Premio Racconti nella Rete 2016 “Cavoli e cavolfiori” di Gaetano Rocco Tabbi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Viveva in un piccolo paese della Sicilia un contadino. Egli amava dire che lavorava la terra con il sudore della fronte e non solo, ma anche con il cuore.
Era giorno del mercato e Turiddu, la cui specializzazione era quella di ortolano, aveva caricato il suo asino di broccoli (cavolfiori) che in mattinata avrebbe dovuto o cercato di vendere (strana unione il cercare di vendere ) alle massaie, con il solito e piacevole gioco della contrattazione. Questo deve essere il mercato. Perchè il mercanteggiare ci dà l’illusione di aver fatto un affare, vero o fittizio che sia.
Quante massaie aveva visto passare e quante si erano soffermate sulla sua mercanzia. Le aveva guardate tutte con attenzione, ma con la finta noncuranza dell’abile mercante. Di alcune aveva apprezzato l’avvenenza, di tutte aveva ispezionato con lo sguardo le ceste, le borse di olona o i fagotti. Si trattava della sua piccola ricerca di mercato, di quello che al paese si preferiva comprare. Sembrerà eccessivo, ma per vendere un carico di broccoli c’è bisogno più impegno che convincere una persona a votarti. Quando devi vendere un broccolo ne mostri le qualità e la massaia per portarselo a casa deve mettere mano al portafoglio. Con il pollice e l’indice deve tirare fuori la monetina che si trasferirà in un’altra tasca o portafoglio. Questo è il valore della moneta. Quando devi convincere una persona a votarti gli illustri un mondo a venire in cui lui votante avrà un ruolo di protagonista e comunque mai di comparsa. E per avere il tutto basterà mettere un segno con la matita nel punto giusto. Tutto questo si chiama promessa e l’azione effettuata con la matita si chiama voto. Il politico, pur non essendo riconosciuto come uomo di parola, si porta a casa una cosa concreta, mentre il votante sognerà un futuro radioso fin quando il verbo futuro con il passar del tempo diventerà presente. Turiddu restava sempre più convinto che vendere un broccolo è cosa più difficile.
Così tra un broccolo venduto e uno sguardo non ricambiato passava la giornata di mercato di compare Turiddu. Il migliore affare del giorno lo spuntò la zza Rusuzza che al prezzo di due broccoli ne comprò tre. Con felicità sua e dell’ortolano. Che i migliori affari sono quelli che rendono felici entrambe le parti.
Turiddu ne fu contento perchè erano gli ultimi broccoli rimasti. Con quelli era riuscito a vendere tutto. Ora bisognava concludere la giornata con l’azione che di già gli faceva palpitare il cuore. Con un gesto d’impeto tirò fuori dalla cesta di canne la cosa che lo avrebbe aiutato ad attaccare bottone. Si trattava di una comunissima treccia d’aglio e con questa si avviò lentamente verso la postazione della signora Giuliana. La sola di tutto il mercato ad avere l’appellativo di signora e non quello comune di zza (zia) o commare. Una nobile decaduta, sopravvissuta al marito, per vivere vendeva baccalà, aringhe, sarde e acciughe salate per chi aveva qualche monetina da spendere. Il trattare prodotti non velocemente deperibili le faceva affrontare il domani con animo speranzoso.
Soleva ripetere a se stessa: “Cara Giuliana, solo Giuliana ti basta. Gli altri nomi di accompagnamento non ti servono per riempire la pancia. Quello che non hai fatto oggi, con la volontà di Dio, lo farai domani”.
I modi di Turiddu verso la signora Giuliana furono perfetti nella forma. Arrivato davanti a lei, si tolse la coppola con fare rispettoso e cominciò: “Portai una treccia d’aglio se a voi dovesse servire per condire le sarde”. E si fermò aspettando la risposta.
“E quando ti devo dare? Domandò lei. Come a dire per una cosa che non ti ho richiesto.
Turiddu non la guardò negli occhi e come un atto di sottomissione abbassò i propri, dando l’impressione a Giuliana di aver vinto il faccia a faccia. Nel mentre godeva dentro di sè e pascolava con gli occhi tra le forme di quei seni che un ortolano può solo paragonare a dolci angurie. Sempre con gli occhi bassi rispose: “Ce li voglio regalare”.
“Vedi, compare Turiddu, la prima regola di un mercante è di non regalare niente. E anche quando si usa la parola regalo si vuole sempre qualcosa in cambio. Queste sono le regole. E siccome siamo tutti mercanti e l’aglio mi potrebbe servire … anch’io una cosa te la voglio regalare”. Si abbassò per prendere un’aringa affumicata da una cassetta, poi staccò dal barile di legno dieci sarde aiutandosi con un pezzettino di canna con delicatezza. Arrotolò il tutto in un foglio di giornale e nel porgerlo a Turiddu disse: “Vedi che l’aringa è uvata (contiene la sacca con le uova)… e le uova hanno più valore dell’aringa stessa, se la tua lingua è capace di apprezzarli”.
“Signora Giuliana li prendo non come commerciante, ma come un regalo non richiesto, ma gradito”.
Giuliana sorrise. “Sono vecchia per questo gioco e tu seppur più giovane hai di già perso i capelli. Ora, vedi di fare strada che sei stato fermo qui abbastanza ed io non dò spettacolo”.
Non è un rossetto a fare di una donna una puttana e il titolo di signora è meritato. Questo pensò Turiddu mentre con un cenno del capo si ritirava. Giuliana socchiuse gli occhi ed alzò il capo e quando li riaprì, guardando il cielo come se cercasse qualcosa al suo interno, pensò al passato, a Palermo quando ospite del barone zio Peppino, assaggiò, per la prima volta, caviale adagiato su miele e il tutto sopra un crostino di pane al latte. Ora invece si deliziava nell’abbrustolire una fetta di pane raffermo su cui spalmava del miele e sopra uova d’aringa. Il risultato non era lo stesso. Ma lei lo trovava più buono. O la semplice pasta aglio e olio, e quando il tutto era nel piatto bastava aggiungere un cucchiaino di uova, mischiare e buon appetito. Trovò che questi pensieri non escludevano alla condizione di povertà una gioia del palato fatta anche di cose semplici. “Questa sera insalata d’arance, olive nere e aringa. Questo te lo meriti”.
Turiddu era ormai arrivato vicino all’asino. Lo accarezzò sulla mascella. Era chiaramente felice, e avvicinandosi all’orecchia grande e pelosa, disse piano: “Con questa possente mascella potresti diventare il dittatore degli asini”.
Poi cominciò a bardarlo e dopo aver caricato tutto, gli fece abbassare il collo per farsi aiutare a salire in groppa e quasi come un guizzo si ritrovò seduto sulla barda. Aggiustò la coppola che per via del salto aveva assunto una posizione storta e lasciava in bella vista parte della testa pelata. A lui chi portava la coppola storta non piaceva. Perchè chi vuole mettere in evidenza l’essere malandrino lo vedeva come una sorta non di sfida, ma di difesa. Come a dire: “Non datemi fastidio che io sono un malandrino”.
“Hai finito di già? Sempre il migliore sei”. Era la voce di Meluccio che lo salutava utilizzando anche un complimento. E la cosa gli fece piacere.
“È facile essere più migliore di te”. E sul più migliore calcò la voce ricordando il dolore, dovuto all’errore, che il palmo della sua mano delicata, allora liscia e senza calli, ricevette dal colpo della sottile verga del maestro Pagano Rosario. Poi continuò: “Io avevo solo una ventina di broccoli da vendere. Mentre tu che vendi coppole ne hai a centinaia e poi la coppola non è un bene di consumo come il broccolo. Io la mia coppola ce l’ho da una vita e ci sono affezionato. Ti saluto compare Paolo”. E sollevò la coppola per salutarlo portandola quasi fino alla pancia con un evidente intendo.
Compare Paolo capì, ma trovò dell’altro: “Ti conosco ed ho capito che stai indicando la tua pancia. Sono contento per te che ti sei fatto grosso”.
“Hai ragione. Non ti scappa niente”. E tirò le punte del gilet come a cercare di coprire una leggera pancetta, poi sistemando le spalline della sua giacca pensò che tutto era a posto per partire. Un leggero batter di calcagna diede l’ordine all’asino di muoversi mentre lui con cenni della testa e con la destra alzata continuava a salutare a destra e a manca, e come un Cesare contadino si congedava momentaneamente dal suo popolo.
Anche l’asino era contento perchè il ritorno sarebbe stato meno faticoso dell’andata e poi all’arrivo, stalla dolce stalla, fieno fresco e carrube spezzettate.
Mentre i due stavano per uscire dal mercato udirono una voce all’unisono. Le orecchiè d’uomo hanno la stessa funzione di quelle dell’asino. Entrambe captano suoni.
“Massaro Turiddu fermatevi che vi voglio parlare. Un affare vi devo proporre… Anch’io ho voglia di smontare la baracca e di tornare a casa dolce casa e sedermi davanti ad un piatto fumante di maccheroni”.
Turiddu tirò le redini per fermare l’asino, forma arcaica del freno a mano. Abbassò la visiera della coppola come a dire, ci metto attenzione, ora puoi fare la proposta.
“Mi sono rimasti dieci mazzi di cavoli. Piantine buone come puoi vedere. E se li prendi tutti, vedo di farti un buon prezzo”. E poi senza aspettare risposta, per incalzarlo e confonderlo, aggiunse quasi con lamentela : “ È tutto il giorno che vendo piantine di pomodoro e di cavoli pochissime. Ai contadini forse non basteranno i propri terreni e alle donne serviranno altre tavole per seccare pomodori e fare astrattu (concentrato). Sorrise in maniera impercettibile, aspettando un segnale di consenso da che lo avrebbe trasformato in un sorriso aperto. E quella storiella, insieme alle altre della giornata, andava ad alimentare la sua vanità.
Turiddu abbassò ulteriormente la visiera, oramai la nuca era tutta scoperta e si intravedeva, come in un bosco, la fine dei capelli e parte della radura. I suoi occhi si posarono sul ventre grosso di Massaro Ciccio e tirando le redini frenò il suo impeto e cercò le parole giuste.
“Non posso accettare la vostra proposta perchè il mio è un piccolo pezzo di terra e poi se in ogni mazzo ci sono cento piantine… che me ne faccio di mille?” E serio continuò: “E poi, io sono uomo all’antica e le piantine ho il piacere di produrle da me!… Dopo tanti anni sono ancora affascinato. Terra, seme, piantina, amore… e poi frutto. Una mano sul cuore e una sul portafoglio”. E se le orecchie di massaro Ciccio non avessero capito, mimò la frase con i gesti, portando la destra sul cuore e la sinistra sopra la tasca dei pantaloni. Quella frase era il suo motto, il suo comandamento laico. Poi continuò: “Questa cosa mi dà motivo di vivere e mi fa vivere”, sentenziò.
Il viso di Massaro Ciccio si fece cupo: “Mah!… Se dici così è questione di principio ed io non posso forzarti. Poi ti avrei dato tutti i dieci mazzi… pensa un po’… al prezzo di sette”, sibilò con viso serio e senza il sorrisetto di rito.
Vedeva che ancora ci provava. Turiddu cercò parole più giuste per essere ancora più chiaro: “Sono persona alla buona. Mi accontento di poco e di quello che ho”. E siccome quando un siciliano ha bisogno di fare chiarezza e rendere comprensibile a tutti un discorso o il senso di una frase fa un po’ come Gesù, invece di raccontare una metafora che sarebbe una cosa lunga, prende un detto dal patrimonio culturale delle tradizioni e lo spiattella in modo che anche gli asini, quelli con le orecchie piccole, possono capire.
“Il poco mi basta e il di più mi soverchia”. Antico detto che Turiddu si permise di tradurre, così per vezzo e non per renderlo più comprensibile a quelle orecchie attaccate ad una testa che lo continuavano a guardarlo dall’alto verso il basso pur trovandosi su un piano fisico che non lo consentiva. Ma abbiamo dalla nostra l’età e l’esperienza, ed abbiamo capito che altezza geometrica ed altezza dovuta a superbia non usano lo stesso metro di misura.
Turiddu si ricordò del nonno che lo invitava ad abbassare la cresta dicendogli: “Quando cominci a sentirti un cavallo… stai per diventare un asino”. E con l’aiuto del nonno, che anche da morto continuava ad aiutarlo, cercò le parole che stavolta dovevano essere veramente quelle giuste. Quelle che avrebbero smorzato la superbia di Massaro Ciccio e pure la propria.
Le parole giuste quel giorno furono una mezza verità, finta adulazione e il tutto condito con ipocrisia.
“Caro amico. Voi, massaro Ciccio, ci sapete fare e sapete come essere convincente. Ma io, il massimo affare che riesco a realizzare è vendere tre broccoli piccoli al prezzo di due grossi. Oltre ancora non sono andato. E poi, se la vostra proposta è un affare, come sicuramente lo è…troverà di sicuro qualcuno meno fesso di me che non si lascerà scappare l’affare. Dico questo solo perchè c’è stima ed amicizia e quando c’è questo non può esserci imbroglio, ma solo onestà e sincerità”.
Le parole allusive resero nero il cielo di entrambi, anche se sopra loro il sole la faceva da padrone.
Turiddu e massaro Ciccio si fecero seri e, per pochi secondi che parvero lunghissimi, ci fu come un masso o un’eruzione in attesa di scaricarsi su di loro. Fino a quando massaro Ciccio si sforzò con un sorriso, così forzato da apparire come un ghigno. Per rispondere nei dovuti modi e senza arrivare alle mani cominciò così: “Tu, caro Turiddu, mi pare che la sai lunga. Ma un affare quando c’è l’occasione non si lascia mai scappare. Avresti potuto vendere le piantine domani al mercato di Tubare, facendoci un buon guadagno. Questo per dire le cose come stanno. E dal momento che cavalchi un asino lui non si offenderà se ti ricordo il vecchio detto che anch’io so tradurre, non dare il biscotto all’asino…che l’asino non lo capisce”. Poi cambiò tono e si fece sarcastico: “Allora Turiddu ha deciso di volere continuare a viaggiare in groppa all’asino e mai si farà la lapa (Ape motocarro)”. Era passato dal tu al lui ed aveva parlato di Turiddu a Turiddu, come se si trattasse di un’altra persona.
Turiddu curvò leggermente la schiena per abbassarsi. Porse la mano guardingo, mentre con la sinistra stringeva il coltello all’interno della tasca della giacca. Non fu una stretta amichevole, ma anche se non segnò una pace, si trattò sempre di un armistizio.
Turiddu capì che non c’era più pericolo quando sentì che l’interesse di massaro Ciccio era ormai rivolto altrove. Per propagandare la vendita di quei ultimi mazzi di piantine, infatti già gridava: “Cavoli, cavoli. Ultimi mazzi. Avvicinatevi che facciamo l’affare. Ho deciso di fallire”.
Ora anche l’asino cominciava a calmarsi. Sentiva il padrone più sereno.
Turiddu, Turiddu se non te li cerchi tu, ti cercano loro. E ripensò alla discussione e al titolo di Massaro perduto. Alla concessione di un titolo che aveva avuto vita più breve del titolo di un principe gemello che nasce per primo.
Meglio il titolo di compare che gli amici anteponevano al nome quando lo chiamavano. Ed anche perchè, così lo chiamava la signora Giuliana.
Questi i pensieri di Turiddu quando l’asino già salutava le ultime case del paese.
Arrivati in contrada Santa Caterina i due si fermarono. Lì c’era una fontana.Turiddu scese e con la mano mosse leggermente la superficie dell’acqua e con il solito fischio, invitò l’asino a bere e poi anche lui bevve usando le mani come recipiente. Dissetato che si ebbe, si fermò a sentire i rumori della natura, si corresse mentalmente chiamandoli suoni e subito dopo arrivò anche la parola musica. Stette un po’ a guardare le prodezze aeree della libellula alla cui vista anche un Barone Rosso si sarebbe vergognato a decollare. Figurati lui che viaggiava a dorso d’asino. Ma per darsi contegno ed importanza tirò fuori, non dalla coppola, ma da quella che copriva il ricordo del viaggiatore tedesco che in Sicilia ne visitò le bellezze a dorso di mulo, come riporta la cronaca, ma potrebbe essersi trattato anche di un nobile asino.
Questo ricordo colto era frutto degli anni del seminario, della biblioteca vescovile e quella del Marchese Concetto, i cui libri lo avevano guastato come diceva lui a se stesso. Si avvicinò affettuosamente all’asino ed aggiustando le redini in modo che ricadessero penzolanti sulle zampe anteriori come una stola, con un breve discorso confessò a se stesso: “Tutto il giorno ho visto passare piantine di cavoli e pochissime piantine di pomodoro. Vedi Pinuzzu (nome dell’asino) abbisogna stare attenti! È sempre una guerra campare”. E poi sorridendo: “È meglio vendere cavolfiori che comprare i cavoli degli altri. Perchè dal momento che li compri…da cavoli suoi diventano cavoli tuoi e dal momento che diventano tuoi, hai perso il tuo denaro e te li ritrovi come cavoli amari. Lui si è arrabbiato, non tanto per le mie risposte, ma per non avermi convinto, mi ha paragonato ad un asino, ma nello stesso tempo mi ha fatto un involontario complimento dicendo che la so lunga”. Si fermò un attimo e poi continuò: ” Penso che noi due ci completiamo a vicenda”: “Io la so lunga, mentre tu ce l’hai lunga …la lingua”.
Poi trasse dalla tasca un “ nucatulo” (biscotto duro di mandorle), il solo che aveva. Sfiorò il coltello, ma non gli serviva per tagliare un biscotto. Spezzò il biscotto, usando il pollice e l’indice di entrambe le mani, cercando di farne due parti uguali. Metà lo mise sul palmo della mano e l’avvicinò a Pinuzzu, l’altra metà fu per lui. Assaporarono il biscotto insieme e Turiddu ebbe l’impressione che l’asino sorridesse.
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Sapore antico, un po’ ostica la scrittura, ma se è voluto per calarsi del tutto nell’ambiente e nei personaggi, niente male.