Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Eclissi al bar” di Daniela Stallo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Alvaro, sulla soglia del bar, guarda il corso. Da monte a valle, divide in due il paese, che la gente è già divisa, due fazioni, due partiti, e, in uno, due correnti.
Da una parte quelli che assolutamente no, non ci credono, neppure vogliono sentirne parlare, il maestro, il direttore delle poste, il prete. Dall’altra quelli che pensano, pur con qualche dubbio, a metà tra fede e speranza, che succederà. Tra loro, chi è contento e chi no, chi non vede l’ora e chi è terrorizzato, non a causa dei morti – da queste parti dei morti nessuno ha paura -, ma per questioni private. Alvaro, per dire, è uno che ci crede così e così, ma se vedesse suo nonno Olmo soltanto due minuti e qualche secondo, rivaluterebbe i doni della vita.
Di suo nonno ha desiderio, non di suo padre o sua madre, sottoterra anche loro, e degli odori dell’Olmo, l’effluvio, nelle pieghe tra giacca e panciotto, del vestito da contabile, il profumo di brillantina Linetti mischiato all’essenza dell’anisetta serale, quando spingeva il bicchiere verso il nipote, e Alvaro che invece l’aroma lo disgustava. Negli odori stava la certezza che le cose seguivano il verso giusto, quando l’Olmo era in circolazione.
Da che la Cesira si è inventata la storia del 15 febbraio, tutti hanno dunque creduto di doversi schierare. Cesira è pazza, Alvaro lo sa, l’intero paese lo sa: pazza la madre, pazzo il padre che con quella strega ci ha fatto una figlia e giustappunto è poi scomparso, non riuscendo a spiegarsi il proprio ardore; pazza la figlia. Cesira prevede il futuro, che alcune volte si avvera e altre no, anche se, a ben vedere, spesso accadono fatti simili, o parziali, che non hanno avuto ancora modo di compiersi e termineranno più in là.
Così Cesira si è inventata un’altra storia e dopo la riunione di ieri sera bisogna solo aspettare.
La nebbia partorisce gocce pesanti, non si alzerà, in questo budello di valle piatta.
La Giudecca pulisce il bancone, Alvaro, rientrato, sistema le sedie:
«Le accosto al muro, come in una sala da ballo».
In questo principio di anni sessanta l’eco delle feste anche qui è diventata musica vera. Si sa come farle, pure in uno sputo di paese.
Della disposizione non si è parlato. Solo che offriranno da bere e da mangiare, ma, poiché gli ospiti sono attesi intorno alle otto, e sono di età e estrazioni diverse – che cosa mangia un contadino di mattina, dopo che già ha lavorato nel campo, e il signore del palazzotto affacciato sul corso, una donna pallida che sembrava sarebbe svenuta al primo refolo, e lo studente partito per il fronte, quali abitudini ha preso, si sa, i giovani acchiappano tutto, senza midollo, e un neonato -, hanno deciso per una colazione rinforzata, dolci, salsicce secche, bicchieri di latte, caffè, vino, quello sì, e acquavite, che, in caso nebbia, l’antidoto migliore resta l’acquavite nello stomaco.
Spartiranno le spese. Alvaro mette i liquidi, qualche bottiglia non lo rovinerà. Le donne, i dolci, manca chi procuri le salsicce. Alla riunione si sono contati. Presenti ventuno, altrettanti non hanno partecipato, ma domattina ci saranno. E poi almeno un ospite a testa, se non due, una folla.
Magari poi arriva chi ha sentenziato essere, quelle, cose da barbari o da diavoli, don Ubaldo che tuona contro miscredenti e scomunicati, o chi non vuole passare per ingenuo.
Magari vengono gli ospiti degli assenti, non si può certo metterli alla porta, pure se hanno parenti gretti, la famiglia non te la scegli né la puoi confezionare, tirata a piacimento come una sfoglia di pasta. Ecco ci vorrebbe un brodo caldo. Qualche pezzo di carne e un brodo caldo, ancora meglio dell’acquavite.
Certo sono sfortunati: il 15 febbraio cade di mercoledì, non uno qualunque, il mercoledì delle ceneri.
Hanno discusso se non fosse il caso di ignorare l’astinenza dalla carne o se invece debbano accogliere gli ospiti con erbe e acqua, da villani pezzenti. Qualcuno ha urlato, la decisione era grave. Ai voti: sposteranno il precetto, senza tante storie.
Altri problemi sono stati sollevati: con nebbia o pioggia la predizione si avvererà comunque? E quando arriveranno gli ospiti? Nel momento in cui i cerchi di sole e luna combaceranno, oppure prima, perché, se organizzano quell’ambaradan, e fanno un rinfresco che sa di peccato, e saltano un giorno di lavoro, deve valerne la pena.
Si può dire che è stata la riunione degli interrogativi, molti rimasti senza soluzione, per ignoranza, non confessata, o inesperienza, che una cosa così grossa a Montronco non si è mai fatta, e in più non hanno né una fiera né la festa per il patrono, come invece nei paesi che si rispettano. E allora gli interrogativi sono finiti sull’impiantito del bar, o vaganti tra i cappotti che sanno di camino e le mensole di bicchieri, o sulla porta sprangata quando hanno concluso che a quell’ora non sarebbero arrivati altri e si poteva cominciare.
Smorzate le luci, hanno convenuto di tenere segreta la questione, o quantomeno acquattata nella penombra, meglio non fidarsi, certi tempi non sono poi lontani, benché la legge nuova dica che ormai ci si può riunire e parlare di qualunque cosa, pure di politica e di morti che tornano dai vivi, che di questo, stasera, si tratta. Cesira, blaterando ora con l’uno ora con l’altro, ha predetto che il 15 febbraio, quando luna e sole si congiungeranno, e l’universo sarà invertito, e ogni cosa successa al contrario, la notte dentro il giorno, il buio nella luce, il freddo livido al posto di un fasullo tepore, i morti torneranno.
Tutti?
E che ne so, chi c’è nelle vicinanze, chi trova la maniera e soprattutto la voglia di farsi un tale viaggio per stare manco tre minuti con chi è rimasto di sotto, soprattutto la voglia, che pochi vivi selo meritano. O forse i morti curiosi di vedere come stanno le cose. Insomma che ne so.
Ogni notte è notte, hanno obiettato, perché non tornano di notte.
Perché la notte qualunque è normale, la notte arriva quando si spegne il sole, se ne va e ritorna quando è il suo turno, precisa, senza sgarrare. La notte è notte. Con l’eclissi nulla sarà normale, notte quando è giorno e buio dentro i raggi.
Verranno nel tempo sfasato, con le cose stravolte. Luna e sole si uniranno e con loro questo e l’altro mondo, in una stretta corona di luce. Poi tornerà il normale e pure loro da dove sono venuti.
Chi te lo ha detto.
Il cervello, me lo dice.
Cesira ha riso forte, come burlandosi del creato, e se ne è andata per la sua strada, ondeggiando la gonna lunga. Allora anche chi ci aveva creduto ha inveito che sparisse, strega, pazza come la madre e come il padre, ma qualcuno ha rafforzato l’opinione, quella era una risata da inferno e di quanto veniva dall’inferno è bene tenere conto.
Non sapendo dove e come gli ospiti arriveranno, se apparsi dal nulla o con la corriera, una delegazione di parenti è andata a casa di Cesira. Faccia sapere agli ospiti che, visti i tempi ristretti, si mette a disposizione il bar per un incontro comune, del resto fa piacere a tutti salutare anche i morti degli altri. Cesira riferirà, potendo.
Alvaro sbircia nella via, da un oblò sul vetro appannato. La pettinatrice apre e già ci sono donne in fila. Una è scesa in pantofole e si lamenta che si sono bagnate. Una strada di paese è il corridoio di una casa collettiva, ci si può andare come si stesse nella propria. Brutta roba.

Di nebbia, un velo, stamattina, a coprire un sole come di primavera. Sono venuti tutti, dalle sei l’intero Montronco sta stipato nel bar. Gente in piedi, bambini che entreranno a scuola in ritardo. Isolda si è messa il cappotto nuovo, l’unica volta da Natale, dice che certe visite impongono garbo. La contessa, vedova da un anno, è scesa col soprabito di pelliccia verde che pare sfoggi nelle stazioni di villeggiatura alpine, chissà con quale coraggio incontrerà ora il marito.
Vittorina, il Mario, l’aspetta per vedere se compare, giusto quello: è meglio per lui apparire, meglio che sia morto, e non rimasto nelle terre africane a godersi cinquant’anni di caldo. Meglio per lui che non l’abbia lasciata a ingoiare nebbia e pianura puzzolente ai piedi di un monte spaccato come un dente marcio.
Ci sono quelli cui i genitori basterebbe percepirli come ombre e chi invece vuole toccarli.
Gigliola, che ospiti non ne attende, è venuta al bar per incontrare Rino, l’operaio del tabacchificio, che non è morto per niente.
Arnaldo ha portato al socio il vino della vendemmia passata, che lo assaggi, lui che diceva essere l’unico a capirci di vigna e che l’azienda sarebbe fallita, una volta andato, senta ora che vino.
Quelli che hanno bardato i figli in cappottini grigi perché conoscano i nonni.
Fruttuoso aspetta la moglie, la cassetta dell’oro e dei quattro soldi risparmiati proprio non l’ha trovata, nel posto che gli ha indicato sul letto di morte, e dire che ha scavato per bene tutto il campo.
Si beve già latte caldo e vino. I dolci stanno coperti.
In un angolo, chi spera non sia vero e che l’incontro si risolva in una mangiata fuori orario, quei pochi che dai morti devono farsi perdonare e confidano nel pareggio dei conti in altre sedi, non terrene magari, e più misericordiose. Chi la casa l’ha venduta al nemico di una vita, chi dal cimitero è stato alla larga, e pure la contessa, inquieta.
Un’ora dopo l’alba Alvaro si sporge sulla via, dà un’occhiata in giro. Nessun rumore, la luce è nata viola. Ammutoliti animali e cose, dentro un alito freddo. Deserti case, strade e negozi. Stanno tutti al bar, di entrambe le fazioni. Viene brusio e frignare e risatine, tra vino e acquavite.
Alvaro si ritira e gli pare di sorridere. La festa inaspettata gli è bastata, come diceva suo nonno, che bevi a fare da solo, fatti un amico. E l’attesa gli è bastata, per sentirsi gli odori addosso, il vestito grigio, la Linetti e l’anisetta. Basta, l’attesa basta sempre. Chiude la porta del bar Olmo.

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2 commenti »

  1. È un racconto assolutamente eccezionale. Mi piace lo stile, l’ambientazione, l’originalità del soggetto. Bravissima

  2. Emozioni potenti e scrittura cristallina. Bellissimo.

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