Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “Un mondo che fra poco esplode” di Tonia Curcio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Lo stormo di storni che la sovrastava nel cielo continuava a terrorizzarla con le sue evoluzioni prive di coerenza e logica. Quell’essere fatto di micro particelle animate fluttuava nell’aria assumendo di volta in volta forme che recavano un senso di minaccia. La stavano cercando, lei lo avvertiva nello stomaco, e nel tentativo di stanarla spiegavano tutte le forze e un numero infinito di piume. Quando una virata improvvisa sembrò puntare in direzione della panchina su cui era accovacciata, Mina lanciò un urlo strozzato e si coprì la testa arruffata con gli avambracci.  Maledisse l’agente di polizia ferroviaria che l’aveva cacciata dalla sala d’attesa. Lì si sentiva al sicuro, e poi c’era la musica d’orchestra che usciva sibilando da un punto indeterminato del soffitto.

Si sforzava di modulare la quarta sinfonia di Mahler trasmessa dall’altoparlante, poco importava se gli altri percepissero solo il fastidioso mugolio di una vecchia.

Le veniva facile, ora, sostenere lo sguardo degli altri. L’incoscienza l’aveva resa come un animale addomesticato dagli occhi vacui, nei quali riconosci un guizzo di curiosità solo se fiuta il cibo che hai sul palmo della mano. Gli sguardi altrui e il carico di pena che contenevano non la mettevano a disagio, ma solo perché negli anni aveva perso i normali parametri della percezione umorale. Non sentiva più imbarazzo, odio, empatia. Aveva disimparato l’amore.

Solo un senso di persecuzione profondo e incomprensibile le ricordava cosa significasse avere paura.

 

 …pfsssz…voi, fanciulli d’Italia sentirete la soddisfazione di servire questa terra fulgida, di obbedire all’alto e sublime comando del Re e del Duce…pfsssz…

 

      “Forza ragazzi, alzate tutti il braccio destro come impone la nostra tradizione. Su, metteteci vigore, la mollezza non è ammessa, specie nell’istante in cui salutiamo e onoriamo il nostro amato Duce, perché lui rappresenta…Marozzi?”

“Lustro e speranza del popolo italiano, signora maestra!”

“Bene, Marozzi, e sai dirmi per quale motivo dobbiamo andare così fieri del nostro retaggio culturale?”

“Perché in noi rivive la grandezza dell’Impero Romano e dei suoi condottieri, uomini che si sono distinti per la forza fisica e il valore morale.” Disse impettito Marozzi, sentendosi, un istante dopo, collo e guancia sinistra sferzate da una moltitudine di palline inzuppate di saliva.

“Hai detto bene, Marozzi, ognuno di voi, cari ragazzi, è legittimo erede della nobiltà di questi uomini che hanno cambiato il corso della storia. In te, Marozzi, scorre il sangue di Lucio Artorio Casto, in te, Guglielmi, batte il cuore di Tito Quinzio Flaminino, i tratti somatici di Publio Cornelio Scipione sono ravvisabili nella sporgenza dei tuoi zigomi, Garrulo.

“Non dimenticatelo mai, voi siete l’eredità della gloria di Roma. Voi, che avete sane radici italiche.” Il rumore dei tacchi della maestra che avanzava lungo le corsie tra i banchi pareva cadenzare un discorso letto, ripetuto tante volte e imparato a memoria.

“Questo mi aiuta a spiegarvi, ma soprattutto aiuta voi a capire perché qualche settimana fa avete dovuto salutare alcuni dei vostri compagni, giustamente espulsi da questo istituto per essere una  minaccia alla purezza e alla conservazione della razza. Lo studio, purtroppo, non serve a colmare lacune che hanno a che fare col DNA. Lo studio deve essere un privilegio solo vostro perché solo a voi appartiene il futuro.

E ora ascoltiamo la radio, siate partecipi del messaggio che il Duce vorrà comunicare ai futuri servitori della patria.”

 

Migliaia di laringi trillavano l’esasperazione che si cela dietro ogni migrazione. Le geometrie fluide che quell’incessante sbattere d’ali provocava in cielo parevano prendersi gioco di lei, ora minacciando di colarle addosso, ora piegando di colpo nella direzione opposta.

Doveva andare via da lì, ma senza allontanarsi troppo dalla stazione. In fondo quello era il posto in cui si sentiva più al sicuro, soprattutto se c’era qualcuno nelle immediate vicinanze in attesa del suo treno, che seppure le rivolgeva uno sguardo di affettata commiserazione, non era certo lì per tutelarla. Tornò di soppiatto nella sala d’attesa, dopo aver visto allontanarsi il tizio che l’aveva cacciata mentre riceveva altre segnalazioni da una ricetrasmittente. Dentro, il termostato registrava almeno dieci gradi in più rispetto alla reale temperatura che all’esterno l’aveva più volte costretta a frizionarsi le braccia mettendolo ancora più in evidenza: il brutto segno che aveva sull’avambraccio, quello che sua madre, una volta, si ostinava a giustificare come un marchio avuto dalla nascita per volere del Signore. Uno stigma a forma di croce, perché gli altri vedessero in lei un miracolo.

Dalla sacca di nylon tirò fuori l’ultimo pezzo di focaccia che aveva recuperato dal cassonetto, ormai ridotta a un foglio di cartone nella consistenza e nel sapore. Prima di addentarlo, lo aveva girato e rigirato davanti agli occhi come a fotografarne una fragranza che percepiva solo lei, con la stessa felicità che mostrerebbe un bambino di fronte a una colata di cioccolato fuso.

Prese posto accanto a un omino in giacca e gilet, che Mina ignorava essere di originale harris tweed. Divorò il pasto di una giornata in tre bocconi pieni di muta soddisfazione, senza essere distratta dall’uomo piccolo alla sua destra, che nel gesto istintivo di cambiare sedia, mostrava senza troppa sottigliezza il desiderio comune di aggirare la realtà, specie quando è troppo sporca, maleodorante e rischia di macchiare il gilet.

 

…pfsssz…coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà…pfsssz…       

 

Non poteva più cambiare strada ora che era  entrata nel loro campo visivo. Non poté fare a meno di rimproverarsi per questa distrazione, perché ne valeva della sua dignità se le andava bene, della sua vita se le andava male. Provò a fare finta di niente, stando attentissima a non incrociare i loro occhi e aumentando il passo oltre al battito cardiaco.

“Hullallà, guarda chi si vede! Te ne vai indisturbata per i nostri quartieri come se niente fosse. Tanto lo sappiamo chi sei. È inutile che cerchi di nasconderti in mezzo a noi, si sente dalla puzza che sei un’immigrata ebrea del cazzo,” ringhiò Saverio che, per quanto si sforzasse di apparire cattivo, aveva tutte quelle graziose lentiggini coese a ingentilirgli i lineamenti e a vanificare ogni sforzo.

“E dai, lasciala stare, non vedi che tiene gli occhi bassi? Sa bene che non li deve alzare in nostra presenza,” gli aveva bofonchiato nelle orecchie Nunzio, il suo migliore amico, quello che ora indugiava un po’ troppo sull’orlo della gonna che cadeva appena sotto il ginocchio di Mina, quello che in fondo la difendeva sempre, che una volta si era preso uno sputo in pieno volto per essersi inserito in mezzo alla traiettoria di lancio, che riusciva a scongiurare possibili atti di violenza scivolando egregiamente nell’oltraggio verbale ma fisicamente innocuo, insomma quello di cui Mina era un po’ innamorata. Il suo primo Amore, malgrado tutto.

Non osava guardarli in faccia, ma si sentiva trafiggere ugualmente dall’odio dell’uno e dalla pietà dell’altro.

Perché succedeva? Non smetteva mai di chiederselo. Prima, non aveva mai dubitato della sua bellezza, quando sapeva come sfruttarla per avere intorno a sé tutti gli amici che desiderava.

“Ehi, occhietti blu, non fai la smorfiosetta ora? Mi ricordo bene di quando ridevi di me con le tue amiche. Dove sono le tue amichette ora? Non è che ti hanno voltato le spalle perché sei una lurida puttana ebrea? Ha riso di me!” continuò Saverio, dando di gomito a Nunzio dal quale di aspettava uno sguardo sardonico che non arrivò.

“Te la faccio pagare una volta per tutte,”finì per dire, poi le era piombato addosso, afferrato un braccio nell’intenzione di torcerlo, così, tanto per sentirla urlare. Smettendo per un istante di fissarle le gambe, Nunzio afferrò l’amico per la nuca e lo strattonò indietro, “che cazzo fai? Proprio qua in piazza, coglione? Andiamocene, hai già attirato troppa attenzione.” Riluttante, l’amico si era aggiustato il collo della camicia, aveva sputato ai piedi di Mina, “guardati le spalle, troia.”

 

Nunzio.

Ricordava e custodiva quel nome ancora adesso, anche se non sapeva più cosa rappresentasse. Quando fuori si moriva di freddo e lei trovava riparo dentro ai vagoni di un treno fintanto che la cacciassero, spesso si sorprendeva a scrivere quel nome sui finestrini appannati dal vapore.

 

Frequentava soprattutto due amici con i quali si allenava a giorni alterni nelle nove ore extrascolastiche che gli toccavano: Saverio e Miro. Dal modo in cui si mettevano all’attenti ogni volta che Nunzio proponeva qualcosa, dall’impegno che profondevano anche solo per farlo ridere, si capiva benissimo che fosse il capo, ma la cosa non gli dava poi tanta soddisfazione. A lui interessava solo una ragazza, una ragazza con gli occhi blu che si chiamava Mina. Per lei trascorreva volentieri le ore a pompare i muscoli nell’attesa di sentire un giorno le sue piccole mani scorrergli addosso e fremere a ogni curva. Nel frattempo, però, doveva tenere a bada quelli che l’avevano presa di mira. Era già fin troppo doloroso non incrociarla più nei corridoi della scuola.

Anche in seguito alla sconvolgente scoperta, lui continuava a desiderarla nello stesso identico modo, soprattutto di notte, al caldo, sotto le coperte. Pensava ai suoi occhi, alle labbra gonfie, al seno che l’uniforme scolastica costringeva a discapito di un minuscolo bottone che lui solo aveva notato mancare all’appello. Sognava di aprire lentamente quell’uniforme, scoprendo lembi di pelle nuda man mano che sfilava dalla rispettiva asola un bottone dopo l’altro.

Non provava affatto senso di colpa nel desiderare l’amore di un’ebrea. Sbagliava, forse, a non provare repulsione di fronte alla prospettiva di incollare il suo corpo possente, lasciatogli in eredità da Ottaviano Augusto, a quello bellissimo, caldo e palpitante di una razza inferiore riconosciuta e accertata? Una catastrofe genetica aveva prodotto per sbaglio il risultato divino che era Mina.

Non pensava ad altro che a essere inondato dall’inchiostro dei suoi riccioli in così aperto contrasto con il colore nordico delle iridi, di rischiare l’annegamento per effetto di quella cascata fluente, mentre sotto di lei avrebbe arpionato le natiche a piene mani, come un naufrago prima di abbandonare ogni speranza.

 

     …pfsssz…la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime…pfsssz…

 

Un attimo prima guardava sua madre tutta tesa all’ascolto e intenta a martoriarsi le unghie con i denti, un attimo dopo vedeva suo padre sradicare e scaraventare quella radio quasi nuova che avevano a lungo desiderato regalarsi.

Sua madre si era alzata dalla sedia producendo quel tipico schiocco che proviene dai legamenti quando sono al massimo della tensione. Quante volte l’aveva sentita lamentarsi dei reumatismi al ginocchio e subito dopo aggiungere “mille piccoli dolori sono sempre meglio di un grande dolore.”

Si era precipitata a prendere tra le mani il viso stravolto del marito per strappargli dagli occhi la crudele rassegnazione che vi leggeva. “Sono solo parole, Aldo, solo parole.”

“Papà?” sussurrò Mina, mentre si sforzava di trovare una spiegazione a quel gesto. Non poteva più ascoltare le canzoni d’amore né quei jingle pubblicitari così divertenti. Guardava le spalle ricurve di suo padre accasciato sullo sgabello e pensava a quanto fosse dimagrito nelle ultime due settimane, da quando aveva perso il lavoro. Quasi non lo riconosceva. Uno scricciolo d’uomo.

“Papà?” azzardò l’alzata di un tono.

“Ti prego, Mina, torna nella tua stanza,” biascicò sua madre, frizionandosi nervosamente le tempie.

Il tappeto attutì il rumore dei passi rapidi lungo il corridoio che portava in camera. Si chiuse all’interno senza produrre il minimo rumore. Il letto era ancora sfatto. Ci crollò sopra spingendo con i piedi le lenzuola fino a lasciarle cadere sul pavimento in un fruscio vaporoso. Come farò a sentire la musica, continuava a chiedersi, provando allo stesso tempo vergogna per la sfacciataggine con cui metteva in primo piano sempre e solo le sue esigenze.

Sul soffitto, le stelle che suo padre aveva disegnato per lei con una vernice color oro mostravano dei rigonfiamenti d’aria e alcune crepe lungo i contorni. Le si sgretolavano addosso giorno dopo giorno, ma non se ne curava, perché anche così malridotte le ispiravano la fantasia più bella: lei in compagnia del suo Amore sotto un cielo di stelle, quello vero. Le venne subito in mente la canzone della Natali che ultimamente passavano per radio. Provò a intonare: “Piccole stelle che brillate a sera, parlate voi d’amor a chi m’ha preso il cuor. Ditegli che il mio cuore aspetta e spera che io l’amo ancor, piccole stelle d’or,” le venne spontaneo portarsi la mano all’inguine per accarezzarsi proprio come immaginava dovesse essere il tocco dell’Amore.

Il suo cielo le frantumava addosso, squame ramate, come di serpente, le piovevano sulle palpebre socchiuse, sulle labbra umide fino a concentrarsi lì, in quel punto preciso. Ancora un istante… ancora uno, prima che l’oro fuso delle stelle bagni le lenzuola.

 

Il fiore di plastica rosa. Lo aveva strappato dalla ghirlanda commemorativa poggiata ai piedi della statua equestre sul marciapiedi opposto all’ingresso in stazione. Era scappata con la refurtiva nei bagni pubblici, e ora si specchiava tutta soddisfatta mentre infilava il fiore tra i capelli radi. Quando lo specchio ancora le restituiva la sua chiostra di denti neri, una pressione allo stomaco la piegò in due. Il contenuto del suo stomaco non fece in tempo a centrare il water e stampò sul pavimento la versione organica della ghirlanda che da mesi, ormai, rubava la sua attenzione.

Non mangiava da giorni e quando si ricordava di farlo era sempre questo il risultato. L’uomo che era entrato nel bagno e l’aveva trovata intenta a pescare qualcosa dal vomito – un fiore? – sacramentò e richiuse la porta, lasciando Mina a sistemarsi la rosa nei capelli.

 

 …pfsssz…il treno del Fuhrer è entrato in Italia… dal Brennero a Roma l’Italia ha salutato il Fuhrer con la sua schietta anima popolare…pfsssz…il fascio littorio si unisce alla croce uncinata e intrecciano nel vento i colori delle due nazioni.

 

L’avevano costretta a seguirli fino al boschetto di giunchi adiacente al lungofiume. Appena uscita dal fornaio, si era sentita la punta acuminata di quello che doveva essere un coltellino a serramanico in un punto imprecisato della spina dorsale, “vedi di non fare la stronza e non ti succede niente, ma guai a strillare.” Erano loro, Saverio e Miro, gli amici di Nunzio, ancora loro, ma senza di lui, stavolta. La punta del coltello le aveva forato la camicetta, e se non smetteva di tremare tutta, la sua pressione le avrebbe presto aperto un taglio. Le si erano posti accanto come due pilastri, ognuno di loro con un braccio intorno alle sue spalle e s’incamminavano come fossero amici, salutando con cenni gentili tutti quelli che indugiavano troppo sul volto pallido della ragazza. Bastava una pacca sulle spalle, un inchino, una strizzata d’occhi per rafforzare l’idea condivisa che è sempre meglio farsi i fatti propri. Solo Nunzio poteva salvarla e lui non c’era.

Durante il cammino Saverio le accarezzava il collo, facendo scivolare le dita nell’incavo che separa le scapole. Attraversarono un ponticello d’assi per raggiungere il greto sul lato opposto all’area abitata. Tra i giunchi alti quasi due metri uscirono fuori due tizi dai capelli cortissimi che Mina non ricordava di aver mai incontrato.

Il braccio di Saverio, che fino ad allora non aveva mai schiodato dalle spalle di Mina, fendette l’aria come uno staffile per riprodurre la rigida fierezza del saluto romano. Gli altri due risposero al gesto quasi nello stesso istante. Fu uno dei due sconosciuti a rompere un silenzio inusuale per cinque adolescenti nello stesso posto, “stiamo per farti un regalo, bambina, un regalo che potrai esibire per tutta la vita.”

“Sarai il manifesto su cui gli altri leggeranno l’unione, l’alleanza,” aggiunse Saverio, mettendosi una mano sul cuore.

Mina era troppo terrorizzata per notare subito il piccolo falò acceso a qualche metro da loro. Le arrivava solo un sentore di legna fresca bruciata. Quando si girò, vide quello che aveva parlato per primo armeggiare accanto al fuoco. Schioccando la lingua contro il palato, le mostrò quello che aveva in mano, del fil di ferro piegato a formare una sorta di zeta. Saverio si era avvicinato al fuoco, aveva estratto un ramoscello incandescente e ora dava fuoco a una pagliuzza per fumarsela. “È  con questo, sai, che ti marchiamo! No, tranquilla, non con questo volgare pezzo di legno, lo faremo con il ferro, perché noi non vogliamo sfregiarti, no, noi vogliamo fare un lavoro pulito, senza sbavature.

“Guarda, l’esperto lì si chiama Donato. È un fabbro da generazioni, cioè suo padre è fabbro da generazioni e lui sta imparando il mestiere. Ha realizzato per te qualcosa di speciale, qualcosa che ti renderà speciale e non dovrai più vergognarti di essere quella che sei, non tanto, perché tu avrai un segno che ti nobiliterà. ‘Nobilitare’ è una bella parola, no? Oggi a scuola l’hanno usata tante volte. Ma tu non puoi capirla, tu che ne sai di nobiltà, ma noi ti vogliamo fare un regalo, ti vogliamo regalare un po’ di questa nobiltà.”

“È pronto!” lo interruppe uno di loro. Avrebbe parlato volentieri per un altro quarto d’ora perché amava da matti il terrore che colava giù dagli occhi di Mina e le bagnava zigomi, mento, collo. Si consolò afferrandole i polsi e sdraiandola sul terreno limaccioso. L’attorniavano tutti, chi per tenerla ferma, chi per strapparle la camicia, chi per ficcarle in gola un frammento della stessa camicia perché le urla non arrivassero troppo lontano.

Lei aveva perso ogni speranza di essere salvata e ora pregava solo di morire presto; Saverio e Miro mettevano più forza del dovuto, non si erano nemmeno resi conto che ormai non opponeva la minima resistenza. Quando arrivò il dolore la prima volta, lei era già rarefatta, quando arrivò la seconda volta, i suoi occhi sgranati ingannarono tutti i presenti che fosse ancora cosciente.

Si era svegliata dopo molte ore, buio tutt’intorno. Il bruciore sembrava coinvolgere ogni fibra del suo corpo, quando invece dipanava da un unico punto. L’odore di carne bruciata si mescolava a quello umido della notte. Si meravigliò nello scoprire quanta paura avesse a stare lì da sola, anche ora che non c’erano più quei mostri che l’avevano sequestrata. “Papà…” gridò issandosi sui gomiti. Poi gridò, ancora e ancora fino a disfarsi in un pianto disperato di fronte alla consapevolezza che, no, le sue preghiere non erano state accolte: era viva.

 

I ricordi. I ricordi di una vita, andati chissà dove. Un involucro secco pronto a disfarsi a ogni vibrazione, questo era diventata. Dal buco nero che era la sua memoria, ogni tanto stillava un nome, un volto, un luogo, ma nulla capace di diradare la nebbia: il nome restava un nome, il volto un volto, il luogo un luogo. Mina nasceva e moriva ogni giorno. Ogni giorno nasceva alla stessa ora, quella in cui il sottopassaggio dove soggiornava echeggiava voci e passi in una misura impossibile da ignorare. Ogni notte moriva quando la luce artificiale dei neon le suggeriva che era ora di dormire dalle ombre che proiettava sui muri.

Nasceva aprendo gli occhi, moriva chiudendoli, in mezzo niente.

A che serve ricordare?

Può servire ricordare le urla isteriche di una madre quando finalmente vede tornare, barcollando sulla ghiaia del viale di casa, la figlia in evidente stato di shock? Può servire ricordare lo sguardo pazzo di un padre, mentre esce in strada brandendo una mazza e si mette a rincorrere un fantasma? Serve ricordare il bruciore di una ferita fresca ravvivato dal sale delle lacrime che ci stai versando sopra?

 

…pfsssz…e ora per la gioia delle nostre amate mogli, madri e sorelle a casa, una canzone d’amore …pfsssz…piccole stelle…parlate…ditegli…triste…spera… mai più…pfsssz…

 

     “Cosa avete fatto?” Nunzio non voleva crederci. Individuò, dal gelo che propagavano, le gocce di sudore che non avevano nulla a che fare con l’allenamento delle ultime due ore.

“Non ci senti, Nù? Sturati le orecchie allora perché non lo voglio più ripetere,” disse Saverio tirando fuori una sigaretta dall’astuccio di metallo che aveva rubato al padre, “una svastica, fatta ad arte, sul suo braccio. Peccato per te che non c’eri, ti saresti divertito, a un certo punto gli è pure saltata fuori una tetta. E c’avevi visto giusto, c’avevi, a dire che è una gran fica, dopo tut..” Nunzio gli si era gettato addosso e lo teneva per il collo, “ti ammazzo, figlio di puttana, giuro che lo faccio se scopro che questa storia è vera.”

Saverio non aveva neppure fatto in tempo a sputare la sigaretta, e ora attraverso di essa aspirava quel poco d’aria che poteva utilizzandola come una cannuccia sott’acqua. Quando finalmente sentì allentare la presa, la trachea gli bruciava più per effetto delle aspirazioni involontarie che per la stretta. Tossì per qualche secondo, intercalando, tra un singulto rauco e l’altro, “allora uccidimi ora perché è proprio così che è andata.”

Ma Nunzio già lo sapeva che era andata così. Era successo e lui non aveva potuto impedirlo. Mentre ancora meditava incredulo sugli effetti orribili che il marchio doveva aver impresso sulla pelle candida e perfetta di Mina, qualcuno lo inchiodò con le spalle al muro di mattoni che circondava il campo sportivo, dove fino a pochi istanti correva con i suoi più cari amici. In quattro lo tenevano fermo a stento. Saverio si massaggiava ancora il collo, ma dalla sua faccia era scomparso ogni segno di timore, “che fine di merda hai fatto Nù, non pensare che non ce ne siamo accorti, qui tutti sanno, ma nessuno ha parlato, nessuno ti ha mai rotto i coglioni, fino a ora. Di tante fiche, dico, ma di tante fiche che circolano, guarda di chi si va a innamorare ‘sto gonzo. Altrimenti perché cazzo non ti avremmo parlato della nostra spedizione. Pensi che mi sono divertito a tenerti la cosa nascosta, come uno sporco traditore? Che avremo fatto poi di male? Pensi che mi fa piacere quando ti vedo sbavare per quella? Quando fai il duro con lei, ma poi subito te la svigni sul più bello? Cacasotto, sei un povero cacasotto e non meriti la nostra amicizia. Non ti conviene, fidati, rimani solo come il cane che sei. A proposito, lo sai che la tua ebrea se ne va? Ho sentito dire che si trasferisce, esce di scena e tanti saluti al tuo cazzo che non avrà un’altra occasione così facile.

“Dai, Nunù, non fare quella faccia.”

Il più robusto tra i ragazzi che immobilizzavano Nunzio si era messo alle sue spalle per serrargli il collo nell’avambraccio e costringerlo, con il ginocchio dietro la schiena, a una posizione eretta che gli consentisse di guardare Saverio dritto negli occhi, “non perdere la speranza, che l’amico tuo ha già pensato a tutto.”

Gli altri si davano un gran da fare per bloccargli gli arti finché Saverio non fece loro un cenno con la mano, come a dire ‘atterratelo’. Prese posto accanto a Nunzio che aveva il petto schiacciato contro il suolo, incapace di fare qualsiasi movimento. Si sfilò dalla tasca la sigaretta che finalmente si augurava di godersi. Appoggiò un piede sull’altro sopra la schiena di Nunzio: “ora te lo dico io che facciamo” aveva sbuffato insieme al fumo, “e vedi che pure tu ci guadagni, anche se sei un ingrato, anche se dici che mi vuoi ammazzare. Eh sì, voglio offrirti l’occasione che cerchi, te la metto proprio sotto il naso, che non puoi dire di no. Perché sono il tuo migliore amico.”

 

… pfsssz…

 

     Te lo ricordi Mina? Ti ricordi quando a sedici anni hai perso tutto? Ti hanno messo in quarantena perché il tuo sangue ebreo rischiava di inquinare il mondo. Come puoi non ricordare, non capita mica a tutte di subire tanta attenzione.

E il tuo Amore, quello almeno te lo ricordi? Ti ricordi quando te lo ritrovasti dentro casa, assieme a quegli altri, e ti sentisti come un ratto stanato nella fogna. Eri sola perché tuo padre era stato convocato per l’ennesima volta a fare inutile mostra dei suoi documenti, fogli firmati da persone importanti, persone che gli avevano assicurato la protezione, mentre tua madre si stava guadagnando le ultime due lire in sartoria, prima di partire. Avevate programmato di partire, di lasciarvi tutto alle spalle per ricominciare una nuova vita, lontano.

Come fai a non ricordare il frastuono dei vetri infranti, sulle prime ti era sembrato un colpo di pistola, poi avevi visto la pietra ai piedi della credenza dove tua madre teneva le statuine di porcellana. Te le ricordi, le statuine? La ballerina era la tua preferita, o no? Forse i fidanzatini sotto il lampione.

Insomma, vuoi farmi credere che non ti ricordi della volta in cui quei ragazzi furono così gentili da venire fino a casa tua, per salutarti e augurarti buon viaggio. C’era il tuo Amore tra di loro, non puoi non rammentare, Nunzio, Nunù per gli amici.

La pietra l’aveva scagliata Saverio, mentre Nunzio con il pugno fasciato si era aperto un varco nel vetro quel tanto che bastava a infilarci un braccio per aprirla dall’interno.

Erano entrati.

Due di loro, che chiaramente non ricorderai, avevano perlustrato la casa in fretta, poi, in camera dei tuoi, si erano calati i pantaloni e avevano imbrattato lenzuola e cuscini del loro nobile e incorruttibile piscio patriottico. Tornando indietro, erano stati bravi a sfasciare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro prima di uscire a piantonare la casa, appoggiati al muretto di cinta che confinava con la strada.

Ricordi? Siete rimasti in tre: tu, impalata nel soggiorno con le ginocchia che minacciavano di cedere da un momento all’altro, Saverio, con il suo sorriso obliquo e tutte quelle lentiggini sul naso, sulla fronte, sulle palpebre, Nunzio, occhi fermi, definitivi, come quelli di chi ha appena letto una verità assoluta negata al resto dell’umanità. In un attimo avevi capito che il primo Amore della tua vita se ne stava andando assieme all’ultimo.

Come al solito, l’iniziativa l’aveva presa Saverio torcendoti un braccio dietro la schiena e spingendoti lungo il corridoio fino in camera tua. Nunzio vi stava alle spalle e tu, se ben ricordi, avevi notato con quanta fame spostasse quegli occhi dalla carta da parati alle lenzuola, dalla camicia da notte adagiata sulla poltrona alle stelle d’oro che aveva sopra la testa. Intanto, Saverio ti aveva gettato sul letto e ti spogliava senza guardare nient’altro che non fossero le tue cosce, i tuoi seni, i tuoi fianchi. Poi all’improvviso gli occhi gli erano caduti sul marchio: quella pelle sottile e raggrinzita doveva avergli suscitato un senso di repulsione per nasconderti il braccio sotto il cuscino! Tu facevi fatica a respirare, figuriamoci a ribellarti o gridare.

Quando Nunzio aveva finito di esaminare ogni dettaglio che si trovava nella stanza, si era avvicinato al letto dal quale tu provavi a rivolgergli sguardi di supplica.

Di’ la verità, per un momento hai creduto che ti salvasse, come aveva sempre fatto, che afferrasse Saverio per i capelli e lo trascinasse fuori dalla tua stanza, che rientrasse in ginocchio solo per chiederti “perdonami”, e invece si era messo alle spalle di Saverio che si affaccendava a slacciarsi la cintura dei pantaloni solo per dirgli “prima io.”

 

…pfsssz…piccole stelle…parlate…ditegli…triste…spera… mai più…pfsssz…

 

La luce del mattino riflessa dalla pensilina le inondò le palpebre di caldo stupore.

L’odore del tabacco e dei giornali appena stampati, il fruscio dei passi, le vibrazioni causate dal treno in arrivo, il cicaleccio delle signore che attendevano di salire, un cielo terso come non capitava da settimane, erano tutti lì a vederla nascere.

 

 

( Liberamente ispirato al testo di una canzone dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Mina )

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5 commenti »

  1. Questo racconto è commuovente, potente, bellissimo

  2. Sono senza fiato. Come già Ottavio ha scritto, il tuo racconto attanaglia il lettore ad ogni riga con una potenza inaudita per poi lasciarlo solo, con una profonda tristezza nell’anima. Brava.

  3. Grazie mille, Ottavio

  4. Grazie Maria, mi fa molto piacere che la storia ti sia arrivata

  5. Molto bello!

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