Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2016 “La scelta” di Silvano Spaziani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Silenzio assoluto. Non il gracchiare di un uccello, un rumore lontano, un filo di vento. Nulla. Proseguo, stravolto. Una nube di polvere segue fedele i miei passi, mentre il sole – fisso e perpendicolare sulla testa – non accenna a calare. Da quanto mi trascino sotto questo sole impietoso? E perché lei mi ha spinto in un posto… dimenticato dal mondo?

Scorgo la sagoma d’una costruzione – tremolante – e un’insegna illeggibile. Mi coglie il sensato dubbio che sia un’allucinazione. Allungo le mani in avanti e mi affretto verso la visione. Sono sotto l’insegna: Cafè, recita. L’ho trovato. Tiro fuori il fazzoletto ormai lercio e asciugo il sudore – abilmente impastato con la polvere – che ricopre il mio volto. Emetto un sospiro e varco la soglia del Cafè che, grazie a Dio, sembra reale. Dentro è deserto. Avanzo barcollando, quasi a tentoni, investito dalla forte penombra. Poi gli occhi si abituano: distinguo il bancone, vecchio e malridotto, e pochi tavoli con le sedie intorno. Mi lascio cadere su una di esse. Stagna su tutto un’aria greve, malsana. Mi chiedo se il luogo non sia completamente abbandonato, quando appare da una porta laterale una figura dimessa e vagamente lugubre.

“Buongiorno!” esclamo sollevato. Non risponde. Si avvicina senza fretta e si blocca a un passo da me. La sua pelle ha un colore indefinibile, come cuoio logoro e crepato. L’espressione è neutra, da sonnambulo.

“Buongiorno” ripeto.

“A lei” mormora.

“Sarebbe così gentile da portarmi dell’acqua? E un caffè, grazie.”

“Non serviamo caffè.”

“Eh?”

“Non serviamo caffè.”

“E perché?”

Alza le spalle: “Se vuole preparo un tè alla menta. Ma ci vorrà del tempo.”

“Odio il tè.”

“O forse una minestra, non ne sono sicuro.” La sua voce esce flebile e armoniosa. Come un arpeggio distante. Una sciatta tunica – giallastra e costellata di macchie – lo copre fino alle ginocchia.

“Ma che minestra” sbuffo. “Mi porti almeno dell’acqua, se non le è di troppo disturbo. Fresca, magari.”

Fa dietrofront e sparisce oltre la porta da dove è sbucato. Di nuovo solo, lascio scivolare gli occhi sulle pareti scrostate, alla pigra ricerca di qualche indizio che aiuti a svelare il mistero del locale. C’è poco, sui muri. Un panno – chiamarlo arazzo è eccessivo – di discrete dimensioni, raffigurante un paesaggio montano. Una chitarrina con due corde penzolanti. Un cappello da donna, con delle grandi piume colorate. Null’altro. Ah, là sulla mensola, una rivoltella d’altri tempi con la canna irrispettosamente puntata sul mio cranio. Distolgo lo sguardo dalla blanda minaccia e vedo con sollievo riemergere il personaggio che mi ha accolto. Regge una brocca d’acqua che non sembra limpida e tantomeno fresca. E un boccale di terracotta, sbeccato in più punti. Posa tutto sul tavolo. Mi verso l’acqua e bevo avidamente, interrogandomi appena sull’avventatezza del gesto. Il sapore è pesante, volgare. Ma ho troppo bisogno di quest’acqua. Riempio ancora il boccale e lo vuoto fino all’ultima goccia. Mi sfugge un rutto. L’uomo con la tunica è in piedi davanti a me.

“Si sieda, la prego.”

Non si muove, come se non mi avesse udito.

“Può dirmi il suo nome?” insisto.

“Amok” sussurra.

“Amok?”

Abbassa il capo, in segno d’assenso.

“Senta, Amok, la scongiuro: mi faccia un caffè. Aspetto una persona e ho bisogno di un caffè, sennò mi addormento sul tavolo.”

“Non posso.”

“Che significa… c’è la macchina lì, la vedo. Me lo preparo da solo, se è questo il problema.” Butta un occhio alla macchina del caffè, è come se la vedesse per la prima volta. Fa un gesto col braccio, svolazzante: “Ah, quella… non è mai stata usata. E qui non abbiamo caffè, in ogni caso.”

“Ma perché?”

“È una storia lunga.”

“Provi a semplificare.”

Alza le spalle, scuote la testa.

“Ma questo posto si chiama Cafè!”

“È una lunga storia.”

“Ancora!” sbotto indispettito. “Spero solo che la persona che aspetto non tardi, sto esaurendo la pazienza.”

Amok mi fissa, gli occhi scuri gonfi di compassione.

“Lei non verrà.”

“Cosa… mi ha dato appuntamento lei, qui! Ma poi come sa che è una donna?”

Sospira e finalmente si siede: “Lei non può venire.”

Le sue pupille lucide sembrano volermi ipnotizzare. Ho un moto di stizza: “Certo che è proprio un bel tipo, è sicuro di avere tutte le rotelle al posto giusto?”

Sospira ancora, si guarda intorno.

“Prima di venire qua, cos’ha fatto?”

“Prego?”

“Prima di intraprendere la strada deserta e polverosa che l’ha condotta in questo locale, cosa stava facendo?”

La domanda mi sorprende. Decido che non sono tenuto a rispondere. Ma mi accorgo che – per quanto mi sforzi – non ho la più pallida idea di cosa stessi facendo, prima.

“Non credo debba interessarle…”

“Non se lo ricorda.”

“Insomma!” Faccio per alzarmi e protestare con maggior vigore, ma il suo sguardo mansueto e pietoso mi paralizza.

“Lei… si può sapere chi è?” chiedo spaventato.

“Non è importante. È molto importante invece che lei ricordi esattamente cosa stava facendo. Le do un aiuto, se vuole.”

Sono sbigottito, ho la gola secca. Bevo un altro po’ di quell’acqua schifosa, per guadagnare tempo e ragionare. Alla fine capitolo: “Va bene. Mi dia questo aiuto.”

Lascia scorrere diversi secondi, interminabili.

“Stava guidando.”

Rimango a bocca aperta. Il ricordo mi colpisce come uno schiaffo: stavo guidando, è vero, lontano da qui. Le strade bagnate, il freddo intenso. Il cielo scuro. Stavo guidando ed è accaduto qualcosa… una fitta di dolore mi infiamma il torace e si propaga fino al ventre, alle gambe. Mi piego in avanti con un gemito.

“Cos’è successo?” domando a fatica.

“Non posso dirle altro, mi dispiace.”

Tento di mettere a fuoco la scena. Guidavo. La mia auto. Ero infreddolito e stanco, desideravo ardentemente un caffè. Proprio come ora. Guardo a destra e a sinistra, in cerca di un bar… non c’è niente, dannazione… voglio un CAFFE’!

Un sibilo mi buca le orecchie. Me le copro con le mani, non serve a nulla. Uno schianto improvviso nella mente mi fa sussultare, quasi cado dalla sedia.

Tremando mi rivolgo ad Amok: “Ho avuto un incidente, vero?”

Socchiude gli occhi.

“E che ci faccio qui?”

Ci pensa, mi fissa. Con quello sguardo.

“Provi a formulare un’ipotesi.”

“Non mi dica che… sono morto!”

Mi guardo attorno stupefatto. Non può essere vero. Quest’ambiente non somiglia neanche lontanamente al paradiso. E – per quanto sporco e fatiscente – nemmeno a un girone dell’inferno. Tutt’al più, a un’anticamera. Un lampo mi folgora la coscienza: “Il purgatorio… sono in una specie di purgatorio!”

I suoi occhi si accendono. Accenna un sorriso.

“Diciamo. O meglio, un’anticamera. Ma si spieghi: cosa intende per purgatorio?”

“Senta, forse lei si diverte ma per me non è un gioco!”

Il mio scatto aggressivo non lo turba affatto. Capisce, probabilmente, che la mia è solo paura. Mi sgonfio come un sacco e chino la testa.

“Non faccia così. Non ha molto tempo, purtroppo.”

“Non ho…”

“Ascolti…”

“Mi faccia un caffè, la prego, ho bisogno di un caffè!”

“È proprio questo il punto. Finché continua a chiedere il caffè non andiamo avanti. Se vuole saperlo, è l’unica cosa che assolutamente non posso darle.”

“Ma perché, mi dica il perché…”

Riflette alcuni secondi, pare preoccupato.

“Vede, dopo un incidente – un evento che ci allontana di colpo dal nostro corpo – ecco, non si è pronti a un tale brusco cambiamento e si fatica ad accettare i nuovi riferimenti, totalmente diversi da quelli precedenti.”

Fa una pausa, mi scruta fin dentro l’anima.

“Lei in realtà è a un bivio. Può accogliere con tutto se stesso la nuova condizione oppure tornare alla vita di prima. Ma nel secondo caso, mi creda, si tratta di un percorso lungo e doloroso.”

“Perché mai?”

“L’incidente le ha procurato danni di una certa entità.”

Ho un capogiro, mi aggrappo ai braccioli della sedia. La mia anima – quel che ne rimane – è un lento vortice che ruota sinuoso al centro di una palude. Sto per affondare. I pensieri germogliano privi di volontà, s’intrecciano come volute di fumo, evaporano.

“E nel primo caso?” sento la mia voce uscire come un soffio.

“L’attende l’altro mondo, a braccia aperte. Luminoso e sereno. Pieno d’armonia. Ma deve staccarsi dai desideri terreni, dalle brame, dalle futilità.”

Il sorriso di Amok mi rasserena e seguo più leggero il ballo dei miei pensieri che si rivolgono a quella visione armoniosa, profumata, eterea.

“Quanto tempo ho per scegliere?”

“Deve farlo ora.”

Ho di nuovo la palude intorno, pronta a risucchiarmi. Penso alla mia vita sulla terra. Ero felice? Non saprei dirlo. C’è lei che mi aspetta, se ritorno. Ma mi ama davvero? Sono anni che me lo chiedo, mai ne sono stato certo. E il resto? Una corsa affannosa, continua, con pochi squarci di serenità. La tentazione di lasciarlo andare, quel mondo, è forte. Di là troverei la pace. Finalmente. Il giusto premio, il ritorno alla vera casa. Devo decidere. Ora. Mi stacco da tutto, dalle cose superflue che mi hanno riempito la vita, dalle inutili brame, dalle complicazioni emotive. Ci riesco. Sono lieve e docile. Mi sollevo, mi espando nell’aria. È meraviglioso, inebriante. C’è qualcosa però che mi disturba, un sapore irrisolto, un conto in sospeso. D’un tratto comprendo. La voglia di una tazzina di caffè mi invade il palato, il suo aroma s’insinua nelle orecchie, nel collo, giù per l’esofago. Vacillo. Le mie membra tornano, ondeggiando, verso la sedia. Sono sottosopra, conteso, lacerato.

Possibile che debba rinunciare a un sogno dorato e celestiale – ed eterno – per una tazzina di caffè?

Possibile che non mi sia più concesso di assaggiare e gustare un caffè, mai più?

    Ahhh…

    Devo decidere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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14 commenti »

  1. E’ certamente un tema coraggioso la morte, Silvano. Ancor più coraggioso quando metti in gioco l’eventualità di una scelta consapevole tra valori e presunti valori. Ben scritto. Bravo.

  2. Nel leggere il tuo racconto, ho pensato che tutto si sarebbe risolto nel solito risveglio da un sonno profondo, e invece…Tema complicato, che a mio avviso hai affrontato senza scadere nel luogo comune. Invece del tunnel con la luce e del parente trapassato che aspetta a braccia aperte il nuovo arrivato, hai impostato il transito in modo originale ma verosimile, se così si può dire.Una sorta di stazione di posta ove si impone una scelta, un atto di volontà del soggetto che, da solo, dovrà decidere se vivere o morire. “Quando si muore, si muore soli”, cantava infatti De Andrè. Mi è piaciuto, complimenti e auguri

  3. Grazie di cuore ad entrambi per l’apprezzamento. Speriamo di ritrovarci uniti – impaginati – nel medesimo destino.

  4. Wow! Sono stata catturata a pieno dal tuo racconto e la descrizione di questa” anticamera” la trovo stupenda e azzeccata! Diciamo che se dovesse esistere una cosa del genere, è così che la immagino! Complimenti! Anche il tema principale su cui riflettere è molto valido e carico di significato 🙂

  5. Brillante e coinvolgente. Complimenti Silvano.
    Personalmente avrei scelto il caffè, tenetevi pure il paradiso (FACCINA SORRIDENTE…sto parlando con ironia da ora in poi, ovviamente; ironia che, a quanto mi pare di “leggere tra le righe” letteralmente, ci fa appartenere alla stessa categoria di esseri..). Amok…da adesso in poi me ne ricorderò ogni volta che metto su la mokA (ri-FACCINA SORRIDENTE)

  6. Grazie Sabrina, davvero. Ti abbraccio forte. Ad Angelo invece do una rispettosa stretta di mano, meglio non esagerare. Caro Angelo, per tua ulteriore curiosità “AMOK” è una parola malese (ti invito a leggere il significato su Wiki) ed è anche il titolo – non casuale – di un romanzo di Stefan Zweig. In bocca al lupo.

  7. Certo Silvano, un’amichevole stretta di mano può bastare. Fraterna, da parte mia.
    Grazie per l’approfondimento, colmerò la mia ignoranza con piacere (…non intendevo essere così cabalistico, mi é saltato all’occhio l’anagramma, lo dicevo intendendolo nel senso di un valore aggiunto nell’economia del racconto che, di per sé stesso, é proprio fatto bene).

  8. Vabbè Angelo, abbracciamoci, dài… Scherzavo, naturalmente. Riguardo AMOK era solo una curiosità che io, tra l’altro, ho scoperto dopo aver scritto il racconto. Avevo scelto quel nome per l’anagramma (come hai subito notato) e per il suono esotico che produceva. Ti abbraccio ancora, molto forte. 🙂

  9. P.S. : ho scoperto proprio ora che se digiti i 2 punti seguiti da parentesi chiusa (a simulare una faccina sorridente orizzontale), quando si invia il commento ti dà automaticamente – e gratis – la bella faccina dorata.

  10. Grande Silvano. So che è una bugia..per questo ci credo 🙂 (sai cosa? scrivevo da uno smartphone e…avevo rimosso la preistoria degli emoticons, abituato come sono a usare le immagini…E mi venivano segni strani! 😀 ).
    PS: qualunque sia la genesi di AMOK, a me piace. originale, per quello mi piace. 😉

  11. Emozionante. Ti prende e ti coinvolge. Lo vedi quel posto, ci entri ed osservi, poi respiri anche la polvere! Bravo

  12. Non banale e accattivante, si fa leggere 🙂

  13. Dover pensare ad una scelta da fare, nel momento “estremo”, l’ho trovato davvero emozionante e mi ha fatto riflettere come anche nella quotidianità spesso ci si ritrova a dover scegliere tra la vita e la morte, dove quest’ultima prende il nome di sacrificio. Morire un pò per gli altri.
    Complimenti!

  14. Grazie di cuore 🙂

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