la mente mentre cercava delle risposte. Fu solo dopo un
attento esame del foglio che notò, in basso a destra, scritta in stampatello
una
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parola. “Svegliati”. Si rialzò e guardandosi attorno mise il foglietto e la
busta nella tasca dell’impermeabile.
Spento, come dopo uno dei suoi peggiori attacchi di panico cercò di
recuperare la calma, sali in macchina la accese e si diresse al lavoro.
Svegliati. Quella parola li riecheggiava nella mente quasi a fomentare
una delle sue peggiori fantasie. E se veramente stava dormendo? Se
veramente era tutto un sogno? Pensieri che affollavano la sua mente.
“Sono sveglio e tutto questo è reale” si ripeteva incessantemente.
Tutto era iniziato.
Arrivò al lavoro con una fretta che non gli apparteneva. Parcheggiò la
macchina nel solito posto, il b32. Lavorava per una grossa ditta tessile.
Si avviò con passo deciso quasi a voler scappare dai suoi brutti pensieri.
Qualcosa non andava. Passò il tesserino ma la macchina, al posto del
solito bip e luce verde di conferma emise un suono acuto.
“Lei dove crede di andare?”. Il guardiano un uomo robusto, sulla
quarantina, gli si parò davanti.
” Salve sono….sono Sam…. Sam Smith lavoro qua, ma ci deve essere un
problema con il badge”
Il guardiano sgranò gli occhi sconcertato entro nel suo ufficio e prese in
mano il telefono. Dopo qualche minuto di attesa uscì si rivolse a Sam
scuotendo la testa: ” non so se stia scherzando o cosa, ma l’unico Sam
Smith che lavora… o meglio lavorava qua è morto ieri in un incidente
stradale.
“Scusi?” ” Si Sam Smith è mancato ieri.”
Con un gesto le sue dita andarono a sfiorare il polso sinistro, non sentiva
più il rilievo del tatuaggio. Tirò su velocemente la manica, era sparito.
Cancellato.
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Barcollava incredulo alle parole del custode, una nebbia di pensieri
invadeva la sua mente. “Sam Smith è morto ieri in un in incidente
stradale”.
Sapeva bene che Sam era solo uno dei suoi tanti nomi. Lui era stato Sam.
Per cinque anni almeno. Un nome, una personalità che lui si era creato.
Era diventata sua.
Crollò letteralmente sotto il peso dei suoi pensieri, sotto il peso di quelle
parole. Svenne.
“Tom…Tom…. sveglia”. L’infermiera batteva il dito sulla flebo
contenente la soluzione salina.
“L’abbiamo trovata svenuto, senza documenti, in un parcheggio”. “Io
non sono Tom”.
“Bè il tatuaggio sul suo polso dice il contrario” disse lei sorridendo e
sistemandogli il cuscino.
Tom Guardò rapidamente il suo polso, e vide il tatuaggio. In Gotico la
scritta: Tom.
Stava succedendo davvero, le sue paure, le sue finzioni erano uscite dalla
sua testa. Non aveva scelto di crearsi un nome. Non lo aveva scelto lui
questa volta. Le sue paranoie avevano preso vita. Era un incubo.
Come al solito trattenne il respiro. “Se si trattiene il respiro in un sogno
ci si sveglia” pensò. Ma nulla. Tutto era reale, o cosi sembrava.
“Sta bene, un semplice calo di pressione, può andare ma si ricordi di
firmare all’uscita.” Il medico entrato nella stanza lo liquidò cosi senza
ulteriori spiegazioni.
Tom uscì aveva smesso di piovere e tra le nuvole timidamente filtrava
qualche raggio di sole. Doveva recuperare la sua macchina e tornare a
casa. Solo lì si sentiva al sicuro.
Si diresse verso la fermata di autobus più vicina. Nel tragitto si fermò da
un tabaccaio. Doveva fumare.
“JPS rosse”. Prese uscì. Accostò la sigaretta alla bocca, diede qualche
boccata e cominciò a sentire l’effetto della nicotina.
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La fermata dell’autobus era deserta. Seduto su una panchina cercava di
trovare una spiegazione a tutto quello che era successo. Era abituato a
vivere con le sue fantasie, le sue paranoie le sue ossessioni, ma queste
ora avevano preso vita. Proprio quando era perso ed estraniato dal
mondo, un bambino sui 13 anni si avvicinò. Aveva un’aria famigliare ma
nella confusione non riusciva a risalire ad alcun ricordo.
“Ehi Tom…. è ora di svegliarti ci manchi”
“Chi sei? Chi sei ?” urlò. Un urlo che squarciò il silenzio di quella fredda
mattina. Il bambino si mise a piangere e subito accorse la madre. Come
se nulla fosse successo. Come se tutto era stato una sua fantasia. La
madre fece scudo al bambino e lo porto via. In lontananza l’autobus 57
stava arrivando.
Sali sull’autobus. Le scarpe scivolavano sopra il pavimento di metallo.
L’autista occupava comodamente il sedile di pelle nera. Tom si sedette.
In silenzio. Per la prima volta nella sua vita il flusso di pensieri nella
mente si interruppe. Il vuoto. Stanco disegnava con il dito sopra il
finestrino appannato, fuori un via vai di machine. Tutti con una
destinazione, qualcosa da fare. Tom invece non aveva più niente.
Arrivata la sua fermata scese recuperò la macchina e si diresse verso
casa. Apri con due mandate il cancello esterno della palazzina. Qualcosa
era diverso. Non c’era nessuno. Decise di prendere l’ascensore. Mentre
saliva delle note riempirono l’aria. Una canzone che non sentiva da anni.
Eppure si mise a canticchiare, come se l’avesse ascoltata la sera prima.
Le mani correvano sulla parete a cercare di capire da dove provenisse
quella melodia. Sfiorò dolcemente la piccola cassa situata nell’angolo
sinistro. Era rotta. Man mano che la cabina saliva le note si facevano più
intense, più forti. Arrivato al quinto piano ebbe la chiara sensazione che
la musica proveniva dall’appartamento accanto al suo. Aveva incrociato
poche volte la sua vicina. Una ragazza sui trent’anni, capelli color oro,
occhi blu e profondi come l’oceano.
Apri la porta di casa ed entrò. La musica non si sentiva più. Dormire,
l’unica cosa di cui aveva bisogno. Si sdraiò nel letto. Tiro fuori il piccolo
foglietto stracciato che aveva in tasca e lo mise sul comodino. Era un
rituale. Lo faceva Ogni volta prima di coricarsi, quasi ad assicurarsi che
la notte non
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lo portasse via e trasportasse in un’altra realtà. La mattina si svegliava
trovava il foglietto ancora li, ancora stracciato, e si sentiva al
sicuro. Sogni intensi e angoscianti, immagini che credeva di aver
dimenticato. Un via vai di persone che danzavano nella sua mente e
ripetevano due semplici parole: “ci manchi”.
Si svegliò. La fronte sudata come se i movimenti nei suoi sogni fossero
stati reali.
Si
sedette e strinse il viso tra le mani. Pianse, come non faceva
da tempo, come non faceva da quando era ragazzino. Alzò la testa, la
vista sfocata dalle lacrime. Il foglietto era sul comodino, dove lo aveva
lasciato. La scritta “Ora et Labora” non era più sbiadita e sbavata. Il
foglio non era più strappato.
Non ebbe tempo di elaborare quello che era successo. La musica che
l’aveva accompagnato in ascensore ricominciò. Sempre più forte, più
intensa. Assordante. Uscì dall’appartamento e bussò in modo forte e
insistente alla porta adiacente. Nessuna risposta. Mentre la musica si
faceva sempre più alta, girò il pomello ed entrò.
La stanza era vuota, i segni del tempo e dell’umidità avevano rovinato le
pareti. Nell’angolo appoggiato su un mobile un giradischi. Non c’era
nessun vinile.
Fu allora che capì. La canzone era quella che era solita cantare sua
madre, mentre faceva le faccende di casa. Una melodia che lo rilassava e
lo faceva sentire al sicuro. Alla musica si sostituì il suo respiro, pesante e
affannato. Non riusciva a spiegarsi nulla. La sua malattia aveva preso il
sopravvento. Stava impazzendo. Dov’era la sua vicina? Dov’erano tutti
quanti?
“E’ tutto nella mia testa” cercava di tranquillizzarsi con queste parole.
Scese di corsa le scale fino al piano terra. Uscì irrompendo in una fredda
sera. “Peter?” Una voce tagliò il silenzio “Nessuno mi chiama così da
anni” rispose.
” Ho una lettera per lei.” Tiro fuori una busta da una cartelletta e la
consegno a Tom. Sul fronte le sue iniziali, quelle vere. Apri la busta e
all’interno c’era un foglietto. Scritta in bella calligrafia una frase:
“Conosco la tua battaglia, è arrivato il momento di tornare”. Firmato
S. All’ansia, si sostituì la rassegnazione. Quella che lo aveva
accompagnato per anni, fin da quando era ragazzino. Accettazione.
Conosceva bene quella parola.
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Si mise la lettera in tasca. E con passo deciso si diresse al bar dietro
casa. “Un caffè per favore”. Si sedette in un piccolo tavolino situato
nella stanzetta sul retro. Tom amava quel bar. Arredamento rustico,
ottima birra buon caffè. Svuotò le tasche sul tavolo. Le due lettere, il
foglietto, un accendino e un pacchetto di sigarette. Cercava di
ricomporre i pezzi come fosse un puzzle. Estrasse il suo taccuino e cercò
di ripercorrere la sua storia. Il grosso orologio a pendolo situato sulla
parete suonò le 20.00. Ogni volta che la sua attenzione andava
all’orologio questo segnava sempre le 20.00. Mattina a parte, quando la
sveglia suonava alle 06.00, per tutto il resto della giornata il tempo era
distorto. Le ore sembravano minuti e le settimane giorni. Si era ritrovato
a invecchiare di anni in quelli che a lui sembravano mesi. “A Peter P.
junior.” Faceva scorrere il dito sulle lettere in rilievo di quelle buste.
Peter. Il suo primo nome. Quello con cui lo chiamava sua madre. Una
donna dolce e affettuosa, sempre preoccupata. Era morta quando aveva
quindici anni, stroncata da un infarto. Peter. Il suo nome di battesimo.
Cancellato dalla sua mente quasi a voler dimenticare la sua infanzia, il
suo incontro con la psicosi. I suoi ricordi, quelli della vita prima della
malattia erano limpidi. Come se fossero passati solo pochi anni. Era tutto
chiaro. Dopo, solo nebbia. Un sogno lungo e costante, caratterizzato da
abbandono e solitudine, da fantasmi, voci, persone che andavano e
venivano nella sua testa e fuori. Cercava disperatamente di ricomporre i
pezzi della sua vita e cominciò a pensare. Sam, Tom, Junior, tutti nomi
che ricordava ma non si spiegava. Alzò lo sguardo a cercare una risposta
nell’ambiente che lo circondava. Nell’angolo della piccola stanza, dove
si trovava il suo tavolo, uno scaffale. Sopra erano accatastati dei libri.
Impolverati, nessuno li leggeva da anni. Si alzò e si avvicino al mobile
soffiò sopra la polvere in cima alla pila di volumi. Il primo che si
presentò alla sua vista. Mark Twain. Le avventure di Tom Sawyer. Fu
come un fulmine. La sua mente si aprì. “Ehi piccolo Tom, non scapperai
anche a questo lavoretto”. Tom come lo chiamava suo zio. Irrequieto e
vivace come il protagonista dei racconti. Fu allora che capi. I nomi,
quelli che si dava, quelli che gli affioravano nella mente, quello che gli
stava succedendo. Tutto rimandava al suo passato, a prima della
malattia. Lasciò cadere il libro.
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Fece due passi indietro barcollando, spaventato. La testa gli girava, voci
affollavano la sua mente come se gli stessero sussurrando parole
all’orecchio. “Piccolo Tom mi manchi Svegliati”. Buio.
Degli spiragli di luce avevano cominciato a squarciare l’oscurità della
sua mente. “Sono pazzo” pensò. Ormai si era convinto. La psicosi aveva
preso il sopravvento. Allucinazioni, confusione senso di
smarrimento. Pagò, usci dal bar sali in macchina e si diresse verso
l’ospedale.
Si era convinto, aveva bisogno di essere curato. Parcheggiò la macchina
nell’ampio spiazzo di fronte alla clinica e si avviò verso il pronto
soccorso. Lo stesso nel quale era stato ricoverato da
piccolo. All’accettazione l’infermiera squadrò Tom incredula al suo
racconto.
“Le chiamo lo psichiatra di turno” attenda in sala. Lo liquidò così, con
indifferenza. Seduto. Mani a stropicciarsi il viso, gli sembrava di essere
tornato indietro di quarant’anni. La psichiatra arrivò. Una bella donna
sulla quarantina, occhi scuri capelli lunghi e lisci. Una targhetta
posizionata sul petto. Sopra il nome Sara. S. “Mi segua prego”. Tom
entrò in una piccola stanza. Al centro era situato un semplice lettino, in
fondo una scrivania e un paio di sedie. Essenziale. “Vediamo. Lei
lamenta allucinazioni, visive e auditive, svenimenti perdita di memoria e
ha avuto episodi simili quarant’anni fa, all’età di tredici anni”. “Esatto”
annuì Tom. Fu allora che la psichiatra lo guardò, sgranò gli occhi, scuri e
intensi e sorrise: “ sai Tom a volte bisogna rischiare, dobbiamo decidere
noi cosa è reale e non lo è. Tutto dipende da una nostra scelta
consapevole.” “Non credo di seguirla” esclamò lui confuso. “Bè vedi,
dobbiamo avere il coraggio di saltare Tom. Solo così possiamo riottenere
la nostra vita, Tom è ora che ti svegli. Salta.” “ Forse è meglio che me ne
torni a casa, forse è stato un errore venire qua” “L’unico errore che puoi
fare ora è non rischiare. L’autodistruzione è la tua via verso la
libertà. Sentite queste parole Tom si alzò di scatto facendo cadere la
sedia. Corse fuori nel buio
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della notte. “L’autodistruzione è la tua via verso la libertà”. Ripensava
costantemente a questo. Si aveva capito. Il suicidio era l’unico modo di
liberarsi di tutto. Andarsene una volta per sempre. Senza lasciare segni,
parenti o amici. A nessuno sarebbe importato. Messaggi velati. La sua
testa voleva questo, morire. Abbandonarsi al buio eterno e smettere una
volta per tutte di pensare. Salì in macchina, era convinto. La accese e si
diresse verso casa. Non scrisse biglietti, non aveva nessuno da salutare.
Non si doveva giustificare con nessuno. Sali all’ultimo piano della
palazzina. Si avvicino al parapetto. “E’ ora, è l’unico modo, è l’unica
soluzione” pensò. Sali in piedi, sullo sfondo si stagliava la città,
indaffarata e indifferente a tutto quello che stava succedendo. Un passo.
Era nel vuoto.
“Ehi jill.. Jill guarda si è mosso, ha mosso un braccio.” “Sam sono
convinta che è stato un riflesso, non illuderti.” “No no guarda sta
aprendo gli occhi Jill!!” Peter aprì gli occhi. Attorno una stanza di
ospedale piena di fiori, nell’angolo un giradischi. Il suo corpo era
pesante come se non muovesse un muscolo da anni. “Presto chiamate il
primario, Peter si è svegliato” Intorno un mescolarsi di volti, conosciuti e
non. “Come stai tesoro?, oh Dio sia lodato il cielo.!” “Ma dove sono?,
cos’e successo?” esclamò Peter. Il primario entrò di corsa nella stanza.
“Uscite tutti. Devo parlare al ragazzo.” Jill sua madre e Sam suo padre
con al seguito lo zio e il piccolo cugino abbandonarono la camera. “ Non
è facile da dire, ma vedrò di essere diretto. Eri in coma figliolo. Lo sei
stato per nove lunghi anni. I tuoi parenti sono sempre stati qua. Ti
raccontavano storie, Ti parlavano, ti facevano ascoltare musica. Hai
avuto un brutto incidente nove anni fa. Ora hai ventun’ anni ragazzo.
Ben tornato.”
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“Sono Peter. P. Junior e tutto questo è reale” “Sono Peter. P. Junior e
tutto questo è reale”
E Tu ? Svegliati, ci manchi.
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Uno stato di assenza di coscienza, quello estremo del coma, che mi ha fatto pensare a quante volte non si abbraccia la vitta con tutta la forza e la passione che merita. L’ho sentito come un invito ed un inno alla vita, rimanendo se stessi. Bello!
Grazie mille Barbara. Sono felice di essere riuscito a trasmettere queste sensazioni.