Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “La nera e Giulio Cesare – Un racconto degli anni ’90” di Antonio Armano

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Dopo il gin tonic al Giada, un baraccio con tabaccheria sulla strada camionale, Tony propose di andare a vedere le zoccole. Era uno sport diffuso, oltre un certo livello alcolico, fare la via Emilia, verso Piacenza, fino al centro commerciale Iper Montebello, fu Carrefour, come lo chiamano ancora i vecchi, per vedere le zoccole, le nere al freddo e nella nebbia, una ogni tot metri come pietre miliari sull’antica via Emilia. Si trattava solo di guardare, certo, perché per quanto non fossimo più dei fulmini di guerra e cominciassimo a sentire gli anni e la noia del sabato sera, non eravamo tanto mal ridotti da andare con una mignotta di strada. A causa del livello alcolico raggiunto con il coca e rum che ci facemmo in altro bar dopo il Giada, andammo a prelevare una scultura.

Ogni tanto, sempre oltre un certo livello alcolico, si andava a tirar su qualche scultura in una rivendita con il cancello basso ed esposizione all’aperto. Le sculture vicino al cancello s’intende, senza entrare. Bastava sporgersi un po’ per prendere per le orecchie il maialino di cemento. L’unico problema era il peso. Si trattava di oggetti di cemento, del peso di venti trenta chili minimo, anche se di dimensioni ridotte. Poi si lasciava in piazza o qualcuno lo portava in casa. Un amico pittore di Genova, che ogni tanto veniva dalle mie parti e dormiva da una zia, mise una di queste sculture nell’atrio del palazzo. Il giorno dopo scoppiò una lite tra vicini: “Io per questa roba qui non tiro fuori una lira!” sentì dire mentre faceva le scale. Quella roba lì era un nano. Un genere che non rubavamo molto volentieri. Troppo scontato. Preferivamo, oltre al maialino, i busti di personaggi famosi. Beethoven per esempio… Il nano nell’atrio fu fatto piangere con delle lacrime di glicerina. Il pittore impazziva per queste trovate concettuali. Ma nessuno ci fece caso e non scoppiò un caso tipo quando piangevano le madonne come invece sperava. Se piangono le madonne succede un casino, se piange un nano non gliene frega niente a nessuno. Quella sera, dopo avere prelevato un busto di Giulio Cesare, pesantissimo, come al solito, Tony aveva già dimenticato l’idea di fare il giro delle zoccole.

Finché passammo di fianco a una nera con la faccia ricoperta di una biacca bianca e mi disse “fermati, fermati” e io, siccome non c’era anima viva in giro che ci poteva vedere, lo accontentai. Scese, parlò con lei e lei salì davanti. La nera sembrava contenta di avere rimediato un cliente giovane, carino e apparentemente neanche troppo inscimmiato di alcol e si mise a chiacchierare perfino. Parlava del suo paese, la Nigeria, in un italiano gutturale e tagliato con l’accetta. Quando cacciò l’urlo poi si mise a parlare nella sua lingua africana. Gli occhi le erano finiti sullo specchietto retrovisore dove la fissava la faccia di cemento di Giulio Cesare. La visione assurda le provocò più spavento che se avesse visto una pistola o un cappio o delle manette. Ma Tony la convinse che non c’era niente di cui avere paura e lei si mise improvvisamente a ridere facendo subito svanire la presenza della paura. E senza esitazioni indicò di svoltare a destra, davanti all’autosalone, e di imboccare la stradina che scendeva nel letto del torrente Staffora. Sotto al ponte tutto era silenzioso. Lo Staffora era secco a parte qualche pozza di acqua ghiacciata e biancastra. E quando l’auto fu ferma Tony mi disse: “Per favore, te lo chiedo per favore, lasciami da solo in macchina, vatti a fare un giro per favore” e dopo avermi praticamente cacciato fuori tolse pure le chiavi dal cruscotto e si chiuse dentro.

Vidi sobbalzare la macchina mentre stavo accanto a un pilone del ponte a fumare, ero riuscito a farmi dare una sigaretta prima che mi sbattesse giù e mi chiudesse la portiera in faccia dicendo “torna dopo”.

“Dopo” fu abbastanza presto. Tony probabilmente non era mai stato con una nera che batteva la strada ma una sera poteva capitare: non era il tipo da riflettere troppo e tantomeno da ricordare di giorno quello che aveva combinato di notte. Del resto di giorno le nere non si vedevano mai alla luce del sole, forse le poteva incrociare qualche pendolare all’alba, perché arrivavano in treno di notte e in treno, alla fine della notte, se ne andavano lasciando dietro di sé qualche vago rimorso igienista e preservativi sparsi per la campagna che alla mattina giacevano gelati nell’erba bruciata dal freddo.  

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