Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “La partita” di Serena Naldini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Un riquadro di luce e tutt’intorno buio. Eccetto la luna lassù, oltre la rete della recinzione, tonda e nitida nel nero totale del cielo. Gli spilli del freddo non hanno pietà. In mezzo al campo tu macini saltelli rapidissimi con quelle gambette nude, da uccellino spiantato. La maglia bianca ti arriva a mezza coscia, coprendo quasi del tutto i pantaloncini celesti. Chissà come le hanno prese, le misure. Io mi stringo nel cappotto di lana ruvida e riaggancio gli occhi al pallone.

– Mamma, ci vieni a vedere la partita? – mi hai domandato stamattina frugando le parole intorno a un biscotto, un filo di latte che colava dall’angolo della bocca. Hai fatto cadere le sillabe fuori dal cerchio di vapore della tazza come fosse per caso, nel modo nascosto in cui butti a terra le carte delle caramelle quando ti fa fatica cercare un cestino.

Certo che corri veloce. La palla non te la fanno toccare un granché, ma cavoli se corri. Non ne molli una, ragazzo. Come adesso, che ti sei ficcato in mezzo a due molossi dall’aria un po’ truce. Anche tu, comunque, a sguardo non scherzi. Hai messo su un paio d’occhi a fessura che non t’ho mai visto, che non c’entrano niente con la morbidezza dei tuoi riccioli. Li vuoi tagliare, lo so, ma io non ho mai tempo di portarti. E poi a me, i tuoi capelli, piacciono così, a onde  lunghe e aggrovigliate.
– Ma non sono un po’ troppo grandi gli altri? – chiedo a uno dei papà al mio fianco.
Lui mi guarda con aria distratta. – Sì, – mi dice. – Hanno un paio d’anni più dei nostri.
Intanto il pallone è entrato di nuovo in rete, quattro a zero per loro. Sulla destra, con il muso infilato tra le sbarre di un cancello nei pressi della recinzione del campo, un cane abbaia con furia proteso in avanti, come se la palla l’avessero rubata a lui. La luna è quasi scomparsa, offuscata in nubi che ne assorbono la luce. Il portiere si appoggia a un palo. Uno dei compagni gli dà una pacca sulla spalla. Un altro gli porta qualche parola all’orecchio, forse lo sta consolando. E tu, dalla parte opposta dello spazio di gioco, fissi il verde dell’erba sintetica. Non ti ho mai visto così serio.
Ti scuoti un istante prima che il gioco riprenda. Qualcuno rilancia il pallone. Questo compone un arco, tu come niente scatti in avanti e lo blocchi col tuo petto da usignolo, poi lo lasci scorrere lungo il corpo, fino a terra. È un gesto infinitamente sicuro, il tuo, e naturale, come non avessi fatto altro da quando sei nato. Ora ti allunghi la palla, con il piede leggero, muovendo qualche passo verso la porta avversaria.

I primi calci li hai tirati quattro mesi prima di nascere, in una sera di gennaio gelida come questa. C’era lo stesso odore di inverno che punge le narici. Lo spazio era quello rotondo della mia pancia. Fluido e tiepido. Almeno fino all’istante prima che squillasse il cellulare.

Come un nugolo d’api su un fiore, tre ragazzini in maglia nera e calzoncini gialli ti circondano in una coreografia impeccabile che ti costringe a fermarti. Con sfioramenti piccoli e precisi, usando la punta del piede sinistro, sposti un po’ la sfera, la muovi ancora d’un niente, e poi la sollevi d’un pelo da terra, ma senza portarla via, no, non te ne impossessi del tutto. Sembra che tu stia cercando un patto ipnotico col pallone. E gli altri a guardarti, attoniti.

Al terzo squillo tirai su il telefono, la forchetta di spaghetti a mezz’aria sulla tovaglia a quadretti rossi della cena.
– Pronto, – fecero dall’altra parte. Riconobbi la voce di tuo zio.
– Ciao, – risposi un po’ stupita. Non chiamava mai a quell’ora. Non chiamava mai per niente.
– Senti, – disse lui.
Ci fu un silenzio lungo come l’inverno. Non ebbi il coraggio di romperlo. Fu lui a farlo.
– Si tratta della mamma.

E così, come niente fosse, ti metti a palleggiare basso, in mezzo ai tre ragazzi gialloneri. Con i tuoi minimi colpi di piede non stai solo cercando un varco tra gli avversari. Stai provando anche a dilatare il tempo, per averne di più, per vincerla tu, questa battaglia ìmpari, trattenendo una manciata di secondi decisivi allo scorrere implacabile del cronometro.

– L’abbiamo portata al pronto soccorso per una cosa da nulla.
– Come? Che dici? – Quella che uscì dalle mie labbra era un’eco della mia voce. Sottile, distorta, roba da non riconoscerla. – Cos’è successo?
– Non so, non stava bene. Solo che…
– Solo che?
– Dicono che hanno fatto il possibile.
Il primo calcio lo tirasti in quel momento. Uno ben sferrato, all’altezza del mio ombelico sformato dalla gravidanza. D’istinto mollai il cellulare, infilai le mani sotto la maglia e le posai sul ventre a palmi aperti. Premetti a fondo per tenerti fermo in quella specie di abbraccio. La mia pelle era bollente.

I tre bambini, molto più alti e robusti di te, sembrano interdetti. Restano immobili e fissano la palla, intrappolati nel tuo fragile ricamo di calci all’insù. Tu continui a toccare e lasciare, seguendo il battere e levare di una musica che senti solo tu. E a guardarti così, tutto questo, per te, sembra ovvio come respirare e nulla più.

Pochi minuti dopo, mi trovai in strada con tuo padre alla guida. Lui mi lanciava sguardi di sbieco, staccando gli occhi dall’asfalto luccicante di lampioni, per sorvegliare come stavo, e come stavi tu che mi nascevi dentro.
– Che fa? – chiedeva.
– Non capisco, – dicevo.
I calci erano diventati una girandola di colpi che non sapevo arginare, mentre un calore di lacrime mi scorreva sulle guance. Poi, d’improvviso, ci fu una scossa, così netta da stupirsi che non avesse prodotto un rumore all’esterno. Mi guardai la pancia, come per vederci attraverso. L’abitacolo fu invaso da un silenzio liquido. Passarono alcuni istanti e mi prese un dolore acuto, appiccato proprio in mezzo alle gambe. Corse lungo la spina dorsale e mi ingabbiò il torace e la testa. Per un bel pezzo non riuscii a fiatare se non a piccoli sorsi. Mi pareva evidente che un respiro profondo avrebbe generato uno strappo definitivo, irrecuperabile.

E con la stessa facilità con cui hai iniziato a muoverti intorno a quel pallone, d’un tratto ti volti, esausto, lasciandoti la scena alle spalle: i tre ragazzi ape, la sfera ormai ferma su quest’erba fasulla, e i soffi bianchi della condensa sospesi sulla bocca di tutti. Ora, uno dei tre si risveglia, e con la palla incollata al piede parte al galoppo verso la nostra porta. Il cane riprende ad abbaiare come impazzito. Forza, penso. O meglio, credo di pensare, perché in realtà sto già urlando:
– Forza, dai!
Uno dei papà al mio fianco grida qualcosa anche lui. E il brusio degli altri diventa applauso:
– Coraggio, bambini! Non è ancora finita!

Eravamo sparati a centottanta all’ora nel buio dell’autostrada. Io, col mio alitare cauto e i polpastrelli sudati che cercavano a tastoni gli spigoli acerbi del tuo corpo sulla pelle stirata della pancia. E te, diventato di colpo muto e immobile come il piombo.
Non so dirti quanto durò tutto questo.

Il pallone vola rapido verso la nostra porta e tutti i giocatori dietro. Tutti, tranne te e i tre ragazzi ape che ti girano attorno. Tu cammini con decisione, ma in tutta calma, un piede dopo l’altro, e sembri parlare tra te e te. Mormori qualcosa e sorridi con aria sognante. Chissà che stai dicendo, cosa mai ti passa per la testa. Ecco che adesso aumenti il passo, ti dai slancio, e ti metti a correre. Nell’esatto momento in cui superi la linea della metà campo, la palla, respinta dal mucchio, ti arriva sul ginocchio sinistro. Sembrava che non aspettassi altro.

A un certo punto, provai a ormeggiare lo sguardo sul nastro del guardrail che scorreva netto tra l’asfalto illuminato e la notte. Alle nostre spalle c’era solo oscurità, nessun’altra macchina, niente di niente. Tentai un respiro più profondo. E poi lo dissi. Non so a chi o perché, ma lo dissi:
– Io respiro.
Tuo padre mi guardò. Inspirai di nuovo, stavolta più a lungo. Fu in quel momento che ti muovesti. D’un niente, ma ti muovesti.
– Io respiro! – Questa volta lo urlai.

Il pallone rimbalza sul tuo ginocchio, ma lo riprendi al volo, e lo lasci scivolare a terra. Poi ti volti – tu, il pallone e i tuoi ricci pieni di vento – e ti slanci in avanti, verso la porta avversaria. I ragazzi ape sono alle calcagna, non ti mollano, ma tu sei più veloce. Niente che possa fermarti, adesso. Un tuo compagno chiama la palla. Tu gliela passi di esterno sinistro, preciso al millimetro. Nessuno dei gialloneri ci arriva. Ormai sei in area di rigore. Dalla fascia, il tuo compagno tenta un cross alto. Quello che fai adesso, non so come te lo sei inventato, da che dimensione provenga. Sono tutti più alti di te eppure tu, con la testa, arrivi per primo alla palla, come se ti fossi arrampicato su un desiderio. Neanche il portiere se l’aspetta, quel movimento fluido del collo, e quella frustata del corpo, e quella scossa di sogno a occhi aperti con cui il pallone finisce in rete.
L’incredulità dura il tempo del lampo che ti spalanca lo sguardo. Dopo, c’è solo spazio per la tua corsa sbilenca di salti verso l’alto, per il mulinare dei compagni come coriandoli attorno e addosso, per il tuo nome urlato e gli applausi e le mani che fanno male dal freddo, per l’abbaiare folle del cane alla palla negata e alla luna scomparsa.
Qualcosa di gelido mi sfiora una guancia. La tocco, è umida. Guardo in su. Contro il nero del cielo, la neve cade in fiocchi piccoli e fitti. Sembra che si stiano sbriciolando le stelle. E dimmi tu se questa non è una meraviglia, figlio mio.

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8 commenti »

  1. Bellissimo

  2. Sottoscrivo… bellissimo.

  3. Bellissimo!

  4. L’ho letto in un attimo… lascia senza respiro, in due momenti paralleli ed indimenticabili. Complimenti!

  5. Grazie a tutti 🙂

  6. Grande personalità. Proprio bello.

  7. Incantata per la narrazione, il ritmo che le hai saputo dare, per come scrivi, per come hai creato coinvolgimento in questa meravigliosa storia. Brava.

  8. Grazie mille! 🙂

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