Premio Racconti nella Rete 2016 “Addio” di Matteo Baraldo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Vivevo a Napoli da parecchio tempo quando decisi di ripartire. Era rimasto l’unico Addio. Avevo conosciuto Rita pochi mesi prima ma sembrava ci conoscessimo da sempre. Vagava ormai da quattro anni a Napoli, era arrivata così: per il mare, per dipingere, mossa da chissà quale ispirazione. Ogni mattina stava lì al porto, a dondolare sopra gli scogli. Inarcava leggermente le sopracciglia verso l’orizzonte, prendeva la mira per i suoi colori e lentamente iniziava a tratteggiare le onde sottili, i gabbiani e il cielo azzurro. La sera poi compariva raggiante, un sorriso, con tutte le sue tavolette. Io mi lamentavo, il romanzo da completare e le tasche sempre vuote. Lei tirava fuori i suoi Tarocchi e mi diceva: “Vedi Krushka, non è così male! Questa è la volta buona… le carte non sbagliano sai?”
Quell’ultima notte pioveva sottile sul balcone giallo del suo appartamento a Carlo III, le gocce incessanti colpivano lentamente i nostri visi, sottili come aghi davano tormento. L’acqua bucherellava la sigaretta fra le sue mani che bruciava lenta, irregolare. Nervosamente in un crescendo rimbalzava il filtro sull’unghia del pollice destro fino a consumare la leggera carta marrone di una Marlboro di contrabbando. Se ne stava lì. Sulle spalle una giacca di pelle troppo grande lasciava cadere le sue deboli braccia sulla balaustra scalcinata, il sottile collo bianco si opponeva alla naturale spinta verso il basso. Debole parentesi su cui poggiava il capo, leggermente piegato, immoto a raccogliere in un nodo debole i lunghi capelli neri, vittime del vento e dell’acqua. Il leggero battere delle sue consunte scarpette di pelle nera, sulle ultime piastrelle rosse ruggine, prima del vuoto, provocava il lento movimento di un paio di grossi orecchini fra il nero della notte e il pallore della carne. Le labbra rosse serrate in una leggera smorfia di dolore sprofondavano nelle guance in una piega riversa, tentativo di trattenere l’amaro rigurgito di ferro e fumo. Ricordo dello scorrere duro di un melanconico nodo di corda alla gola. Gli occhi, termini leggeri di una sottile linea curva, si perdevano coperti da una leggera frangetta irregolare nella ricerca di una luna assente. Infossati da una ricerca insonne quella notte. Una luna che tardava sotto le nuvole violastre, veloci strappate dal vento, in uno quei tanti inverni piovosi napoletani.
In un breve sussultare, isterico, il proferire della sua voce fioca:
“Eppure… mondi interi, stelle mi trapassano, mi ricolmano nei loro vortici e poi se ne vanno via. Sono Io allora il cielo infinito che lascia passare le nuvole!
Che cosa mi resta?
Sento solo il battito del mio cuore.
Una quieta dolcezza in questo maledetto dolore.
Obbligata a te da questa stupida gratitudine incessante.
Sono forse la porta che conduce le vittime all’estasi?
Io sono la discesa lungo la quale si scivola verso l’alto.
La viva luce che circola nelle oscurità del sangue.”
Forse quell’ultima volta parlava dei suoi Tarocchi.
Passarono diversi anni quando lo scricchiolio continuo della pioggia si fece risentire sempre più insistente sulle vecchie imposte di legno, a miglia di distanza. Le sottili gocce scivolavano lente ad impregnare il legno vivo nei punti dove il sole cocente aveva sradicato la vernice. Nel calle una sottile nebbia giallognola lasciava alla vista solo il pozzo di pietra grigia.
Un grosso tondo convesso di ferro a chiuderne la bocca privandolo di alcuna utilità grazie a decorati finimenti, borchie metalliche, quasi a farne una maschera per il carnevale. Il fuoco nelle fauci, la bocca arsa. Mi alzai con un lento movimento. Potevo sentire un netto dolore irradiarsi dalla schiena fino alla gamba destra. Una fenditura profonda ai nervi, un chiodo battuto lentamente e senza sosta, trasversalmente, fino alla parte superiore del ginocchio. Sofferenza che non mi dava pace da giorni, tale da costringermi a passare ore intere sdraiato sul pavé di cotto rosso veneziano. Con una leggera imprecazione stretta fra i denti oltrepassai lo scalino che mi separava dalla stanza retrostante. Avidamente qui iniziai a bere dallo scalcinato lavabo azzurrino. Incrociai la mia immagine allo specchio: le palpebre pesanti coprivano i sottili occhi azzurri increspati dal verde stagnante dell’acqua dei canali. Le labbra sottili violacee erano indelebilmente segnate da una leggera cicatrice sul lato destro, frutto indesiderato della mia ben nota pigrizia che rendeva insofferente il soggiornare in città. Sottile linea dai margini irregolari su cui fissai lo sguardo. Rigolo d’acqua che iniziò a riaprire i suoi argini nel rosso della carne, scorrendo in un crescendo incessante fino a prosciugarsi. Il sapore amaro della bile misto alla impalpabile polvere bianca dei denti digrignati da troppe ore si fece insistente nel mio improvviso pallore .
Dal nero letto del fiume che lentamente si fece sempre più grande, oltre ogni realtà, una vibrante onda si alzò fino a sfondare l’angusto tetto di travi tarlate e a inghiottirmi privo di coscienza sotto l’assenza vigile del cielo stellato. Mi trovai davanti alti soffitti ornati da stucchi verdi persi nelle chiome di cristallo di imponenti lampadari barocchi. Sedevo leggero su una sedia tappezzata di damasco rosso, ancorato a sottili rivetti. Le finestre, aperte dietro di me, lasciavano entrare l’odore della salsedine e del maestrale. Sentii sulle spalle calore, lo scorrere lento della carezza di una mano femminile
“Non vi è nulla di chiaro… eppure non sono mai stata lontana da te. Non puoi comprendere da quanti pericoli, quanti incubi io ti abbia salvato.
Ora ho perso tutto. Questa materia non mi appartiene. Ho giocato a dadi la mia immortalità per quello che vedi. Pensi sia sciocca? O forse sei tu prigioniero delle catene del passato e dal giogo del futuro?
Non credere che le mie siano parole di condanna per te, mio amato romantico parassita,
soltanto un Addio. Gli arrivederci portano cattiva sorte”
Un rumore di passi leggeri e vidi i suoi neri boccoli ancora una volta, l’ultima, nel dissolversi del risveglio di una umida mattina di mezzo inverno.
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