Premio Racconti nella Rete 2016 “Il soffiatore nel fischietto” di Giovanni Bruno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Se è atroce, si sa, fa male ed è urgente. Se è leggero, anche questo si sa, non preoccupa più di quel tanto e può essere risolto in un secondo momento. Il problema è se non sai se il dubbio è atroce o leggero. Che poi, a ben vedere, un dubbio atroce fa male non perché è doloroso in sé ma perché pensi alle possibili conseguenze di ciascuna ipotesi che entra in linea di conto. Il dubbio ne implica almeno due, una con esito positivo e una risultante in un disastro. Il dubbio consiste proprio in questo: il mio destino è segnato dalla prima o dalla seconda ipotesi? Tra le due ipotesi estreme se ne situano altre, di numero variabile, lungo la scala della gravità delle ripercussioni immaginabili. Ma queste non mi interessano. Sono fissato sulle ipotesi estreme, la prima anelata e la seconda temuta.
Questi pensieri mi ronzavano per la testa mentre ero seduto in macchina per andare in ufficio. Né ci sarebbe stato posto per altro, nella mia testa. Il mio dubbio era chiaramente atroce. Me lo diceva e ribadiva, se ce ne fosse stato ancora bisogno, anche il mio stomaco. Più che lievi farfalle, al suo interno sembrava che svolazzassero sciami di calabroni muniti di acuti pungiglioni che infierivano a casaccio. Le mie budella, a quest’ora, dovevano assomigliare a un colabrodo. Ero riuscito a cacciare giù appena un po’ di caffè. D’altro, neanche parlarne. Niente di solido sarebbe potuto transitare nelle mie povere viscere irritate. Ma come può un pensiero, entità incorporea che nasce, vive e muore nel meandrico spazio del cervello, agire in modo così concreto e sensibile su una parte del corpo? Lo stomaco mi faceva male davvero. Il dubbio era proprio atroce, altroché.
Ricapitolai, per l’ennesima volta. Prima di andare a casa, la sera prima, avevo scritto al direttore la mail in cui denunciavo l’illecito finanziario in azienda. Non avevo fatto nomi, non li sapevo. Revisionando la contabilità di fine esercizio mi ero imbattuto in una irregolarità grande come una casa. E avevo deciso di segnalarla. Nell’attimo stesso in cui premevo il tasto d’invio c’era stata una breve interruzione di corrente. La luce si era spenta e riaccesa e lo schermo si era oscurato per un attimo. I programmi si erano chiusi, compreso quello della posta elettronica. L’avevo riavviato e il messaggio, con mio sommo stupore, non si trovava fra le mail in uscita. Né fra quelle in attesa di essere spedite. Né fra quelle del cestino. Non era da nessuna parte. Ma questo cosa significava? Era partito? E se non era partito, che fine aveva fatto? Il problema era che cercando quella mail nelle diverse cartelle mi ero imbattuto in un messaggio ricevuto il pomeriggio ma finito nella posta indesiderata (mi fa specie sapere che a decidere dei miei desideri sia il computer). Quel messaggio mi aveva fatto capire l’identità dell’autore dell’illecito. Riportandomi alla mente alcuni eventi occorsi nelle ultime settimane, non dovetti fare grandi sforzi per capire, bastava fare due più due. Quattro dita alzate per dare un volto al colpevole. E ora era anche chiaro, anzi chiarissimo, che se quella mail era partita, e se aveva raggiunto il suo destinatario, quel destinatario, il mio destino era segnato dalla seconda ipotesi, quella nefasta.
Insomma, il mio dubbio era se il direttore avesse ricevuto o no il mio messaggio. Se l’aveva ricevuto, sicuramente avrebbe messo in atto qualsiasi cosa per evitare che il contenuto della mail si diffondesse. Se non l’aveva ricevuto, invece, avrei dovuto riflettere bene su cosa fare. Denunciare il colpevole, facendone nome e cognome? Rivolgermi a qualcuno di fiducia? Ma a chi? In azienda erano tutti succubi del direttore. Nessuno si sarebbe messo contro di lui. Allora, cosa fare? E questo era già il secondo dubbio, direttamente subordinato al primo. Due dubbi per una sola persona, in un solo giorno. E quella persona ero io.
Parcheggiai nel garage interno e con passo spedito, facendo gli scalini a due a due, raggiunsi il mio ufficio. Accesi il computer, digitai la password e aspettai. E aspettai. E aspettai. Quel dannato di un sistema operativo sembrava farlo apposta. Non ci aveva mai messo così tanto ad aprirsi. Apparve una finestra che mi chiedeva di attendere che il sistema installasse degli aggiornamenti. Mancavano sette minuti alla fine dell’operazione. Sette minuti! Fissavo come ipnotizzato quella specie di rosario rotante in senso orario, che nel semicerchio in discesa sulla destra accelerava e in quello in salita sulla sinistra rallentava. Un rosario snocciolato in modo molto elegante, in fondo. Non so quanti santi invocai durante quei sette minuti. Quando finalmente gli aggiornamenti erano installati e potei prendere possesso del computer, lanciai il programma di posta elettronica. Solito rosario, altri santi interpellati. Aspettai un minuto buono. Anche i singoli programmi erano stati aggiornati e dovevano essere installati. Nel momento in cui il programma si avviò, si aprì la porta dell’ufficio ed entrò lui. Il direttore. Mi salutò con un ampio sorriso stampato sul volto e mi disse di raggiungerlo nel suo ufficio mezz’ora dopo; aveva una sorpresa per me. Mai visto così solare. Il dubbio, il terzo, mi assalì come un felino selvaggio che da dietro ti pianta gli artigli nelle spalle e non ti molla più. Se aveva ricevuto il messaggio, la sorpresa non poteva che essere un eufemismo. Se non l’aveva ricevuto, la sorpresa poteva essere reale. Erano tre, ora, i dubbi che mi attanagliavano.
Passai la mezz’ora più lunga della mia vita. E la più movimentata. Suonò il telefono. Era Rossetti, del servizio informatico. Voleva sapere se avevo perso dei dati per l’interruzione di corrente della sera prima. Mi bloccai. Che cosa dovevo rispondergli? Di sì, che non trovavo un messaggio di posta elettronica? Di no, che non mi mancava niente? Gli risposi che non avevo notato perdite ma che gli avrei fatto sapere, se del caso. Strano, però, che Rossetti mi telefonasse per chiedermi una cosa del genere. Normalmente mandavano una mail a tutti chiedendo di farsi vivi in caso di bisogno. Mi venne un dubbio: Rossetti aveva contattato anche gli altri colleghi? Mi informai dai miei vicini di ufficio, Pancaldi, Grossi e Mazzoni. Il mio dubbio era giustificato: Rossetti non li aveva interpellati. Guardai l’orologio. Mancavano dieci minuti all’appuntamento. Era possibile che il direttore avesse incaricato Rossetti di mettermi alla prova? Ciò avrebbe significato che il direttore aveva ricevuto il messaggio. Ma forse Rossetti aveva fatto una telefonata a caso, scegliendo me. Ma perché proprio me? Magari perché ero il primo sull’elenco alfabetico dei collaboratori. Ma certo, doveva essere così. Quante volte il mio cognome mi era stato fatale a scuola, nelle interrogazioni. Toccava sempre a me. Mai una volta che cominciassero dal basso. Da Zamboni, alle elementari. O da Valsangiacomo, alle medie. O dalla Zanini, al liceo. No, sempre da Alberti. Eppure al liceo sembrava che il mio destino dovesse cambiare, ma Accardi fu bocciato subito. Insomma, Rossetti si era rivolto a me per caso. Almeno questo dubbio l’avevo fugato. Alzai il polsino per vedere l’orologio. Mancavano tre minuti.
Andai in bagno e mi piazzai davanti al lavandino. Alzai la levetta, la girai tutta a sinistra e tenni le mani sotto l’acqua corrente. Mentre aspettavo che arrivasse l’acqua calda, mi guardai allo specchio, dritto negli occhi. Stavo per affrontare un momento cruciale della mia vita professionale. E forse anche della mia vita in generale. E stavo per farlo con una faccia da cadavere. Non proprio la premessa ideale.
Accidenti! Prima non arriva mai, poi ti ustiona in un attimo. Girai la leva a destra e aggiunsi un po’ d’acqua fredda. Piano. Piano. No, ora è ghiacciata! Insomma, è così tutte le volte. Ma chi diavolo ha inventato questi miscelatori? Che non funzionano mai. Come rimpiangevo quelle due belle manopole. Una rossa e una blu. Le giravi contemporaneamente e appena sentivi che l’acqua calda o quella fredda diventava troppo forte chiudevi o aprivi un po’ una delle due. E così trovavi subito l’equilibrio. Senza aspettare. E senza scottarti ogni volta. Con questi dannati miscelatori si sono proprio inventati l’acqua calda.
Mi resi conto che stavo divagando. Non era il caso. Ora mancava un minuto all’appuntamento. M’incamminai lungo il corridoio. L’ufficio del direttore era in fondo. La segretaria, dal suo ufficio accanto a quello del direttore, mi fece segno di entrare. Mi guardava in modo strano. Sapeva qualcosa? Sapeva del messaggio? Allora il direttore l’aveva ricevuto. O conosceva la sorpresa? Ma perché quello sguardo strano? Magari aveva già battuto la lettera di licenziamento. O la lettera di congratulazioni. Ma congratulazioni per cosa? No, la prima ipotesi era più plausibile. Sentii la camicia appiccicarsi alla schiena bagnata dal sudore freddo. Bussai.
Il direttore, sempre con il suo sorriso, mi fece accomodare sulla sedia di fronte a lui.
– Allora, Alberti. Mi tolga subito un dubbio. Lei è un acchiappatore nella segale o un soffiatore nel fischietto?
Rimasi interdetto.
– Scusi, ma credo di non aver capito la domanda.
– Vediamo. Lei farebbe una cosa assurda come correre per un campo di segale per acchiappare una pallina da baseball?
– No, non credo.
– Bene. E quindi non farebbe nemmeno una cosa altrettanto assurda come esaminare conti aziendali e soffiare in un fischietto.
Capii tutto.
– No, direttore, non lo farei.
– Bene, Alberti. E ora la sorpresa di cui le parlavo. Lei è appena stato promosso a capocontabile. Congratulazioni.
Mentre ritornavo nel mio ufficio incrociai Rossetti, che mi fece l’occhiolino. Il quarto dubbio, affiorato con prepotenza, lo liquidai subito. Era chiaro che se non avessi capito la domanda del direttore, ora mi sarei trovato sulla strada. Magari con un fischietto in bocca a dirigere il traffico. O a far rispettare le regole di una partita di baseball.
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Originale, realistica e improbabile allo stesso tempo. Mi sono piaicuti molto i riferimenti alle corrispondenti espressioni inglesi (il grande Catcher in the Rye e il whistleblowing che ha dato il bel titolo che fa contrasto in Italiano).
Grazie Marzia, il tuo commento mi ha fatto molto piacere.