Premio Racconti nella Rete 2016 “Stagioni diverse” di Claudia Castoldi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Erano le dieci di una domenica mattina come tante quando il signor S, modesto impiegato, entrò nel bar sotto casa allo scopo di consumare la sua solita colazione festiva, fatta di un cappuccino schiumoso ed una brioche. Appena varcato l’ingresso percepì subito, col fiuto del buongustaio che si riteneva di essere, i profumi della mattina, fatti dell’amaro del caffè attentamente macinato e della dolcezza delle paste che stavano per essere esposte sul lungo bancone di vetro; paste che erano solo in attesa d’ avventori come lui.
Si avvicinò con pochi passi al suo solito tavolo, quello vicino all’ampia finestra che dava sul cortile, pregustandosi quanto sarebbe seguito con la religiosità d’ un rituale: si sarebbe seduto dando le spalle al locale e ai futuri clienti per focalizzarsi solo sul bancone del bar e sulla porta di quella cucina che era per lui la fonte di un piacere sublime e semplicissimo insieme.
Avrebbe atteso la cameriera, si disse, e poi avrebbe ordinato il solito.
Così per riempire un lasso di tempo che, confidava, sarebbe stato breve, iniziò a sfogliare il giornale con la lentezza tipica di chi non ha nulla d’urgente da fare. Tutte notizie già sentite, già note, pensò cinque minuti dopo, mentre il parlottio colmo di indicazioni dei camerieri si faceva più intenso.
E fu allora che la vide, circondata da uno scalpiccio di piedi; si trattava di una cameriera, una ragazza nuova, giovane, che non doveva avere nemmeno vent’anni.
Il signor S si trovò a tal punto distratto dalla ragazza che tese l’orecchio ed aguzzò la vista nell’improvvisa e inspiegabile necessità di cogliere qualsiasi aspetto di lei, dai dolci lineamenti fino alle sue gote arrossate, al suo tono di voce, al suo nome. Tuttavia non seppe mai, né quella mattina né poi, il nome della fanciulla. Così, come chi mancando di mezzi se ne procaccia, le diede il nome Vittoria perché da quella figurina emergeva come un impeto di forza, l’impeto della gioventù in fiore.
La guardò a lungo dopo quella prima fugace apparizione fuori dalle cucine e, riguardandola a quel modo, analizzava le sue forme con un’attenzione che probabilmente non aveva mai usato verso nulla. Guardandola, gli parve di scoprire la femminilità per la prima volta, gli parve di tornare ragazzo.
Il passo, lievemente affrettato, tipico di chi ha dei compiti da svolgere, le dava un indefinibile senso di fragilità, ma quanto era meraviglioso quel passo! Pareva che volasse. E il signor S non vedeva più nessuno volare da molto molto tempo.
Un tovagliolino le cadde ed ecco che già alzava gli occhi al cielo con la finta esasperazione che usiamo talvolta per rimproverarci, ma dolcemente, come farebbe una madre col figlio. Ed eccola abbassarsi tutta per raggiungere il livello del pavimento e del tovagliolo perduto, mettere innocentemente in mostra quel fisico snello e formoso che ben si indovinava appena al di sotto del completo da lavoro. Se il signor S fosse stato un materialista o un superficiale probabilmente avrebbe visto quello che vedeva e nient’altro, ma lui era sempre stato in grado di vedere oltre le mere apparenze. Così in Vittoria non vedeva solo una bella ragazza, ma dopo un attento esame riconobbe in lei qualcosa che, data la sua età, gli parve lontanissimo: la Giovinezza.
C’era infatti in ogni movimento della ragazza un’ involontaria energia, come un’allegria degli arti che, così legati, gioivano di quell’unione tanto ben assortita, incuranti di un futuro fatto di decadenza. E fu quel corpo, con tutto il bagliore abbacinante che emetteva, a riportarlo indietro a quella giovinezza che credeva di aver dimenticata e che, lo realizzava solo ora, un tempo l’aveva posseduto interamente.
All’improvviso molte immagini passate gli tornarono alla mente e ciascuna di queste sembrava formarsi da quella precedente e trasfigurarla, quasi volesse far prevalere il ricordo di cui si faceva volontaria portatrice. E sebbene il sole illuminasse la saletta a giorno, la luce sfolgorante che il signor S percepiva non era quella esterna, impenetrabile dietro le palpebre abbassate, ma era una una luce interna fatta di ricordi che parevano sogni. Ricordò le cadute in bicicletta, le favole inventate dalla madre, le ninnenanne… poi un’immagine si fece strada tra la altre, dapprima a fatica, poi sempre più sicura: un alto bicchiere di vetro pieno di succo d’arancia, il cui colore era tanto acceso quanto poteva esserlo la fiamma del fuoco o il sole al suo tramontare. Rivide se stesso bambino accostarsi all’orlo titubante, osservare con diffidenza i residui della polpa del frutto, bere poi avidamente quel nettare del fanciullo che era stato.
“Prego?”
Vittoria, la cameriera, era arrivata.
Preso alla sprovvista, si inumidì le labbra e attese un attimo prima di rispondere, stranamente indeciso sulla scelta.
“Un’aranciata” fece risoluto
A quella risposta fanciullesca la boccuccia di Vittoria si aprì in un ampio sorriso che gli parve, per un momento, espressione di malcelata complicità.
Aranciata, grazie a questa sola parola era entrato nel suo mondo di ragazza, fatto di morbide membra e naturale grazia.
Chiuse di nuovo gli occhi e fu allora che gli parve di vederla avanzare di nuovo verso di lui e prenderlo per mano. Era a tal punto addentro alla sua visione che strinse leggermente il suo pugno, ormai solcato dagli anni, nel vuoto dell’aria, quasi a stringere quella mano invisibile che gli era stata tesa con la sola espressione del volto.
L’aranciata giunse al suo tavolo senza esser inizialmente notata da chi l’aveva ordinata, troppo assorto nei suoi pensieri.
In seguito il signor S assaporò con attenzione meticolosa i primi sorsi di succo; li agitava in bocca mandandoli da una parte all’altra: dai denti fino alle pareti di carne delle guance che si gonfiavano come quelle di un pesce o d’una rana. Preso da quest’occupazione, gioendo di quella che gli parve una riconquista dei sensi, non vide i camerieri additarlo per il suo bizzarro comportamento. Per lui esisteva solo quel sapore d’agrume che richiedeva l’attenzione non solo del gusto, ma della memoria e di tutti i sensi insieme. Così, nell’isolamento in cui era giunto, una sola cosa sentiva distintamente: lo spostarsi del succo a destra e a sinistra, come un mareggiare talvolta placido e cheto, talvolta in tempesta.
Sistematosi un poco sulla sedia, si ricordò di Vittoria; cercò dunque smarrito tra i tavolini quella figura che, allora più che mai, gli parve fantastica, quasi magica. Avendo fallito nella ricerca della giovane, si volse infine alla sua ultima risorsa: il bicchiere, unico ed inconsapevole mediatore di quella visione del tempo passato. Guardò il bicchiere ormai vuoto a lungo, come in estatica contemplazione, solo per scoprire, per una subitanea quanto insperata intuizione, che l’essenza di lei, di quella giovinezza rinnovata, era tutta in quello.
Da quel giorno non avrebbe ordinato nient’altro.
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Dolceamaro e ben scritto. Brava!
Grazie per il complimento!
Devo dire che, scrivendo, il mio intento era proprio quello che lei ha colto: dare una sensazione di dolcezza e malinconia verso un passato splendido che non può tornare ma che, allo stesso tempo, può rivivere nel ricordo.