Premio Racconti nella Rete 2016 “Le orme di Teresa” di Claudia Marsulli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016(parabola moderna)
La strada si disegnava da sola quella mattina. Dopo tanto scavare di mani e risalire a palmi vuoti, i passi di Teresa anticipavano i suoi piedi e quelli si muovevano come dotati di vita propria: il sinistro si alzava sul marciapiede davanti al destro, il destro fuggiva ancora il sinistro, entrambi levitavano e ricadevano ammorbidendo l’asfalto. Germogliavano ombre sui metri consumati. Teresa pensò che quel loro equilibratissimo lavorio dovesse somigliare a un mettere radici: per un momento si sentì percorsa di linfa e uguale al cemento che calpestava. Tutti i pini di Viale dell’Incarnazione erano in lei, lei era in ogni legno. Le anatre guadavano il fiume a passi lenti. Affondavano la testa e riemergevano spruzzando smeraldi. Si avvicinarono a guardarla senza interrompere le loro faccende: pensarono che quel suo nuotare sul cemento somigliasse al movimento ondulatorio degli alberi.
Gli occhi chiusi di Giovanni affiorarono dietro a quelli di Teresa come un nodo d’anemoni risale in superficie. Giovanni incosciente, Giovanni bello come un bambino. Giovanni ancora bello e incosciente per altre due ore: poi avrebbe aperto gli occhi e allungato la mano sul cuscino. Un piccolo mulinello increspò la fronte liscia di Teresa. La fila scheletrica dei pini continuava a segnalarle la via.
I. Prudenza
In cui comincia il cammino e i personaggi conoscono la prima reliquia
Teresa sapeva d’essere irreversibilmente cambiata da quel giorno in cui aveva accettato la proposta di Giovanni. Dopo anni di misurati avvicinamenti e i mesi di un cauto tormento, silenzioso e autoinflitto, nella pacatezza di Giovanni si era aperta una breccia.
Era un giorno caldo di sole impietoso. In Via della Croce un’aria pesante inumidiva le lenzuola e inchiodava le ombre al pavimento. Il flebile alito di vento che filtrava dalla tapparella abbassata soppesava la distanza tra Teresa e Giovanni. Il tempo sembrava incollato alle pareti, insieme alle fotografie d’una Toledo ingiallita e traballante. Era come guardare attraverso un cristallo le statue di cenere di Pompei: tutto minacciava di polverizzarsi al primo respiro umano. Giovanni irruppe lanciando una sfilza di parole dritta al petto di Teresa. Lei non alzò gli occhi dal punto che fissava sul muro. Avvertiva la voce di Giovanni come se provenisse da un luogo lontanissimo: qualcosa dentro di lei le imponeva di voltarsi e guardarlo, ma non riusciva a muovere un dito. Era come se avesse dimenticato il funzionamento del suo corpo: le sembrava impossibile ricordare in che modo e quali muscoli aveva contratto durante gli anni precedenti. Le era impensabile perfino credere d’aver compiuto quel gesto tanto laborioso. Adesso combatteva; e non sapeva bene se con o contro quella forza che la trascinava fuori di sé, mentre strisciava dentro sé stessa ripiegandosi sulle ossa fino a incontrarsi nel suo baricentro. I muscoli del collo scattarono nella frazione di secondo in cui ne colse l’intimo ordine e contemporaneamente occhi, orecchie, labbra si allungarono verso la voce di Giovanni, adesso violentemente nitida, che le rivolgeva una domanda. Ebbe appena la forza di rispondere con un’altra domanda: «Scusami, che hai detto? Comandare…di me?». Giovanni si pentì della sua frase idiota nel momento stesso in cui vide Teresa voltarsi attonita e allora la percepì tanto lontana, come se la sua voce provenisse da un pozzo profondissimo. Ripescò un briciolo di quel coraggio (che adesso riqualificava come goffaggine) per ripetere parole tra cui ora frapponeva una lastra di distacco: «Dicevo convivere…Se vuoi convivere con me». Smentendo i timori di Giovanni, Teresa restò serena come un gesso bianco. Giovanni avvertì un leggero cambiamento nell’aria, ma non ne fu turbato. Una delle fotografie di Toledo stramazzò al suolo.
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II. Temperanza
In cui i personaggi conoscono la seconda reliquia e reagiscono diversamente
L’andamento adagiato dei residenti di Via della Croce fu scosso dalle vibrazioni di un nuovo scricchiolio di scale, che suonavano in modo diverso, e poi dai gong periodici di uno schiudersi e sigillarsi della vecchia serratura del portone. Giovanni viveva quella nuova sinfonia con animo ventoso, ma docile. Riorganizzava le proprie architetture colmandole di spazi vuoti e terreni dissodati, pronti ad essere ceduti. Bonificò le zone paludose, dispiegò un filo di recinti attorno ai precipizi: solchi d’aratro leggero percorsero tutti i tappeti e lasciò a maggese il copriletto. Ansioso, aspettava che un nuovo plenilunio seminasse Teresa.
Intanto la guardava muoversi con infinito incanto; sembrava che i suoi piedi di ballerina non toccassero mai terraferma, ma piuttosto che nuotasse sulla superficie azzurrina delle maioliche. E i soprammobili si spostavano come attratti dalla gravità del suo passaggio. Giovanni non osava interferire con quel cosmo segretamente ordinato. Poggiava lo sguardo sui rettangoli incolti che adesso cominciavano a venarsi di rigagnoli autunnali.
Ma con il tempo sul viso di Teresa fioriva un prato di sonno leggero, mentre collane di licheni le ornavano i seni. Era come se l’appartamento si fosse scoperchiato e un cielo di nuvole basse entrasse a invaderlo; il tempo rallentato delle muffe scandiva la vita di oggetti e inquilini.
Il letto a maggese sospirava, preda delle erbe infestanti che punzecchiavano Giovanni impedendogli di dormire. La culla verde dei suoi sogni somigliava più una trappola di spilli: piante affilate minacciavano di chiudersi in morse attorno ai loro corpi, arbusti irsuti intricavano la trama delle coperte e incrociavano fitte reti di rovi. Cosa ancora peggiore, qualsiasi tentativo di intimità appariva ora a Giovanni come una lotta contro gli elementi. Ma Teresa non ne sembrava molestata. Al contrario, si distendeva imperturbabile e riaffiorava dal suo letargo solo affondando le carni negli aghi. Avvolta nel suo strato di nebbia si muoveva come una sonnambula in cerca di nuove asprezze: un tronco tagliato sostituiva il cuscino di piume d’oca. Affilava con gli stenti ogni morbidezza.
Le cose futili la travolgevano e l’avvicendamento dei giorni la affondava nel disgusto di qualsiasi vanità; da quando il suo cuore aveva cominciato, pochi giorni prima, a ribellarlesi in petto. Si era fatto grande e palpitante: Teresa lo sentiva espandersi, contrarsi su sé stesso fino a diventare un punto per poi dilatarsi ancora. Temeva che le sarebbe esploso, le dava il capogiro. Quel cuore rosso e luminoso soffriva e chiedeva insistentemente ferro, acciaio: chiedeva solo povertà. Mentre districava il gomitolo dei rovi un buio vaporoso discese sui suoi occhi, le tempie presero a martellare con suono di campana. Si sentì sprofondare mentre soppesava la vertigine tra lei e il cielo, e da lì un brillio fugace aprì un flebile squarcio nell’oscurità: vide da lontanissimo qualcosa di simile a un ferro da lana con la punta fiammeggiante, che emanava barlumi dorati. Non poteva toccarlo che con gli occhi, ma avvertì che ribolliva. Lo vide vibrare come un diapason nella sua direzione, inclinarsi sull’asse d’una corda, esplodere e poi vaporizzarsi. Quando le forme intorno a lei ricominciarono ad organizzarsi in geometrie di mobili e quel fumo plumbeo evaporò in colori sentì un gemito nel petto. Si aprì la camicia in cerca del suo cuore. Un grumo di sangue rappreso copriva un piccolo segno dalla forma romboidale, che avrebbe potuto ricordare vagamente l’incisione di una freccia.
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III. Fortezza
In cui arrivano prove di dolore e d’infelicità: terza reliquia
Da qualche mese ormai nell’appartamento in Via della Croce aveva preso a entrare uno spiffero di vento freddo. Allora Giovanni, prontamente, sigillava le finestre e barricava l’uscio. Ma di fronte alla persistenza di quella lama che tagliava sempre in due emisferi separati lo spazio d’aria tra i giovani inquilini, Giovanni si vide costretto ad anticipare di poche settimane l’accensione del riscaldamento elettrico. Finalmente poterono sfilarsi i cappotti e ricominciare a muoversi agevolmente per casa come due persone qualsiasi in un qualsiasi vecchio appartamento.
A Giovanni piaceva cucinare: da qualche parte, non ricordava bene dove, aveva imparato a preparare empanadillas, orecchie di maiale e saporiti filetti di lonza. Approfittava del freddo per accompagnare quelle cene fatte con meccanico amore con un vino rosso che sembrava fermentato da uve lontane. Teresa gli faceva compagnia: provava qualcosa, ma non soddisfaceva l’insistenza di Giovanni, che le offriva generose porzioni. In effetti non ne mangiava che qualche boccone, e pareva saziarsi con una rapidezza che Giovanni giudicava impossibile.
Intanto il problema degli spifferi tornava a corrucciare i due giovani inquilini; un nuova ondata di freddo, questa volta più diffuso, si propagava da un punto incerto e di volta in volta differente: ora da una finestra che sembrava chiusa (ed effettivamente lo era), poi da un interstizio tra il portone e i cardini oppure da un vetro incrinato al di là delle tende. Fatto sta che da dove entrasse il freddo era e restava un mistero difficile da sbrogliare; Giovanni e Teresa dovettero abbandonare le armi.
Giovanni digrignava i denti e si fregava le mani, guardava il corpo della compagna scuotersi di periodici tremolii e ripiegarsi su sé stesso in cerca di pelle calda. Una fuliggine lanosa aveva cominciato a ricoprire i mobili, sul pavimento si addensava una condensa della consistenza del vetro e di tanto in tanto cadevano dal soffitto minuscoli cristalli d’intonaco che si annidavano tra i capelli come fiocchi di neve. Il vortice d’aria che presidiava il corridoio spargeva foglie secche per tutta la casa. Una bora tempestosa tagliava l’aria fra gli inquilini in due emisferi separati.
Dal suo emisfero mite Giovanni cominciò a mettere in tavola zuppe ancora ribollenti, ma Teresa, come prima, non sembrava trovare alimento nel cibo: nemmeno se trafitta dal gelo interiore. Col tempo l’inappetenza aveva lasciato il posto alla fame: una fame persistente che si concentrava non proprio all’altezza dello stomaco, ma un poco più sopra. Come un buco nero, Teresa sentiva che la presa di una mano la strappava dentro, la rimescolava e la vuotava. Crescevano tra le sue costole fiori di neve e stalattiti. Ma ogni volta che Giovanni cucinava un odore di fame e di disperazione la spingeva a un nuovo tentativo.
Seduta di fronte a Giovanni fissava la superficie frastagliata di un cocido col suo brodo. Guardava l’orlo argenteo del cucchiaio, la ceramica intarsiata d’arabeschi e poi di nuovo l’ocra dei legumi interrotto solo dallo spuntare, qua e là, di patatine gialle e cespuglietti di carne. Emanava l’odore caldo di un fuoco acceso. Teresa prese il cucchiaio, che mandò un brillio istantaneo sulla ceramica, lo immerse e lo portò alle labbra come carico d’oro. Una stretta spinosa le attanagliò lo stomaco e serrò i denti. Qualcosa di tiepido le inumidì il viso. «Teresa, piangi?» Poco sopra la carrucola del gomito immobile stretto intorno al cucchiaio, gli occhi di Giovanni di schiudevano in uno sguardo attonito che pareva elemosinare spiegazioni razionali. «Anni d’abbondanza, o di fame e carestia» fu tutto quello che la voce di Teresa (ma non proprio la sua) riuscì ad articolare ingoiando neve e singhiozzi.
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IV. Giustizia
In cui Teresa deve decidere: conosce l’ultima reliquia
Nell’ultimo periodo lo stato di Giovanni preoccupava Teresa. Sembrava immensamente triste. Le sue sopracciglia si erano ricoperte di ragnatele e un vello di muffa gli inazzurrava il mento. Non scacciava più i ragni che lo percorrevano in larghe autostrade, anzi sembrava non accorgersene nemmeno. Non mangiava, non usciva e non parlava. Sembrava un bambino vecchissimo: era diventato piccolo come il levriero dei vicini, da cui scappava in preda al terrore. Aveva terrore di tutto. Teresa lo prendeva in braccio e impilava due o tre cuscini sotto di lui, perché non si rompesse. Gli tagliava i capelli quando, nel giro di un mese, diventavano talmente lunghi da superarlo in altezza: aveva paura che potesse calpestarli e cadere e, di conseguenza, rompersi. Lo lavava ogni notte, poi lo prendeva per mano per portarlo a dormire. Lui la baciava sulla guancia e scompariva nel mare delle coperte. Teresa ormai non dormiva che seduta in salotto, per paura che nel sonno il suo peso lo schiacciasse (e rompesse): appoggiava il gomito alla parete e lasciava andare la testa sul gomito, finché un’ovatta scura non avvolgeva i suoni. Sprofondava come sottoterra.
In quelle ore di dormiveglia era solita sognare una scala bianca, larga e luminosa, in cima alla quale brillava una luce diffusa che irraggiava in tutte le direzioni. Strizzava gli occhi perché le sembrava sempre d’indovinare qualcosa dietro i piccoli pulviscoli luminosi: allora cercava di scavarsi un sentiero con le mani, ma tra i palmi stringeva solo aria. Poi piano piano emergeva una geometria umana, stranamente familiare: un bambino, di cui poteva vedere solo le labbra, le narici o le ciglia. Era come se non potesse guardarlo direttamente, e mai nell’insieme, ma sempre e solo per parti come un cubista che interpreti ritagli per arrivare a totalità. Al tempo stesso aveva timore di guardarlo perché sentiva che afferrarlo nella sua interezza avrebbe significato appropriarsene: qualcosa che odorava d’istinto le imponeva remissione. Allora cercava conforto in un’ombra, per poter immaginare un’armonia di braccia e clavicole, ma non vedeva che la sua, moltiplicata come in un caleidoscopio. Poi il silenzio sfumava improvvisamente. Una voce che aveva la consistenza di una lancia, o forse d’una freccia, domandava: «Come ti chiami?». «Teresa» rispondeva la sua voce da lontano. In quello stesso luogo imprecisato da dove affioravano le sue parole ascoltava germinare semi che, ne era sicura, qualcuno aveva piantato per lei. A questo punto l’aria bianca si appesantiva di buio e le dita, appendici che aveva dimenticato di avere, le ricordavano con un formicolio d’essere in gabbia dentro un corpo; riemergevano dal grigiore della veglia, secondo l’ordine consueto, il gomito, la parete, il tavolo del salotto, la sedia sotto di lei. Un vago schiamazzare d’anatre annunciava il termine della notte.
Una volta il sogno fu interrotto da una violenta sensazione fisica che la ritrascinava di colpo tra i vivi: Teresa si sentì le guance infervorate, mentre il vestito le si incollava ai seni come impastato di mille piccolissime gocce. Una cascata le percosse il basso ventre. Corse in bagno decisa a fermare un’emorragia, ma una volta lì la preoccupazione lasciò il posto alla sorpresa: i suoi occhi si aprirono a indagare il vestito pulito, le mutande immacolate. Non c’era alcuna traccia visibile di quella lotta sanguinosa. Ancora rantolava dall’affanno. I suoi polmoni cercarono ossigeno nel moto delle mani che scorrevano sul meccanismo della finestra chiusa. Respirarono, e respirò tutta la sua pelle, stagliata contro il rettangolo della finestra. Un brezza fresca accompagnava il suo sguardo mentre si posava sui muri degli edifici, i viali giù in basso, i pini in fila indiana. Un quadrato di luce accesa ancorò i suoi occhi alla parete del palazzo di fronte. Si soffermò su quella forma. Pensò di cambiarla a suo piacimento perché le sembrò malleabile come un vaso d’argilla al tornio. Le sembrò, ne era quasi sicura, che qualcuno avesse acceso quella luce lì per lei. Il quadrato diventò un rombo, poi un cerchio, poi il cerchio si mise a vorticare in una spirale cremisi e prese ad ingoiare parole. «come ti chiami» dicevano le parole, e Teresa sempre rispondeva «Teresa».
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Epilogo
Inizio
Quella mattina Teresa si svegliò prima del solito. Giovanni, piccolissimo, ancora dormiva. Avrebbe dormito per almeno altre due ore. Il giorno cominciava a seminare ombre dietro gli oggetti e il cielo faceva capolino tra gli squarci del soffitto. Una nebbiolina leggera avvolgeva la vita, fuori e dentro l’appartamento in Via della Croce. Teresa si fermò a guardare i cespugli lungo il viale. Adesso, tra le gerbere, fioriva il suo nome. Non ne fu spaventata. Lasciò le chiavi sul tavolo, che le assorbì nel sottobosco, e si chiuse la porta alle spalle. Mentre ascoltava la serratura scattare, un’aria calda e confortevole che improvvisamente veniva da dentro le confermò d’aver preso la decisione giusta.
Teresa percorreva il Viale dell’Incarnazione e contava i suoi passi dritti davanti ai piedi. Non avrebbe saputo spiegare a Giovanni, né a nessun altro, come fosse cambiata e perché. Sapeva solo che non l’aveva voluto: che, anzi, in principio l’aveva combattuto, ma era stato completamente inutile. La verità era scandalosa: era venuto da sé e lei non aveva potuto farci niente.
Si sentiva schiacciata da un amore immenso e improvviso, che non riusciva a contenere. Era un vivere senza vivere, un morire ogni giorno di non essere morta. Privarsi dei propri contorni per abbracciare tutto, dimenticarsi della propria gabbia fino a levitare, leggerissima, incorporea come un granello di polvere: questo era il suo più grande desiderio. Amore purissimo il suo nutrimento. Arresa, caduta tra le braccia d’un amore troppo eterno per trascinarsi addosso il peso d’una carne, Teresa riposava finalmente trafitta. Sentiva d’essere solo all’inizio di un sentiero aspro. Pensava a sé stessa e si pensava in cima a un albero, sorretta d’aghi come una foglia smarrita e poi raccolta. Fra rami di spine l’aveva condotta la sua anima, bella come un quadro medievale, e tra parole di roccia, custodita da serpi e rovi, Teresa l’aveva trovata nelle sue viscere ardenti. Mai più l’avrebbe persa: la sua anima era casa e dimora. La sua anima l’aspettava alla fine del cammino. Adesso niente più la turbava. Niente la spaventava.
Passavano le anatre e i pini, flettendo le chiome gemmate. Tutto, intorno a lei, passava.
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Lo straordinario “Cammino di Perfezione” di Santa Teresa d’Avila, lungo i corridoi del “Castello Interiore”. A questo ho pensato!
Barbara, ti ringrazio per il tuo commento. C’è lei dietro e dentro ogni parola: ho cercato di rendere un umile omaggio a Santa Teresa d’Avila, alle sue opere e alle sue poesie perché mi hanno profondamente catturata. E questo è il frutto di un affetto disperato…se è buono o no, non lo so!
E’ buonissimo! In bocca al lupo!
Veramente particolare, un linguaggio visionario e ricco. Brava!