Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Racconti nella Rete 2009 “Cordone ombelicale” di Marco Bianchi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

“Pronto”.

“E’ un’ora che provo a chiamarti“ la investo.

“Ehi scusa, ero impegnata in una riunione importantissima. Sai oggi c’era l’incontro con…”.

“Secondo te come la prenderanno?” la interrompo.

“Credo sia andato tutto bene, i clienti mi sembravano piuttosto soddisfatti”.

”Ma no, intendevo i miei. Te ne sei dimenticata? Ho preso dei pasticcini e qualche pizzetta per creare un’atmosfera più rilassata” spiego totalmente elettrizzato.

“Ahhh, certo che no. Vedrai, con il tempo l’accetteranno” si limita a rispondermi con distacco.

“Mi aspettavo un po’ più di sostegno”.

“Lo sai come la penso” ribatte ora quasi polemica.

“Dai amore ne abbiamo già discusso. E’ un passo che devo fare da solo. E poi potrai venire quando vuoi e fermarti a dormire…”.

“E sarà come convivere” me l’hai già detto.

“Scusa adesso ti devo salutare. Fammi l’in bocca al lupo…” concludo.

fremente.

“In bocca al lupo teso…” odo la voce scappare via, mentre con note calanti la batteria del cellulare mi abbandona.

Sono appoggiato con entrambi i glutei al cofano dell’auto.

Davanti a me una ringhiera arrugginita mi separa e trattiene idealmente dal vuoto. Sotto il lago, reso ancor più grigio e cupo dalla luce crepuscolare che va scemando dietro la sponda opposta.

Tiepide folate d’aria mi investono alle spalle smosse dalle macchine in transito a lato della piazzola.

I rumori no, quelli non li sento.

Mi sforzo ancora di visualizzare la scena dall’esterno.

Chi mi ha suggerito, come tecnica di rilassamento, di osservare fissamente gli oggetti e descrivere la realtà con oggettivo distacco?

Forse il mio analista. O l’ho letto in qualche rubrica.

No, credo lui.

Beh in ogni caso, dovrei adoperarlo più spesso.

Le braccia semi conserte.

La sinistra mi cinge il petto, la mano stretta tra la piega dell’avambraccio destro che è ora sospeso davanti alle mie labbra.

Aspiro un’ultima lunga boccata.

E stringendola tra indice e pollice, la giro a portata di sguardo. Quel paio di millimetri scarsi di carta bianca tra la brace e il filtro ormai rammollito e maltrattato mi chiamano.

Ancora un’altra.

Un acre vapore di filtro bruciacchiato mi invade naso e gola.

La butto oltre il parapetto e con la faccia di chi ha appena ingoiata una cucchiaiata di quegli amarissimi sciroppi per la tosse salgo in macchina.

“Già le 19.45, cazzo!” sobbalzo girando le chiavi nel quadro.

“Dai, dai -impreco- cosa rallenti?”

Gli altri automobilisti sembrano congiurare contro di me, coalizzandosi per rallentare la rincorsa al tempo che dopo ogni curva o semaforo acquista sempre più margine.

Mi ricacciano indietro. Mi rubano spazio.

Procedo a scatti accelerando e cambiando nervosamente. Il volante serrato con la mano sinistra disegna angoli acuti nel mio zigzagare tra il traffico.

Poi una sterzata più brusca delle altre e in un riflesso incondizionato l’altro braccio è spinto verso il sedile passeggero.

Troppo tardi.

Lo stropiccio di una sportina plastificata e della carta anticipano il rovesciarsi di vassoi.

Intuisco l’impiastricciato mescolarsi di creme, il fondersi di cibi dai colori e sapori differenti.

Soprattutto noto un leggero spargersi di briciole sul tappetino. L’accartocciarsi dell’involucro.

Mi chino per recuperarli ad una posizione per lo meno orizzontale.

Sono pochi istanti. Ma quando riporto lo sguardo sulla carreggiata, quella maledetta lanterna a tre occhi mi espone bollino rosso.

Il piede istintivamente affonda pesante sul pedale del freno.

Lo spremo.

Le gomme stridono e dal pianale posteriore si stacca una frusciante tempesta di fogli che mi investe e riempie l’abitacolo.

Il sangue strizzato verso il cuore lo fa pompare all’inverosimile.

Lo sento martellare in gola e nel petto.

Resto senza fiato alcuni secondi.

Poi l’esaurirsi dell’adrenalina mi svuota le membra e scivolando lungo sedile, abbasso per intero il finestrino.

Una bava di aria fresca mi investe le tempie calde e pulsanti, la fronte imperlata di sudore.

Con la bocca spalancata inspiro quanta più aria i miei polmoni sono in grado di stipare.

Una due, tre, volte. Inspiro ed espiro. Inspiro ed espiro. Inspiro ed espiro. Rumorosamente.

Il verde mi invita a ripartire.

Sono renitente.

Un colpo di clacson mi sprona.

“Eh un attimo! Mamma mia che fretta” impreco rivolgendomi allo specchietto retrovisore.

Sposto con un’ampia e decisa bracciata alcuni fogli fluttuanti tra cruscotto e parabrezza.

La mia andatura ora è lenta e svogliata come a voler dilatare il tempo e con esso le probabilità che un evento straordinario, sollevandomi da ogni senso di colpa, mi impedisca di giungere a destinazione.

Il momento tanto atteso e ora rifuggito in cui sotto casa parcheggerò in quel posto auto che da piccolino ospitava la macchina di mia madre.

Una Panda blu puffo dal tetto in lamiera incavato per il peso delle zuppe coperte di lana grezza con cui la proteggevamo nelle fredde umide notti invernali.

In cui cercherò di circuirli con abbondanti aggettivi qualitativi sulla ricercatezza delle piastrelle, sull’affidabilità degli impianti, sulla resistenza dei serramenti, sulla funzionalità e tecnologia degli elettrodomestici, sul pregio delle materie prima degli arredi interni. Calcando la mano sull’attenzione ai prezzi e la mia capacità di contrattazione.

Inebrierò i loro sensi con un goccio di spumante e giocherò la carta dell’emotività con aneddoti, ricordi e qualche vecchia foto di quella che all’epoca era una neo famiglia degli anni ’80 in un appartamento con la moquette.

Incasserò con discrezione e modestia i complimenti di mio padre sui lavori di ristrutturazione, probabilmente celata dietro ad una autocompiacimento su quello che era stato frutto del suo sacrificio e delle sue scelte.

Poi prendendola alla larga- “l’agenzia immobiliare è già stata interpellata e ci sarebbe perfino un inquilino” comunicherò.

Parto. e mi fermo e riparto adeguandomi al traffico. Le braccia però sempre tese e rigide, si aggrappano al volante.

Il pigro incedere richiede scarsa attenzione, mi distrae.

Ho come l’impressione di sentire le loro risposte alla mia esternazione.

“Che bisogno hai di andartene di casa? Non stai bene con noi…ti diamo fastidio…” alza la voce mio padre. Disegnata sul volto l’espressione di chi è stato appena messo al corrente di un tradimento.

“Perché non ti sposi, prima? L’appartamento tanto resta lì, tuo padre ha sempre voluto diventasse tuo” teneramente sembra implorare mia madre.

Nuovamente rallento. Provo a svuotare la testa.

Poso lo sguardo sul palazzo alla mia sinistra.

Le persiane in legno spalancate, fissate con vecchi e arrugginiti garibaldini al muro giallo senape.

L’intonaco leggermente scrostato sullo spigolo in corrispondenza dell’intersezione con la strada traversa mette in mostra un antico pilastro di solidi mattoncini.

Mi sento più sciolto.

Un’insegna luminosa cattura la mia attenzione coi suoi neon verde smeraldo intermittenti.

Appaiono e scompaiono disegnando croci.

Subito sotto splendono in rosso delle cifre indicanti 22° C.

Mi blocco rapito dall’alternarsi della immagini che le luci disegnano sul pannello nero.

Ad un tratto anche la scritta rossa cambia dicitura e prende a lampeggiare.

20.53

20.53

Lancio una rapida occhiata al cruscotto e immediatamente all’orologio sul polso.

“Maledetta ora legale” sbiascico a denti stretti.

Impugno il cellulare e lo collego all’accendisigari.

Una raffica di trilli, conferma i miei dubbi.

“Pronto. che fine hai fatto” mi accoglie la voce di mia madre.

“Scusate ho avuto un contrattempo e il cellulare era scarico e non mi sono accorto e…” mi giustifico con voce sommessa.

“Non preoccuparti, per fortuna ci eravamo portati le chiavi”.

“Da-davvero” balbetto, “allora?” dico riprendendo il controllo.

“Bellissima, sei stato veramente bravo. Anche il papà ti fa i complimenti -e proseguendo-

Si vede che la senti tua” pronuncia con voce strozzata.

“Grazie” è l’unica cosa che mi esce.

“Stai tornando?”.

“Passo la un attimo e arrivo. Magari insieme ci torneremo un’altra volta” cerco di concludere.

“Quando potrai”.

Chiudo la chiamata e uno strano senso di liberazione mi avvolge

Scendo dalla macchina.

Salgo due gradini alla volta con ampie falcate.

Sulla mensola all’ingresso una busta.

La apro. Spuntano delle banconote e un biglietto.

Siamo orgogliosi di te e del lavoro che hai fatto.

Ci auguriamo che questa casa possa accogliere i tuoi sogni e, chissà, un domani la tua famiglia come ha fatto con noi.

Hai deciso di cavartela da solo e ti fa onore, ma se avrai bisogno non aver paura di chiedercelo.

Anche se sotto a tetti differenti ci saremo sempre.

In bocca al lupo.

Ah, questi sono i tre mesi di affitto che hai anticipato all’agenzia.

Non vorrai fare l’inquilino a casa tua…

Mamma e papà.

Le lacrime cominciano a sgorgare silenziose, ma in quelle stanze vuote rimbombano, esplodendo sul piano in legno della mensola.

Mi lascio cadere sul divano.

Perché non ti sposi? Perché vuoi uscire di casa?

Si ripresentano nella mia mente senza preavviso.

Estraggo dalla tasca il cellulare.

Compongo il numero di Simona, ma appendo prima che squilli.

Mi sento solo. Ho voglia di tornare a casa.

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