Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Il piccione” di Antonio Fiore

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Marco avrebbe anche potuto pensare di essere l’unico sopravvissuto di una guerra atomica: non si sentiva alcun rumore, infatti, o voce, in quel soffocante sabato di metà agosto.
Attraversò la terrazza, andò al rubinetto, lo aprì e ci ficcò la testa sotto. Dopodiché, coi capelli bianchi sgocciolanti, in costume da bagno, si appoggiò alla ringhiera e osservò il panorama.
Intorno a lui, la visuale era libera su buona parte di Roma.
Individuò, in lontananza, i punti di riferimento preferiti: la cupola di San Paolo, il tetto di San Giovanni con le statue dei santi, l’Altare della Patria, le montagne sullo sfondo.
In realtà, in quella fase della sua vita sentiva il bisogno di assicurarsi che almeno quegli oggetti stessero sempre al proprio posto: che nulla fosse cambiato intorno a lui.
Come suo solito, poi, Marco si dedicò per qualche minuto a uno dei suoi giochi preferiti: immaginare una sorta di percorso fra i tetti che lo circondavano, per andare lontano, senza una meta precisa.
“Potrei saltare su quel balcone” pensava “appendermi a quella grondaia, scavalcare quel muro, correre lungo quel cornicione”, e così via.
Gli era sempre piaciuto arrampicarsi e saltare, fin da bambino. In effetti, più di una volta aveva provato ad avventurarsi sul tetto del suo palazzo, perché dalla terrazza della sua mansarda era piuttosto semplice scavalcare la ringhiera e procedere sui grossi coppi rossi fino in cima al tetto.

Anche quel pomeriggio gli venne voglia di fare un giro.
Scavalcò la ringhiera con un volteggio elegante ma qualcosa lo costrinse a fermarsi: si sentì osservato.
Alzando la testa, lo vide subito: su un comignolo – a non più di quattro, cinque metri da lui – era appollaiato un grosso piccione col collo antracite e la pancia tonda di colore grigio chiaro. Il piccione si mosse e in quel momento Marco notò un particolare: gli mancava una zampa. L’uccello, quindi, procedeva saltellando in modo piuttosto goffo e sgraziato sull’unica che aveva. I suoi occhietti rossi, che gli ricordarono un tondo pezzo di cocomero con un seme nero al centro, parevano scrutare con attenzione Marco: il quale, per verificare questo dubbio, saltò di nuovo la ringhiera e si mise a fare dei movimenti rapidi e irregolari sul terrazzo. Gli sembrò che il piccione ruotasse la testa e il corpo in modo da averlo sempre nella propria visuale. Era perplesso.

Il suono del citofono lo riportò alla realtà.
Ebbe un momento di ansia: erano le due del pomeriggio e non aspettava nessuno.
“Chi è?”
“Ciao! Sono Laura!”
Le aprì.
Laura aveva sui quarantanni. L’aveva conosciuta il giorno in cui gli aveva portato le bimbe per un controllo: lui aveva fatto il seduttivo e lei aveva colto l’occasione. Per rimorchiarlo, gli aveva offerto un pranzo in un locale elegante, nel quale aveva prenotato una stanza riservata: la cosa a Marco era piaciuta molto, perché apprezzava le donne intraprendenti. Laura, poi, gli piaceva perché era sempre sorridente e molto elegante. Quel giorno, aveva deciso di indossare un vestitino leggero di seta con dei disegni colorati – che metteva in risalto le sue forme – e sandali col tacco alto. Non aveva un viso bello, ma belle gambe e, soprattutto, caviglie sottili: l’insieme gli piaceva.
La baciò sulla bocca e lei gli si strinse addosso: percepì il suo buon profumo e le passò le mani sui fianchi, scendendo poi dolcemente fino al sedere. Era già eccitato.
“Ehi, come mai questa sorpresa?”, le sussurrò.
“Be’, stamattina ho mollato le bambine a mio marito e sono uscita con una scusa: avevo voglia di vederti. Ho solo un’oretta di tempo”
“Credevo stessi in vacanza: è quasi un mese che sei sparita”
“Hai ragione, caro, perdonami ma… sai com’è…”
“Già. Lo so. Lo so.”
“Ti ho portato una crostatina per la merenda” disse sorridendo, tirando fuori una busta dalla borsa “Marmellata scura, no? Conosco i tuoi gusti”.
“Grazie. La mangerò dopo. Andiamo di là”
La prese per mano e andarono in camera da letto.
Voleva fare l’amore subito, senza preliminari.
Laura sorrise e disse: “Facciamo entrare un po’ d’aria, che ne dici?”.
Aprì i battenti della larga finestra rettangolare, incastrata nel sottotetto.
“Ehi, piccolo”, mormorò.
“Con chi ce l’hai?”, chiese Marco allarmato.
“Ce l’ho col tuo ospite. Abbiamo compagnia, sai: c’è un bel piccione, qui, proprio davanti alla tua finestra”.
Lo vide subito: si stagliava di profilo sulle tegole del tetto, a non più di mezzo metro da lui, con la zampa monca e col becco nero semiaperto, come se stesse sorridendo.
Marco prese un cuscino e lo sbattè contro la zanzariera, urlando: “Vai via!”. Il piccione si gettò in planata dal tetto senza scomporsi più di tanto. Marco rimase a bocca aperta, tentando di vedere dove si era diretto, finché Laura non gli chiese:
“Ehi, era solo un piccione innocuo. Perché ce l’hai tanto con lui?”
“Ci stava guardando chissà da quanto, quello stronzo”.
Laura lo accarezzò: “Calmati, dai. Ti vedo un po’ nervoso. Dovresti farti qualche giorno di vacanza”
“Vacanza? E con chi? Sono solo, lo sai”
“Be’, non so. Tuo figlio? A proposito, come sta?”
“Non lo sento da mesi. Oramai l’ho cancellato. Secondo me mi odia”
“Ma no, dai. Devi solo recuperare un dialogo con lui”
“Dialogo? Sai che mi ha detto, l’ultima volta che l’ho sentito? Tu per me sei solo DNA. Nient’altro. Che ne dici, come dialogo?”
“Capisco, ma è un ragazzo e devi avere pazienza”
“Senti, Laura, ti ringrazio ma lascia perdere. Non mi va di affrontare quest’argomento”
“Va bene, come preferisci”.

Quando Laura se ne andò, Marco fu sicuro che non l’avrebbe più rivista ma sentì una specie di sollievo.
Era stufo. Stufo di tutto: perfino di scopare, pensò.
Decise di tornare in terrazzo a prendere il sole, e si stese di nuovo sulla vecchia sdraio di plastica bianca.
Erano le tre del pomeriggio e si addormentò.

Qualche ora più tardi, fu svegliato all’improvviso da una strana sensazione sulla pancia: come se una tazzina di un liquido caldo e vischioso gli fosse stata versata dall’alto, proprio in quel punto. Si mise seduto e con gli occhi appannati cercò di mettere a fuoco il proprio addome. Iniziò a sudare e a tremare: all’altezza del suo ombelico, anzi, proprio sul suo ombelico, era spiattellata una cacca di piccione. Mentre si ripuliva vide che il piccione con una zampa sola era apparso sul cornicione. Senza ombra di dubbio, era stato lui, pensò. Era sicuro che l’avesse fatto apposta: forse per umiliarlo, per provocarlo, per fargli perdere la testa, chissà. Pensò anche che l’uccello si era appollaiato davanti a lui proprio per osservarlo e deriderlo.
In quel preciso istante, Marco capì che avrebbe voluto ammazzarlo.
Rientrò in casa per lavarsi ma, appena attraversata la porta–finestra del terrazzo – che aveva lasciato spalancata mentre prendeva il sole – emise un urlo: “No!”.
Si accorse che le pesche contenute in una fruttiera sul tavolino erano deturpate da colpi di becco e da piccole cavità, simili a crateri lunari.
Bestemmiando, andò di corsa in camera da letto e lì scoprì che un lume giaceva in pezzi per terra. Sentì salire dentro di sé la marea montante della rabbia ma si sforzò di rimanere lucido e di analizzare la situazione.
Era stato sicuramente lui, “quel” piccione. Ne era certo.
Lo doveva eliminare.
Decise, perciò, che l’indomani avrebbe cercato di abbatterlo in qualche modo, anche a costo di inseguirlo sul tetto.

Mentre stava in bagno, gli squillò il cellulare.
“Pronto”
“Ciao, Marco, sono Carlo”
“Ah, ciao. Non ti avevo riconosciuto, perdonami. Sono un po’ distratto, in questi giorni”.
Parlando, Marco diede uno sguardo al di là della finestra del bagno spalancata e proprio in quell’istante, alla luce del tramonto, vide il piccione fermo sulla grondaia, pochi metri più in basso, che lo scrutava. L’imprecazione gli uscì come una specie di gemito:
“Pezzo di merda…”
“Marco, ci sei?”, chiese Carlo.
“Si, scusa, sono in bagno e ho un problema da risolvere…”
“Non preoccuparti. Anzi, perdonami tu se ti disturbo di sabato. Purtroppo ti chiamo per darti una notizia non proprio felice”.
Le sopracciglia di Marco calarono a tal punto che gli occhi scomparvero. “Cioè?”
“Il progetto. Quello che avevi presentato. L’hanno bocciato”
“Ma come? Mi avevano assicurato che era tutto ok…”
“Si, ma proprio ieri il Consiglio Direttivo ha deciso per un altro. Mi dispiace”
“Ma come un altro?” urlò “non è corretto!”
“Senti, Marco, capisco la tua rabbia ma non so che dirti. Anzi, a dire il vero io non sarei stato nemmeno tenuto a chiamarti, perché non è una notizia ufficiale. Ti invieranno di sicuro una lettera nei prossimi giorni: noi siamo amici, però, e ho voluto avvertirti. Ora ti devo salutare. Stammi bene!”.
Marco non gli rispose nemmeno. Una cosa era certa: da quando quel piccione era comparso nella sua vita, pareva che andasse tutto storto.

Decise di procurarsi un’arma.
In casa aveva un vecchio attaccapanni in metallo, lungo almeno due metri. Tra i suoi attrezzi trovò un seghetto da ferro e lo usò per tagliare l’asta dell’attaccapanni, perché gli sembrava un eccellente strumento per colpire il piccione, se solo fosse riuscito ad arrivare a una distanza utile e a coglierlo di sorpresa.
Completato il lavoro, soppesò la rudimentale lancia e decise che per il momento andava bene.
Si era fatto buio.
Uscì in terrazza ma, anche nella penombra, riuscì a vederlo subito: stava sul muro che separava il suo terrazzo da quello condominiale. Sembrava dormire.
Marco decise di provarci.
Si avvicinò in silenzio, impugnando il tubo con due mani. Quando fu a non più di tre passi dal piccione, portò la spranga sulla testa e la calò con tutta la forza che aveva. Colpì il muro con tale violenza da provocare la rottura di un pezzo di marmo del bordo superiore ma il piccione, giusto un millesimo di secondo prima che il ferro si abbattesse su di lui, allargò le ali, fece un saltello sulla sua unica zampa e si allontanò di qualche decina di centimetri, emettendo un sordo “glugluglu” che a Marco sembrò una specie di risata.
“Maledetto”, disse.
Dopo aver posato la spranga cercò allora di saltare sul muro, appendendosi con le mani al bordo e sforzandosi di sollevarsi con la sola forza delle braccia. Non ci riuscì, perché gli sfuggì la presa e ricadde a terra. Ci riprovò una seconda volta, prendendo un paio di metri di rincorsa e puntando un piede a metà della parete per darsi lo slancio, ma sbagliò la misura e andò a sbattere col ginocchio contro la superficie ruvida. Si buttò a terra per il dolore, a pancia in su, tenendosi il ginocchio fra le mani, mentre dai denti gli usciva un “Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo”. Quando si rialzò in piedi, col ginocchio scorticato e dolorante, i suoi occhi si erano trasformati in due buchi neri e le labbra apparivano retratte, mostrando la linea dei denti superiori.
Si avvicinò di nuovo al muro, ma questa volta piegò le gambe e saltò talmente in alto da riuscire ad agganciarsi al bordo non solo con le mani ma anche con gli avambracci: riuscì a tirarsi su, prima con una gamba, poi con l’altra, poi con tutto il corpo. Rimase per un secondo accucciato, ansimando: poi, si alzò in piedi per guardarsi intorno. Il panorama che aveva ammirato qualche ora prima, alla luce del giorno, dall’alto del muro appariva in quel momento del tutto diverso: una via lattea di luci, provenienti dalle case, dai fanali delle auto, dai lampioni stradali, che rendeva meno impenetrabile il buio della notte e dava la possibilità di intravedere le sagome degli oggetti che lo circondavano.
Il piccione nel frattempo si era spostato di nuovo. Marco ne individuò l’ombra su un vecchio condizionatore, a sua volta situato sullo stretto lastrico solare in cemento del palazzo – zeppo di parabole, antenne, comignoli – dal quale partivano i quattro tetti spioventi rivestiti dalle tegole metalliche, simili alle colate di lava di un vulcano. Marco raccolse la spranga e si mosse con la massima velocità possibile. Questa volta, però, invece di calare la sua arma dall’alto verso il basso, decise di rotearla in senso trasversale come un falce, nel tentativo di intercettare il piccione mentre spiccava il volo. Saltellò su un basso comignolo e, appena atterrato, lanciò il suo colpo: sentì il sibilo della spranga e sperò di percepire l’urto sul bersaglio ma, ancora una volta, il suo avversario riuscì a prevedere in tempo il pericolo, spiccò un volo deciso e sparì dalla vista lanciandosi nel vuoto.
Nello slancio, Marco perse l’equilibrio e cadde in avanti ruotando su sé stesso. Lasciò andare il tubo di metallo, che rotolò rumorosamente sulle tegole del tetto, per poi andarsi a incastrare nella grondaia.
Si rialzò dolorante. Si toccò il fianco destro e sentì che era bagnato: al buio, gli ci volle qualche secondo per capire che era il suo sangue. Cercò di capire cosa l’aveva ferito e, per terra, si accorse che c’era uno spuntone di ferro che fuoriusciva dal cemento. Sentì un frullare di ali dietro di sé e capì che il piccione era tornato, senza bisogno di girarsi: oramai aveva perso il bastone, era ferito e non aveva alcuna possibilità di colpirlo, ma aveva capito che lui non se ne sarebbe andato perché voleva guardarlo dissanguarsi su quella terrazza.
Quell’essere voleva la sua fine.
Marco si girò lentamente. Malgrado percepisse il sangue colargli giù lungo la gamba, non sentiva alcun dolore. Il piccione se ne stava accoccolato su un muretto di cemento, alto poco più di un metro, a non più di tre passi da lui.
Si guardarono a lungo, immobili.
Marco non sapeva cosa ci fosse dietro quel muretto, ma voleva in ogni caso che quell’incubo finisse lì, quella notte. Pensò che se si fosse lanciato in volo forse avrebbe potuto afferrare o colpire quel piccione con le proprie mani.
Si preparò.
Doveva fare un paio di passi e poi tuffarsi contro il muro, come se dovesse tuffarsi in mare, per poi saltarlo aiutandosi con la spinta delle braccia. Era quasi sicuro che quell’uccello avrebbe aspettato l’ultimo secondo per fuggire, ma lui lo avrebbe seguito in volo e preso.

Marco partì, senza pensare più a nulla.
Si sforzò solo di essere il più rapido ed esplosivo possibile.
Si tuffò.
Mentre era in volo verso il muro, non staccò gli occhi un secondo dal piccione, il quale si accorse del suo arrivo e mise in movimento le ali per allontanarsi. Questa volta non ci riuscì, però, perché ricevette una manata che lo scaraventò sulla superficie metallica delle tegole. Rotolarono insieme per qualche metro, verso il basso, prima di fermarsi sul bordo del tetto, a un passo dal precipizio.
Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi, Marco si sollevò.
Alla luce della luna, alzò lentamente un braccio in alto, tenendo il piccione nella mano in modo talmente stretto da impedirgli qualsiasi suono o movimento.
Avrebbe voluto stritolarlo, ma cambiò idea.
Muovendosi in un equilibrio precario tra le tegole, cercò il punto in cui era caduta la sua spranga di ferro. La trovò, la raccolse e tornò su, al muretto di cemento.
Sorrideva.
Prese l’uccello con la sinistra e lo tenne fermo sulla superficie di cemento. Perfino nella penombra, riusciva a vederne bene gli occhi rossi, ed ebbe la netta percezione che lo stesse guardando.
Marco sussurrò una sola parola “Vaffanculo” e abbatté la sbarra sulla testa dell’uccello, una sola volta.
Dopodiché, si accucciò e rimase in quella posizione, con una strana espressione del volto.

“Lunedi” pensò “dovrò proprio andare a fare una visitina al Consiglio direttivo”.

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6 commenti »

  1. Avvincente e inquietante.
    Sarei curioso di sapere se il tuo Achab si è dovuto accontentare di un piccione poiché avevi già spiaggiato la balena in un precedente racconto.
    Complimenti.

  2. Considerazione molto carina, ma il Piccione è nato prima della Balena!
    In ogni caso, grazie per i complimenti.

  3. Ironico e surreale, molto grazioso, bravo

  4. Grazie, Eleonora. 🙂

  5. Antoniuccio, ma allora condividiamo moooolte cose! L’odio feroce per questi topastri volanti!! Ce n’è giustappunto uno che ha intenzione di nidificare nella mia corte.Non sia mai! Cerco con la scopa di cacciarlo, ma niente! Imperterrito torna con l’aghino di Pino nel becco ..maledetto ottuso piccione..anche tu, vero, pensi sia il simbolo dello schifoso ottuso testardo insidioso ‘uomo qualunque’ che dai , picchia e mena ce lo ficca sempre in tasca? conosco bene i vuoti, occhi rossi del topo volante.Il mondo ne è pieno..comunque che soddisfazione e’ quella sprangata! (Anche se ho capito benissimo la disperazione del tuo protagonista).Ho deciso : The winner is….Antonio Fiore ! ahaha

  6. Veramente originale, pensavo ad un divertente inizio da Mario Poppins e sono stata piacevolmente spiazzata. Per tutti i tuoi tre pezzi, bravo.

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